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Title: Trionfo della Morte

Author: Gabriele D'Annunzio (1863-1938)

First Published: 1934

Date first posted: April 7, 2014

Date last updated: April 7, 2014

Faded Page eBook #20140415

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PROPRIETÀ LETTERARIA

 

TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI AL SODALIZIO

L'OLEANDRO

 

Ad Arnaldo Mondadori della Officina Bodoniana

l'Oleandro commette la stampa e ogni altra cura libraria.

 

1137

 

SI RITERRÀ CONTRAFFATTO QUALUNQUE ESEMPLARE DI QUEST'OPERA

CHE NON PORTI IL TIMBRO A SECCO DELL'OLEANDRO

 

PRINTED IN ITALY. MCMXXXIV


GABRIELE D'ANNUNZIO

 

I ROMANZI DELLA ROSA

 

TRIONFO

DELLA MORTE

 

IN ROMA

PER L'OLEANDRO · MCMXXXIV


TRIONFO DELLA MORTE


Es giebt Bücher, welche für Seele und Gesundheit einen umgekehrten Werth haben, je nachdem die niedere Seele, die niedrigere Lebenskraft oder aber die höhere und gewaltigere sich ihrer bedienen; im ersten Falle sind es gefährliche, anbröckelnde, auflösende Bücher, im anderen Heroldsrufe, welche die Tapfersten zu ihrer Tapferkeit herausforden.

Friedrich Nietzsche

Jenseits von Gut uud Böse. Aph. xxx.


A FRANCESCO PAOLO MICHETTI

Pongo il tuo nome anche in fronte a questo libro che sopra tutti singolarmente tu prediligi, o Cenobiarca: in fronte a questo libro che io ti ho scritto con curiosa lentezza nella sede dell'Arte Severa e del Silenzio.

Poi che l'ultima pagina fu compiuta, tu avesti comune con me quella sùbita ingannevole gioia su cui più tardi il crepuscolo primaverile diffuse un così puro velo di malinconia. E avesti comune con me il rammarico per le già lontane sere quando tu salivi alla mia cella remota e quivi, nella gran quiete conventuale, mentre fumigava entro le tazze la bevanda favorita e parevami si spandesse nell'aria il calore delle nostre intelligenze, io ti leggeva ad alta voce la mia scrittura recente. Era dolce per me quella tregua, e molto aspettata, dopo l'acerba lotta diurna. Il soprano gaudio cui possa oggi aspirare un artefice altero non sta forse nel rivelar l'opera ancor vergine e segreta a colui che è il suo pari, a colui che comprende tutto?

Avevamo più volte insieme ragionato d'un ideal libro di prosa moderno che—essendo vario di suoni e di ritmi come un poema, riunendo nel suo stile le più diverse virtù della parola scritta—armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero; alternasse le precisioni della scienza alle seduzioni del sogno; sembrasse non imitare ma continuare la Natura; libero dai vincoli della favola, portasse alfine in sé creata con tutti i mezzi dell'arte letteraria la particolar vita—sensuale sentimentale intellettuale—di un essere umano collocato nel centro della vita universa.

Tu ritroverai il riflesso di quella idea (ahimè, troppo pallido forse!) in questa opera quando vorrai considerarla tutta quanta nella sua interezza.

Qui è una sola unica dramatis persona, ed è rappresentata qui—con tutte le potenze dello strumento d'arte concessomi—la sua particolar visione dell'universo; o meglio: perocché l'uomo sia, secondo il verbo del tuo divino parente Leonardo, «modello dello mondo»: è qui rappresentato il suo universo. Il gioco delle azioni e delle reazioni tra la sua sensibilità singola e le cose esteriori è stabilito su una trama precisa di osservazioni dirette. I suoi sentimenti, le sue idee, i suoi gusti, le sue abitudini non variano secondo le vicende di una qualunque avventura svolta di pagina in pagina con l'aiuto di una logica più o meno severa; ma presentano il principal carattere d'ogni vita organica, consistente in un equilibrio definito tra ciò che è variabile e ciò che è stabile, tra le forme costanti e le forme avventizie fugaci illogiche. Una sensazione, un sentimento e un'idea iniziali, apparsi nelle prime pagine, si vanno sviluppando—secondo le leggi che governano i fenomeni—a traverso una selva innumerevole di segni varii che tutti corrispondono in una stessa anima comprensiva e perspicua. Dalla vana acredine di parole esalata sul sedile del Pincio alla feroce lotta notturna sul margine del precipizio, la persona sente pensa e si commuove in un continuo succedersi di stati della sua conscienza sempre vigile. Non v'è qui, in somma, la continuità di una favola bene composta ma v'è la continuità di una esistenza individua manifestantesi nel suo triplice modo per un limitato periodo di tempo.

V'è sopra tutto—se bene io sembro forse ambire che lo sforzo da me tentato, per rendere la vita interna nella sua copia e nella sua diversità, abbia un valore trascendente quello della pura rappresentazione estetica—v'è, sopra tutto, il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e sinfonica, ricca d'imagini e di musiche.

Concorrere efficacemente a constituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna: ecco la mia ambizione più tenace.

La massima parte dei nostri narratori e descrittori non adopera ai suoi bisogni se non poche centinaia di parole comuni, ignorando completamente la più viva e più schietta ricchezza del nostro idioma che qualcuno anche osa accusare di povertà e quasi di goffaggine. Il vocabolario adoperato dai più si compone di vocaboli incerti, inesatti, d'origine impura, trascoloriti, difformati dall'uso volgare che ha loro tolta o mutata la significazion primitiva costringendoli ad esprimere cose diverse e opposte. E questi vocaboli vengono coordinati in periodi quasi sempre eguali, mal connessi fra loro, privi d'ogni ritmo, che non hanno alcuna rispondenza col movimento ideale delle cose di cui vorrebbero dare un'imagine.

La nostra lingua, per contro, è la gioia e la forza dell'artefice laborioso che ne conosce e ne penetra e ne sviscera i tesori lentamente accumulati di secolo in secolo, smossi taluni e rinnovati di continuo, altri scoperti soltanto della prima scorza, altri per tutta la profondità occulti, pieni di meraviglie ancóra ignote che daranno l'ebrezza all'estremo esploratore.

Questa lingua, rampollata dal denso tronco latino con un rigoglio d'innumerevoli virgulti flessibili, non resiste mai ad alcuna volontà di chi abbia vigore e destrezza bastanti a piegarla e ad intesserla pur nelle ghirlande più agili e nei festoni più sinuosi.

Uscendo dalle figure, dico che la lingua italiana non ha nulla da invidiare e nulla da chiedere in prestito ad alcun'altra lingua europea non pur nella rappresentazione di tutto il moderno mondo esteriore ma in quella degli «stati d'animo» più complicati e più rari in cui analista si sia mai compiaciuto da che la scienza della psiche umana è in onore.

E gli psicologi appunto, poiché sembra che i nuovi romanzieri d'Italia inclinino a questa scienza, gli psicologi in ispecie hanno per esporre le loro introversioni un vocabolario d'una ricchezza incomparabile, atto a fermare in una pagina con precisione grafica le più tenui fuggevoli onde del sentimento, del pensiero e fin dell'incoercibile sogno. E, nel tempo medesimo, insieme con questi esattissimi segni, hanno elementi musicali così varii e così efficaci da poter gareggiare con la grande orchestra wagneriana nel suggerire ciò che soltanto la Musica può suggerire all'anima moderna.

Certo, in questi ultimi scrittori non può palesarsi alcuno dei caratteri che distinguono la tradizione novellistica paesana troppo remota e troppo discordante dallo stato presente della conscienza comune. Fra gli antichi novellatori di nostra lingua nessuno, rappresentando gli atti, fu mai curioso dei motivi. Presi negli intrichi delle tristi e liete avventure, essi tutti limitarono il loro officio a creare una vita schiettamente sensuale, lasciando agli uomini di chiostro l'officio di compor trattati su la natura dell'anima.

Se dunque i nuovi psicologi vogliono riallacciarsi ai padri, debbono ricercare gli asceti, i casuisti, i volgarizzatori di sermoni, di omelìe e di soliloquii; debbono comunicare col Frate da Scarperìa, con Bono Giamboni, con Caterina da Siena, con Giordano da Ripalta, col Cavalca, col Passavanti; debbono studiosamente mirarsi negli Specchi di Croce e pensosamente errare nei Giardini di Consolazione e alternare pazientemente la compagnia di Origene con quella di San Bernardo.

Né per trovar esempii di bella prosa musicale debbono essi escire dai buoni secoli. I nostri più grandi artefici della parola ereditarono dall'eloquenza latina lo studio del ritmo. In Roma la musica verbale fu parlata e scritta; prima si dilatò aerea dai rostri, poi si fermò per segni nei libri. Come Marco Tullio Cicerone modulava con bocca quasi canora i suoi periodi per produrre nell'intimo degli ascoltanti un moto veemente,—così Tito Livio nelle Decadi gareggiava di numeri con i poeti per amplificar la grandezza dell'anima romana nei fatti dal suo stile espressi. Entrambi sapevano che le sillabe, oltre il significato ideale, hanno una virtù suggestiva e commotiva ne' loro suoni composti.

Principe nella lingua nuova, il Boccaccio non ignorò e non trascurò questo mistero. Egli intese talvolta un assai dotto orecchio a variar le cadenze delle sue frasi abondevoli, per meglio esprimere la lenta lusinga feminile e la dolcezza degli amorosi errori. Nella voce limpida e volubile del Firenzuola fluiva talvolta la melodia dei ruscelli dechinanti per i colli sereni al Bisenzio. E certo Annibal Caro, prima di vergar sul foglio i segni, ascoltò dentro di sé le elette parole risonare a lungo come nella segreta caverna e nel golfo lunato ove mescevano ingenue lascivie i suoi due pastori.

Tu ritroverai dunque, o Cenobiarca, in questa prosa che ti ho scritta, qualche precisa imagine e qualche nobile ritmo. Durante un lustro io ho portata in me questa prosa per arricchirla e per addensarla. Come negli antichi Trionfi della Morte il pittore adunava le fuggitive grazie della Vita, così in questo Trionfo io più volte

                le feste ho celebrato

de' suoni, de' colori e de le forme.

Io ho circonfuso di luce, di musica e di profumo le tristezze e le inquietudini del morituro; ho evocato intorno alla sua agonia le più maliose Apparenze; ho disteso un tappeto variopinto sotto i suoi passi obliqui. Dinanzi a colui che perisce, una bella donna voluttuaria, terribilis ut castrorum acies ordinata, alta su un mistero di grandi acque glauche sparse di vele rosse, morde e assapora con lentezza la polpa d'un frutto maturo mentre dagli angoli della bocca vorace le cola giù pel mento il succo simile a un miele liquido.

E ti ho anche raccolta in più pagine, o Cenobiarca, l'antichissima poesia di nostra gente: quella poesia che tu primo comprendesti e che per sempre ami. Qui sono le imagini della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare. Sente talvolta il morituro passar nell'aria il soffio della primavera sacra; e, aspirando alla Forza, invocando un Intercessore per la Vita, ripensa la colonia votiva composta di fresca gioventù guerriera che un toro prodigioso, di singolar bellezza, condusse all'Adriatico lontano. Ma, come si spensero entro le mura ciclopiche di Alba de' Marsi il re numida Siface e l'ultimo dei re macedoni Perseo crudele, il tragico erede di Demetrio Aurispa si spegne qui ne' suoi brandelli di porpora straniero ed esule e prigione. Pace a lui nell'ombra della Montagna, ultimamente!

Noi tendiamo l'orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca; e prepariamo nell'arte con sicura fede l'avvento del Uebermensch, del Superuomo.

Dal Convento di S. M. Maggiore, G. d'A. nel calen d'aprile del 1894.


LIBRO PRIMO

IL PASSATO


I

Ippolita, quando vide contro il parapetto un gruppo di uomini chini a guardare nella strada sottoposta, esclamò soffermandosi:

—Che sarà accaduto?

Ella ebbe un piccolo moto di timore; e appoggiò involontariamente la mano sul braccio di Giorgio come per trattenerlo.

Giorgio disse, osservando i gesti di quegli uomini:

—Si sarà gettato giù qualcuno.

Soggiunse:

—Vuoi che torniamo indietro?

Ella esitò un poco, tra la curiosità e il raccapriccio. Rispose:

—No; seguitiamo.

Seguitarono pel viale estremo, lungo il parapetto. Involontariamente Ippolita accelerava il suo passo verso il gruppo dei curiosi.

In quel pomeriggio di marzo il Pincio era quasi deserto. Nell'aria grigia e sorda morivano i romori rari.

—È così—disse Giorgio.—Qualcuno s'è ucciso.

Ambedue si soffermarono, in vicinanza del gruppo. Tutti quegli uomini guardavano con occhi intentissimi il lastrico sottostante. Erano plebei oziosi. I loro volti diversi non esprimevano alcuna pietà e alcuna tristezza; l'immobilità dello sguardo metteva ne' loro occhi una specie di stupefazione bestiale.

Un giovinastro sopraggiunse, avido di vedere.

—Non c'è più—gli fece un tale, prima che colui si sporgesse; ed aveva nella voce un indefinibile accento tra di scherno e di giubilo, come rallegrandosi che lo spettacolo non potesse più da altri esser goduto.—Non c'è più. L'hanno già portato via.

—Dove?

—A Santa Maria del Popolo.

—Morto?

—Morto.

Un altro, un uomo scarno e verdiccio che portava intorno al collo una larga sciarpa di lana, si sporse molto; e, togliendosi di bocca la pipa, domandò ad alta voce:

—Che c'è rimasto?

La sua bocca era tòrta da un lato, rappresa come per una bruciatura, convulsa come se assaporasse una saliva amara di continuo rigurgitante; e la sua voce era profonda, come se uscisse da luoghi cavernosi.

—Che c'è rimasto?

Un carrettiere, giù nella strada, si chinava a piè della muraglia. I riguardanti tacquero, immobili, aspettando la risposta. Scorgevano soltanto, su le pietre, una chiazza nerastra.

—Poco sangue—rispose il carrettiere, ancóra curvo, cercando qualche cosa nella chiazza con la punta di una canna.

—E poi?—chiese di nuovo l'uomo della pipa. Il carrettiere si sollevò, tenendo in cima della canna qualche cosa che quei di sopra non vedevano.

—Capelli.

—Di che colore?

—Biondi.

Le voci, nel precipizio chiuso fra le due alte muraglie, avevano un rimbombo singolare.

—Giorgio, andiamo!—supplicò Ippolita, turbata, un poco pallida, scotendo l'amante che si sporgeva dal parapetto, in vicinanza del gruppo, attratto dall'atrocità della scena.

Oltrepassarono il luogo tragico, in silenzio. In ambedue persisteva il pensiero di quella morte, dolorosamente; e la loro tristezza era visibile.

Egli disse:

—Beati i morti perché non dubitano più.

Ed ella:

—È vero.

Uno scoramento infinito rendeva stanche le loro parole. Ella soggiunse, abbassando il capo, con un misto di amarezza e di compianto:

—Povero amore!

—Quale amore?—le chiese Giorgio, assorto.

—Il nostro.

—Tu lo senti dunque finire?

—Non in me.

—In me forse?

Una irritazione mal repressa inaspriva la voce di lui. Egli ripetè, guardandola:

—In me? Rispondi.

Ella tacque, riabbassando il capo.

—Non rispondi? Ah, tu sai bene che non diresti il vero.

Poi, dopo un intervallo in cui ambedue provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima, egli seguitò:

—Incomincia così l'agonia. Tu non te ne accorgi ancóra; ma io, da che tu sei tornata, ti guardo continuamente ed ogni giorno sorprendo in te un segno nuovo...

—Che segno?

—Un cattivo segno, Ippolita... Orribile cosa amare ed avere questa lucidità in tutti gli istanti eguale!

La donna scosse il capo, con un atto quasi violento; e si oscurò. Ancóra una volta, come tante altre volte, i due amanti divennero l'uno contro l'altra ostili. Ciascuno dei due si sentiva ferire dall'ingiustizia del sospetto e si ribellava, interiormente, con una collera sorda; ch'erompeva talora in parole crude e irreparabili, in accuse gravi, in recriminazioni enormi. Una invincibile smania li assaliva, di torturarsi a vicenda, di pungersi, di martoriarsi il cuore.

Ippolita si oscurò e si chiuse, corrugando i sopraccigli, serrando la bocca, mentre Giorgio la guardava con un sorriso irritante.

—Incomincia così—egli riprese persistendo in quel sorriso acerbo, in quello sguardo acuto. —Tu provi in fondo all'anima una inquietudine, una specie d'impazienza vaga, che tu non sai soffocare. Standomi vicina, tu senti che qualche cosa in fondo all'anima ti si leva contro di me, quasi una ripugnanza istintiva, che tu non sai soffocare. E divieni taciturna; e devi fare uno sforzo immane per dirmi una parola; e intendi male quel ch'io ti dico; e involontariamente, anche in una risposta insignificante, la tua voce è dura.

Ella non l'interruppe neppur con un gesto. Ferito da quel silenzio egli seguitò; e lo spingeva non soltanto la smania acre di tormentare la sua compagna, ma anche un certo gusto disinteressato delle investigazioni reso più acuto e più letterario dalla cultura. Egli, infatti, cercava di mettere nelle sue parole la sicurezza e l'esattezza dimostrativa apprese nelle pagine degli analisti; ma come nei soliloquii la sua considerazione mentale formulata esagerava ed alterava lo stato interno a cui si riferiva, così nei colloquii spesso la preoccupazione della perspicacia oscurava la sincerità del suo sentimento e lo traeva in errore su i moti intimi altrui ch'egli voleva scoprire. 11 suo cervello, ingombrato da un ammasso di osservazioni psicologiche personali e apprese da altri analisti, spesso confondeva e scomponeva tutto, fuori e dentro. Egli dava al suo spirito attitudini arteficiose e irreparabili.

Seguitò:

—Bada; io non ti rimprovero. Tu non hai colpa. Ciascuna anima umana contiene in sé una data quantità di forza sensitiva da spendere in un amore. Necessariamente quella quantità si consuma nel tempo come ogni altra cosa. Quando è esaurita, nessuno sforzo vale ad impedire che l'amore finisca. E tu mi ami già da molto tempo; da quasi due anni! Il due di aprile cade il secondo anniversario. Ci hai pensato?

Ella scosse la testa. Egli ripetè, come a sé medesimo:

—Due anni!

Camminarono verso un sedile, e sedettero. Nel piegarsi, Ippolita aveva un'aria di grave stanchezza, quasi di abbattimento. Una pesante carrozza nera passò nel viale, facendo stridere la ghiaia; dalla via Flaminia giunse fioco lo squillo d'una cornetta; il silenzio rioccupò i dintorni arborati; gocce di pioggia, rare, cadevano.

—Sarà funebre questo secondo anniversario—riprese a dire Giorgio, implacabile contro la taciturna.—Eppure, bisognerà che noi lo celebriamo. Io ho il gusto delle cose amare.

Ippolita mostrò il suo dolore in un sorriso impreveduto. Poi disse, con impreveduta dolcezza:

—Perché tutte queste cattive parole?

E guardò Giorgio negli occhi, a lungo e a dentro. Ambedue, di nuovo, provarono un'ansietà inesprimibile di leggersi nell'anima. Ella sapeva bene da quale orribile male fosse compreso il suo amante; ella sapeva bene l'oscura causa di quell'acredine. Soggiunse, perché egli parlasse, perché egli esalasse la sua pena:

—Che hai?

Egli era rimasto come confuso da quell'accento di bontà, che non aspettava. Sentendosi da quell'accento indovinare e commiserare, egli sentì in sé crescere la pietà di sé medesimo; e una profonda commozione gli alterò tutto l'essere.

—Che hai?—ripeté Ippolita toccandogli una mano, quasi per aumentare sensualmente il potere della sua dolcezza.

—Che ho?—egli rispose.—Amo.

Le sue parole avevano perduto ogni punta. Mostrando la sua piaga immedicabile, egli s'impietosiva su sé medesimo. I vaghi rancori, che serpeggiavano in fondo al suo spirito contro la donna, parvero dileguarsi. Egli riconosceva ingiusto ogni risentimento contro di lei, riconoscendo un ordine superiore di necessità fatali. La sua miseria non proveniva da alcuna creatura umana, ma dall'essenza stessa della vita. Egli non doveva dolersi dell'amata ma dell'amore. L'amore, a cui per natura tutto il suo essere tendeva con invincibile veemenza, l'amore era la più grande fra le tristezze terrene. Ed egli era legato a quella suprema tristezza, forse fino alla morte.

Come egli taceva sopra pensiero, Ippolita gli domandò:

—Tu credi dunque, Giorgio, che io non ti ami?

—Ebbene, sì, guarda: io credo che tu mi ami—egli rispose.—Ma puoi tu provarmi che domani, che fra un mese, che fra un anno, che sempre sarai egualmente felice d'esser mia? Puoi tu provarmi che ora, in questo attimo, sei tutta mia? Che cosa posseggo io di te?

—Ogni cosa.

—Nulla, o quasi nulla. Io non posseggo quel ch'io vorrei possedere. Tu mi sei ignota. Come qualunque altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile; e la più ardente passione non mi aiuterà a penetrarlo. Delle tue sensazioni, dei tuoi sentimenti, dei tuoi pensieri io non conosco se non una minima parte. La parola è un segno imperfetto. L'anima è intrasmissibile. Tu non puoi darmi l'anima. Anche nella più alta ebrezza, noi siamo due, sempre due, separati, estranei, interiormente solitarii. Io bacio la tua fronte; e sotto la fronte si muove forse un pensiero che non è mio. Ti parlo; e forse una mia frase ti risveglia nello spirito un ricordo d'altri tempi, non del mio amore. Un uomo passa, un uomo ti guarda; e nel tuo spirito si produce un qualunque moto ch'io non posso sorprendere. E io non so quante volte un riflesso della tua vita anteriore illumini il momento presente... Oh, di quella vita, io ne ho una paura folle!—Sono accanto a te; mi sento tutto invaso dalla delizia che mi viene in certe ore dalla tua sola presenza; ti accarezzo, ti parlo, ti ascolto; mi abbandono. D'un tratto, un pensiero mi agghiaccia. Se io, inconsapevolmente, suscitassi in te una memoria, il fantasma d'una sensazione già provata, una malinconia dei più lontani giorni? Io non ti saprò mai dire la mia sofferenza. Quel calore, che mi dava il sentimento illusorio di non so qual comunione fra me e te, cade d'un tratto. Tu mi sfuggi, ti allontani, diventi inaccessibile. Io rimango solo, in una solitudine spaventevole. Dieci, venti mesi d'intimità non sono più nulla. Tu mi sembri estranea come quando non mi amavi. Ed io non ti accarezzo più, non parlo più; mi chiudo; evito qualunque manifestazione esteriore; ho paura che ogni minimo urto possa sollevare nel fondo del tuo spirito quei sedimenti oscuri che vi ha accumulati la vita irrevocabile. E allora cadono su noi quei lunghi silenzi angosciosi, in cui le forze del cuore si consumano inutilmente, miseramente. Io ti domando: «A che pensi?» Tu mi rispondi: «A che pensi?» Io non so il tuo pensiero; tu non sai il mio. Il distacco si fa sempre più profondo; diventa un abisso. E il guardare in quell'abisso è un'angoscia così forte che, per una specie d'istinto cieco, io mi getto sul tuo corpo, ti stringo, ti soffoco, impaziente di possederti. La voluttà è alta, come non mai. Ma quale voluttà può compensare l'immensa tristezza che sopraggiunge?

Ippolita disse:

—Io non provo questo. Io ho più abbandono. Forse, amo di più.

Di nuovo, questa affermazione di superiorità punse l'infermo.

Ippolita disse:

—Tu pensi troppo. Tu segui troppo il tuo pensiero. Il tuo pensiero ti attrae forse più che io non ti attragga, perché è sempre nuovo e sempre diverso; mentre io ho già perduta ogni novità. Nei primi tempi del tuo amore, tu eri meno pensoso e più spontaneo. Non avevi ancóra preso il gusto delle cose amare, perché eri più largo di baci che di parole. Già che, come tu dici, la parola è un segno imperfetto, non bisogna abusarne. Tu ne abusi, quasi sempre con crudeltà.

Poi, dopo un intervallo di silenzio, allettata ella stessa da una frase, non potendo resistere al desiderio di proferirla, soggiunse:

—L'anatomia presuppone il cadavere.

Come l'ebbe proferita, si pentì. La frase le parve volgarissima, poco feminina, acerba. Ella si rammaricò di non aver conservato quel tono di dolcezza e d'indulgenza, da cui dianzi Giorgio era rimasto confuso. Ancóra una volta ella mancava al proposito d'essere per l'amico una paziente e delicata medicatrice.

—Vedi,—ella disse, mostrando nella voce quel rammarico—tu mi guasti.

Egli appena sorrise. Ambedue sentivano che in quella disputa non avevano ferito se non l'amore.

La carrozza prelatizia ripassò, al piccolo trotto di due cavalli neri dalle code intonse. Gli alberi prendevano un'apparenza spettrale, come più l'aria s'illividiva nel tramonto umidiccio. Plumbee violacee le nuvole fumigavano, sul Palatino, sul Vaticano. Una striscia di luce gialla come solfo, diritta come una spada, rasentava il Monte Mario, dietro i cipressi aguzzi.

Giorgio pensava: «Mi ama ella ancóra? E perché è così irritabile? Sente ella forse che io dico la verità o ciò che sta per essere la verità? L'irritazione è un sintomo. Ma questa irritazione sorda e continua non è anche in fondo a me? Io so in me la causa vera. Sono geloso. Di che? Di tutto:—delle cose che si riflettono ne' suoi occhi...»

Egli la guardò. «È bellissima, oggi. È pallida. Mi piacerebbe sempre afflitta e sempre malata. Quando ella si colorisce, mi pare un'altra. Quando ella ride non posso difendermi da un vago sentimento ostile, quasi d'ira contro il suo riso. Non però sempre.»

Il suo pensiero si perse nel pomeriggio. Notò fuggevolmente una segreta rispondenza tra l'aspetto della sera e l'aspetto dell'amata, godendone. Dal pallore di quel volto bruno traspariva come una leggera soffusione di viola sotto la pelle; ed ella aveva intorno al collo un piccolo nastro giallo, delicatissimo, che lasciava scoperti i due nèi bruni. «È molto bella. Il suo viso ha quasi sempre un'espressione profonda, significativa, appassionata. Qui sta il segreto del suo fascino. La sua bellezza non mi stanca mai; mi suggerisce sempre un sogno. Di che si compone la sua bellezza? Non saprei dire. Materialmente, non è bella. Qualche volta, guardandola, io ho provata la sorpresa penosa di una disillusione. I suoi lineamenti mi sono apparsi nella loro materiale verità, non modificati, non illuminati dalla forza di un'espressione spirituale. Ella ha però tre divini elementi di bellezza: la fronte, gli occhi, la bocca: divini.»

Gli si ripresentò al pensiero il riso. «Che mi raccontava ella, ieri? Mi raccontava non so più che cosa, di sua sorella: un piccolo fatto comico avvenuto in casa di sua sorella, a Milano, quando ella era là... Che ridere!... Ella dunque poteva ridere, lontana da me; poteva essere gaia. Ed ho le sue lettere. Tutte le sue lettere sono piene di tristezza, di pianto, di desiderio disperato.»

Egli provò un'acuta puntura, e poi una inquietudine tumultuosa come se fosse d'innanzi a un fatto grave ed irreparabile ma non bene chiarito. Avveniva in lui il consueto fenomeno della esagerazione sentimentale, per via d'imagini associate. Quell'innocente scoppio di risa si mutava in una ilarità continua, di tutti i giorni, di tutte l'ore, per tutto il periodo dell'assenza. Ippolita aveva vissuto lietamente, d'una vita volgare, tra gente ch'egli non conosceva, tra gli amici del cognato, tra ammiratori, tra gente stupida. Le sue lettere dolorose mentivano. Un brano d'una lettera gli tornò nella memoria, preciso.—Qui la vita è insopportabile. Amici ed amiche ci assediano; non ci lasciano in pace un'ora. Tu sai la cordialità milanese...—Una chiara visione gli sorse nello spirito: Ippolita in mezzo a una folla borghese d'impiegati, d'avvocati, di mercanti. Ella sorrideva a tutti, stendeva a tutti la mano, ascoltava i discorsi melensi, rispondeva una frase sciocca, si mescolava a quella volgarità.

In quel momento gli pesò sul cuore tutta la sofferenza provata in due anni al pensiero della vita che la sua amante conduceva, tra gente sconosciuta, nelle ore in cui ella non poteva restare con lui. «Che fa ella? Chi vede? Con chi parla? Quale atteggiamento ha verso quelle persone che ella conosce, con cui ella convive?» Eterne interrogazioni, senza risposta.

Il tormentato pensò: «Ognuna di quelle persone le toglie qualche cosa; toglie qualche cosa a me. Io non saprò mai quali influenze quelle persone abbiano esercitato su di lei; quali sentimenti, quali pensieri abbiano suscitato in lei. Ella è bella, piena di seduzioni; ha quel genere di bellezza che flagella gli uomini e li fa desiderosi. In mezzo a quella orribile folla, ella è stata desiderata. Il desiderio di un uomo trasparisce da uno sguardo, e lo sguardo è libero; e una donna è in balìa dello sguardo di chi la desidera. Che prova una donna, accorgendosi d'essere desiderata? Non rimane, certo, impassibile. Deve avvenire in lei un turbamento, un qualsiasi moto; e sia pure di ripugnanza, e sia pure di ribrezzo. Ora, ecco che un qualunque uomo può turbare la donna che mi ama. Qual sorta di possesso è dunque il mio?»

Egli soffriva forte, poiché le imagini fisiche illustravano il suo ragionamento interiore.

«Io amo Ippolita; con una passione che io crederei inestinguibile, se non sapessi che ogni amore umano deve avere una fine. Io l'amo e non imagino voluttà più alte di quelle che ho da lei. Pure, più d'una volta, vedendo passare una donna, io sono stato assalito da un desiderio repentino; più d'una volta, due occhi di donna, veduti in qualche luogo, fuggevolmente, mi hanno lasciato nell'anima non so che vago solco di malinconia. Più d'una volta, ho pensato d'una donna che passava, d'una donna incontrata in un salotto, dell'amante d'un mio amico:—Quale sarà la sua maniera di amare? Quale sarà il suo segreto voluttuoso?—E per qualche tempo quella donna ha incitata la mia imaginazione, senza troppa vivezza, ma con una insistenza lenta, a intervalli. Taluna di quelle imagini s'è anche presentata d'improvviso nel mio spirito, mentre io tenevo sotto le mie carezze Ippolita. Or bene, perché ella stessa non potrebbe essere sorpresa da un desiderio vedendo passare un uomo? Se io avessi il dono di guardarla nell'anima e la vedessi attraversata da uno di quei desiderii, sia pure come da un lampo, certo io crederei macchiata la mia amante d'una macchia indelebile e crederei morire di dolore. Io non potrò mai avere questa prova materiale, perché natura vuole che l'anima della mia amante sia invisibile e impalpabile, pur essendo assai più del corpo esposta alle violazioni. Ma le analogie m'illuminano. La possibilità non è dubbia. Forse, in questo istante medesimo, ella guarda dentro di sé una macchia recente e la vede, sotto il suo sguardo, dilatarsi.»

Egli ebbe un gran sussulto, all'urto del dolore. Ippolita gli chiese, con voce dolce:

—Che hai? A che pensavi?

Egli rispose:

—A te.

—Come?

—Male.

Ippolita sospirò. Poi chiese:

—Vuoi che andiamo?

Egli rispose:

—Andiamo.

Si levarono. Si rimisero per la via che avevano dianzi percorsa. Ippolita disse, piano, con le lacrime nella voce:

—Che sera triste, amor mio!

Si soffermò, come per raccogliere e per assaporare la tristezza sparsa nel giorno morente. Il Pincio, intorno, era deserto ormai, silenzioso, pieno d'un'ombra violetta in cui le erme biancheggiavano come sepolcri. La città sottoposta si copriva di ceneri. Gocce di pioggia, rare, cadevano.

—Dove andrai stasera?—chiese ella.—Che farai?

Egli rispose, desolato:

—Io non so che farò.

Mentre soffrivano stando l'uno presso l'altra, pensavano con terrore a una nota e ben più dura sofferenza che li aspettava. Essi sapevano quale orribile strazio le imaginazioni notturne avrebbero fatto delle loro anime senza difesa.

—Se tu vuoi, vengo da te, questa notte—disse Ippolita, timidamente.

L'amante, che si sentiva dentro divorare da un sordo rancore ed incitare come da una smania d'esser cattivo, di vendicarsi, rispose:

—No.

Ma il cuore gli oppose: «Tu non potrai rimaner lontano da lei, questa notte; non potrai, non potrai.» E, in mezzo alle cieche incitazioni ostili, sentendo questa impossibilità, avendo chiara conscienza di questa assoluta impossibilità, egli provò una specie di brivido interno, uno strano brivido come di esaltante fierezza, in conspetto della

grande passione da cui era posseduto. Ripeté a sé medesimo: «Io non potrò rimanere lontano da lei, questa notte; non potrò.» Ebbe il sentimento oscuro d'una forza estranea che lo dominava. Un soffio tragico gli passò su lo spirito.

—Giorgio!—esclamò Ippolita stringendogli il braccio, un poco sbigottita.

Egli trasalì. Riconobbe il luogo dove prima s'erano fermati a guardare nel lastrico sottoposto la macchia di sangue lasciata dal suicida; domandò:

—Hai paura?

Ella rispose tenendogli ancóra il braccio:

—Un poco.

Egli si staccò da lei, si avvicinò al parapetto e si sporse. L'ombra già occupava il fondo della strada; dove egli credette scorgere la macchia nerastra, perché ne aveva ancora fresca l'imagine nella memoria. Le suggestioni della sera crearono vagamente un fantasma del corpo morto: una forma indecisa di giovane, con un capo biondo, sanguinoso. «Chi era colui? Perché si è ucciso?» Vide sé stesso in quella forma, spento. Alcuni pensieri, rapidissimi, senza legame, gli attraversarono il cervello. Rivide come nella luce d'un baleno il suo povero zio Demetrio, il minor fratello di suo padre, il consanguineo suicida:—una faccia nascosta da un velo nero, sul guanciale bianco; una mano lunga, pallida, ma piena d'una espressione virile; su la parete una piccola pila d'argento, per l'acqua santa, sospesa a tre catenelle, che si moveva al vento di tratto in tratto con un tintinno. «Se io mi gettassi? Un semplice salto in avanti; e la caduta, celere. Si smarrisce la conoscenza, a traverso lo spazio?» Egli imaginò fisicamente l'urto del corpo contro la pietra; e rabbrividì. Poi per tutto il corpo provò come una ripulsione forte, angosciosa e mista d'una strana dolcezza. L'imaginazione gli rappresentò la delizia della prossima notte:—l'addormentarsi a poco a poco nel languore; il risvegliarsi con una piena di tenerezza misteriosamente accumulata nel sonno. Imagini e pensieri si succedevano in lui con una straordinaria rapidità.

Come si rivolse, incontrò gli occhi di Ippolita fissi su di lui, grandi, smisurati; e gli parve di leggere quel che esprimevano. Le si avvicinò; mise il suo braccio sotto il braccio di lei, con un gesto affettuoso ch'eragli familiare. Ed ella se lo strinse forte contro il fianco. Ambedue provavano un bisogno improvviso di stringersi, di mescolarsi, perdutamente.

—Si chiude! Si chiude!

Il grido dei guardiani risonò nel silenzio, sotto gli alberi.

—Si chiude!

Dopo il grido, il silenzio pareva più lugubre; e quelle due parole, urlate a squarciagola da uomini invisibili, davano ai due amanti un urto fastidioso. Per mostrare che avevano udito e che si disponevano ad uscire, essi affrettarono il passo. Ma ostinate le voci, di qua, di là, per i viali deserti ripetevano:

—Si chiude!

—Maledizione!—esclamò Ippolita con un gesto d'impazienza, esasperata, affrettando ancóra il passo.

La campana della Trinità de' Monti sonò l'Angelus. Roma apparve come una immensa nuvola grigia, informe, che radesse il suolo. Qualche finestra, nelle case prossime sottostanti, già rosseggiava, dilatata dalla caligine. Gocce di pioggia, rare, cadevano.

—Tu verrai da me, questa notte; è vero?—chiese Giorgio.

—Sì, sì; verrò.

—Verrai presto?

—Verrò alle undici.

—Se tu non venissi, io morirei.

—Verrò.

Si guardarono negli occhi; si scambiarono una promessa inebriante.

Egli chiese, vinto dalla tenerezza:

—Mi perdonerai?

Di nuovo si guardarono, con uno sguardo infinitamente lusinghevole.

Egli disse, piano:

—Adorata!

Ella disse:

—Addio. Fino alle undici, pensami.

—Addio.

Erano in fondo alla via Gregoriana. Si separarono. Ella discese per la via di Capo Le Case. Egli la guardò allontanarsi giù pel marciapiede bagnato che riluceva al riflesso delle vetrine. «Ecco, ella mi lascia. Rientra in una casa a me ignota, rientra nella sua vita volgare, si spoglia dell'idealità di cui la vesto; diventa un'altra donna, una donna comune. Io non so più nulla di lei. Le brutte necessità della vita la prendono, la occupano, la umiliano...» Dalla bottega di un fioraio gli venne sul viso un profumo di violette. Il cuore gli si gonfiò di aspirazioni confuse. «Ah, perché dunque non potremmo noi rendere la nostra esistenza conforme al nostro sogno e vivere per sempre in noi soli?»

II

Giorgio dormiva, verso le dieci della mattina, uno di quei profondi sonni ristoratori che nella giovinezza seguono una notte di voluttà; quando il domestico venne a svegliarlo.

Egli gridò, di pessimo umore, rivoltandosi nel letto:

—Non sono in casa per nessuno. Lasciatemi.

Ma udì la voce dell'importuno, che dalla camera attigua pregava:

—Perdona, Giorgio, se ho insistito. Ho bisogno urgente di parlarti.

Riconobbe la voce di Alfonso Exili, e il suo fastidio crebbe.

Questo Exili era un antico suo compagno di collegio, un giovine di mediocre intelligenza, rovinatosi al giuoco e alla crapula, diventato una specie di avventuriere alla caccia del soldo. Costui poteva sembrare ancóra un bel giovine, sebbene la sua faccia fosse devastata dal vizio; ma aveva nella sua persona e ne' suoi modi quel non so che di furbesco e d'ignobile che acquistano gli uomini costretti a vivere di espedienti e di umiliazioni.

Entrò, aspettò che il domestico fosse uscito, assunse un'aria un po' sconvolta; e disse, mangiandosi a mezzo le parole:

—Scusa, Giorgio, se ricorro a te anche questa volta. Ho da pagare un debito di giuoco. Aiutami. Si tratta d'una piccola somma: trecento lire. Scusa, Giorgio.

—Ah, tu dunque paghi i tuoi debiti di giuoco?—gli chiese Giorgio infliggendogli con perfetta incuranza l'ingiuria; perché, non avendo egli saputo rompere ogni rapporto con quel glutinoso scroccatore, adoperava contro di lui il disprezzo come altri adopera un bastone per preservarsi dal contatto di un animale immondo.—Mi fai stupire.

L'Exili sorrise.

—Via, non essere cattivo!—pregò, con una voce supplichevole, come una femmina.—Me le dai, queste trecento lire? Su la mia parola d'onore, domani te le rendo.

Giorgio scoppiò a ridere. Sonò il campanello, per chiamare il domestico. Venne il domestico.

—Cercate il mazzo delle piccole chiavi, là, in quegli abiti che sono sul divano.

Il domestico trovò le chiavi.

—Aprite, là, il secondo tiretto. Datemi il portafoglio grande.

Il domestico gli diede il portafoglio.

—Andate.

Come il domestico uscì, l'Exili disse, con un sorriso fra timido e convulso:

—Non potresti darmene quattrocento?

—No. Tieni. Sieno le ultime. Vattene.

Giorgio non gli porse il denaro, ma lo posò su la sponda del letto. L'Exili sorrise, prendendolo, mettendoselo in tasca. Poi, con un tono ambiguo tra di adulazione e d'ironia, disse:

—Tu hai un cuore nobile.

Si guardò intorno.

—Tu hai anche una deliziosa camera da letto.

Si sedé sopra un divano; si versò un bicchierino di liquore; si riempì di sigari un astuccio.

—Chi è ora la tua amante? Non è più quella dell'anno scorso; è vero?

—Vattene, Exili. Voglio dormire.

—Che splendida creatura, quella! I più belli occhi di Roma... È ancóra qui? Da qualche tempo non l'incontro. Dev'essere andata fuori. Ha una sorella a Milano, mi pare.

Egli si versò un altro bicchierino e lo bevve d'un fiato. Ciarlava forse appunto per avere il tempo di vuotare la boccia.

—È divisa dal marito; è vero? Credo che si debba trovar male, in finanze. Ma veste sempre bene. L'incontrai, circa due mesi fa, pel Babuino. Sai chi sarà forse il tuo successore? Quel Monti... Tu non lo devi conoscere: un mercante di campagna, un giovine alto, grosso, biondiccio. Quel giorno appunto la seguiva, pel Babuino. Tu sai: si vede sùbito, quando un uomo corre dietro a una donna... Quel Monti ha molti quattrini.

Pronunciò l'ultima parola con un indefinibile accento, misto d'invidia e d'ingordigia, odioso. Poi bevve per la terza volta, senza far rumore.

—Giorgio, dormi?

Giorgio non rispose, fingendo di dormire, sebbene avesse tutto ascoltato. Ma egli temeva che l'Exili udisse i battiti del cuore a traverso la coltre.

—Giorgio!

Egli finse di scuotersi da un dormiveglia.

—Come! Sei ancóra qui? Non te ne vai?

—Me ne vado—fece l'Exili, avvicinandosi al letto.—Guarda qua: una forcina di tartaruga!

Si chinò per raccoglierla, sul tappeto; la esaminò curiosamente; la posò su la coperta.

—Che uomo fortunato!—fece con quel suo tono ambiguo d'ironia e di adulazione.—Dunque a rivederci e grazie.

Tese la mano; ma Giorgio non mosse la sua di sotto la coltre. Il ciarlatore si rivolse alla porta.

—Tu hai un cognac squisito. Ne prendo un altro bicchierino.

Ribevve ed uscì, lasciando Giorgio nel letto ad assaporare il tossico.

III

Il due di aprile cadeva il secondo anniversario.

—Bisogna questa volta celebrarlo fuori di Roma—disse Ippolita.—Bisogna che noi passiamo una gran settimana d'amore, soli, dovunque, ma fuori di qui.

Giorgio disse:

—Ti ricordi, l'anno scorso, il primo anniversario?

—Mi ricordo.

—Era di Pasqua, la Domenica di Pasqua...

—Io venni da te, la mattina, alle dieci...

—Tu avevi la piccola giacca inglese che mi piaceva tanto; avevi teco il libro delle preghiere...

—Non andai alla messa, quella mattina!...

—Avevi però tanta fretta...

—Ero quasi fuggita di casa. Tu sai: di festa, non mi lasciavano mai sola. Eppure, rimasi con te fino a mezzogiorno. E avevamo gente a colazione, quella mattina!...

—Dopo, in tutto il giorno, non ci vedemmo più! Fu un anniversario malinconico...

—È vero.

—E che sole!

—E tutti quei tuoi fiori, nella stanza...

—Ero uscito di casa io stesso, per tempo; avevo comprata l'intera piazza di Spagna...

—Mi gettasti addosso una quantità di rose sfogliate, mi mettesti tante foglie nel collo, dentro le maniche... Ti ricordi?

—Mi ricordo.

—Poi a casa, quando mi spogliai, le ritrovai tutte...

Ella sorrise.

—E mio marito, quando rientrai, scoperse una foglia sul mio cappellino, in una piega del merletto!

—Me lo dicesti.

—Non uscii più di casa, quel giorno; non volli più uscire. Ripensai, ripensai... Sì, fu un anniversario malinconico.

Poi, dopo un intervallo di silenzio pensoso:

—Credevi tu, in cuor tuo, che saremmo giunti al secondo?

—Io, no.

—Io, neppure.

Giorgio pensò: «Ecco l'amore, che ha in sé il presentimento della sua fine!» Pensò anche al ricordato marito, senza odio; anzi con una specie di benevolenza compassionevole. «Ella ora è libera. Ma perché io sono ora più inquieto che allora? Quel marito era per me come un'assicurazione. Mi pareva ch'egli custodisse la mia amante contro ogni pericolo. Forse m'illudo. Io soffrivo molto, anche allora. Ma la sofferenza passata par sempre men dura della presente.» Seguendo il suo pensiero, egli non ascoltava le parole d'Ippolita.

Ella diceva:

—Dunque, dove andremo? Bisogna decidere. Domani è il primo d'aprile. Io ho già detto a mia madre: «Sai, mamma; uno di questi giorni vado via.» La sto preparando. Le inventerò qualche favola credibile. Lascia fare.

Ella parlava lieta; sorrideva. Ed egli credè scoprire in quel sorriso, onde s'illustravano le ultime parole, la spontanea compiacenza che la donna prova nell'ordire un qualunque inganno. Gli spiacque la facilità con cui ella poteva ingannare la madre. Ripensò ancóra, con un senso di rimpianto, la vigilanza del marito. «Perché io soffro tanto, di questa sua libertà che pure è al servigio del mio piacere? Non so che darei per sottrarmi al mio pensiero fisso, al mio timore che la offende. Io l'amo e la offendo; l'amo e la credo capace di un'azione bassa!»

—Bisogna però—ella diceva—bisogna che non andiamo troppo lontano. Non conosci tu un luogo tranquillo, solitario, pieno di alberi, un poco strano? Tivoli, no; Frascati, no.

—Prendi il Baedeker, là sul tavolo; e cerca.

—Cerchiamo insieme.

Ella prese il libro rosso; si mise in ginocchio accanto alla poltrona dov'egli era seduto; e incominciò a sfogliare, con gesti graziati, d'una grazia infantile. Leggeva a quando a quando un brano a voce bassa.

Egli la guardava, attratto dalla finezza della nuca; d'onde si rialzavano verso la sommità della testa i capelli attorti come in una voluta, neri e lucidi. Guardava i due piccoli nei bruni, i gemelli, che stavano l'uno accanto all'altro sul collo pallido, vellutato, a cui davano una attrattiva di più. Notò ch'ella non portava orecchini. Da tre o quattro giorni non portava i soliti orecchini di zaffiro. «Li ha sacrificati forse a un'angustia familiare? Nella sua casa, ella è forse angustiata da dure necessità quotidiane.» Egli guardò in faccia il suo pensiero fisso, con una specie di violenza interiore. Era questo. «Quando sarà stanca di me (e sarà tra breve), ella cadrà nelle mani di qualcuno che le offrirà una esistenza facile, che la toglierà dalle strettezze domestiche, in cambio di piacere. Costui potrà anche essere il mercante di cui parlava l'Exili. Pel disgusto delle piccole miserie, ella vincerà il nuovo disgusto. Si adatterà. Forse anche non dovrà vincere alcuna ripugnanza, perché l'offerente le sarà gradito.»

Gli venne alla memoria l'amante di un amico, la contessa Albertini. Costei, divisa dal marito, rimasta libera in condizioni disgraziate, era discesa a poco a poco negli amori remunerativi salvando con garbo le apparenze. Un altro esempio gli venne alla memoria, avvalorando la possibilità temuta. E, d'innanzi alla chiara possibilità che emergeva dall'avvenire oscuro, egli provò un dolore ineffabile.—I suoi timori non dovevano aver tregua. Egli doveva, o prima o poi, veder cadere la creatura che aveva innalzato. Di simili degradazioni era piena la vita.

Ella diceva, quasi lamentandosi:

—Io qui non trovo nulla. Gubbio, Narni, Viterbo, Orvieto... Ecco qui la pianta di Orvieto: monastero di San Pietro, monastero di San Paolo, monastero del Gesù, monastero di San Bernardino, monastero di San Ludovico; convento di San Domenico, convento di San Francesco, convento dei Servi di Maria...

Ella leggeva con una specie di cantilena, come se recitasse una litania. D'un tratto, si mise a ridere, rovesciando il capo, offrendo la bella fronte alle labbra dell'amante. Era ella in uno di que' suoi momenti di bontà espansiva, che la facevano sembrare una fanciulla.

—Quanti monasteri! Quanti conventi! Deve essere un paese strano. Vuoi che andiamo a Orvieto?

Parve a Giorgio di ricevere sul cuore un'ondata improvvisa di freschezza. Egli si abbandonò, con riconoscenza, a quella consolazione. Come premeva le labbra su la fronte d'Ippolita, ivi colse il ricordo della deserta città guelfa che tace adorando il suo bel Duomo.

—Orvieto! Non ci sei mai stata? Figùrati, in cima a una roccia di tufo, sopra una valle malinconica, una città silenziosa tanto che pare disabitata:—finestre chiuse; vicoli grigi dove cresce l'erba; un cappuccino che attraversa una piazza; un vescovo che scende da una carrozza fermata d'innanzi a un ospedale, tutta nera, con un servo decrepito allo sportello; una torre in un cielo bianco, piovigginoso; un orologio che suona le ore lentamente; d'un tratto, in fondo a una via, un miracolo: il Duomo.

Ippolita disse, un po' sognando, quasi avesse dentro gli occhi la visione della città silenziosa:

—Che pace!

—Io la vidi di febbraio, con un tempo come questo d'oggi, incerto: un po' di pioggia, un po' di sole. Ci rimasi un giorno; partii con tristezza; portai meco la nostalgia di quella pace... Oh che pace! Ero in compagnia di me stesso; pensavo: «Avere un'amante, o più tosto una sorella amante, che fosse piena di divozione; e venire qui, restare qui un lungo mese, il mese di aprile: un aprile un po' piovigginoso, cinerino, ma tiepido, con qualche sprazzo di sole. E passare molte ore dentro la cattedrale, d'innanzi, d'intorno; andare a cogliere le rose negli orti dei conventi; andare a prendere dalle monache le confetture; bere l'Est Est Est in una tazzetta etrusca; amare e dormire molto, in un letto soffice, tutto velato di bianco, verginale...»

Ippolita sorrise a quel sogno, felice. Ella disse, con un'aria di candore:

—Io sono divota. Conducimi a Orvieto!

Ella si raccolse tutta ai piedi dell'amato; gli prese le mani, invasa da una immensa dolcezza, pregustando già quella quiete, quell'ozio, quella malinconia.

—Parlamene ancóra.

Egli la baciò su la fronte, a lungo, con una commozione pura. Poi la guardò, a lungo.

—Hai la fronte tanto bella—disse, con un tremito leggero.

Vedeva ora Ippolita vivente corrispondere all'ideal figura di lei, ch'egli nutriva nel cuore. La vedeva buona, tenera, sommessa, respirante in una nobile e dolce poesia. Come nel motto ch'egli le aveva dato, ella era grave e soave:—gravis dum suavis.

—Parlami!—ella mormorò.

Dal balcone entrava una luce modesta. Di tratto in tratto i vetri mettevano un tintinno debole o le gocce della pioggia facevano un sordo crepitìo.

IV

«Poiché nel sogno abbiamo già assaporata la miglior parte del piacere, provando sensazioni e sentimenti della più rara delicatezza, io penso che noi dobbiamo rinunziare all'esperimento della realtà. Non andremo ad Orvieto.» E Giorgio scelse un altro luogo: Albano Laziale.

Egli non conosceva Albano, non l'Ariccia, non il lago di Nemi. Ippolita era stata ad Albano nella sua infanzia, in casa di una zia che ora non viveva più. Egli dunque avrebbe trovato in quei luoghi il fascino dell'ignoto; Ippolita, un riflesso delle lontane memorie. «Uno spettacolo nuovo di bellezza par quasi rinnovellare e purificare un amore. Le memorie dell'età vergine esalano su lo spirito un profumo sempre fresco e benefico.»

Stabilirono di partire il due di aprile, col treno del tocco. Si trovarono alla stazione, per l'ora stabilita, tra la folla, provando entrambi in fondo al cuore una gioia ansiosa.

—Ci vedranno? Di': ci vedranno?—domandava Ippolita, un po' ridente, un po' trepidante, poiché le pareva di sentire sopra di sé tutti gli sguardi.—Quanto tempo ci vuole ancóra alla partenza? Dio mio, come tremo!

Speravano di occupare nel treno uno scompartimento vuoto; ma con molto dispiacere dovettero rassegnarsi ad aver tre compagni di viaggio. Giorgio salutò un signore e una signora.

—Chi sono?—chiese Ippolita chinandosi all'orecchio dell'amico.

—Poi, ti dirò.

Ella esaminò la coppia curiosamente. Il signore era un vecchio, con una lunga barba venerabile e con un vasto cranio calvo, giallastro, su cui vedevasi una cavità profonda, una specie di ombelico enorme e difforme, simile al segno che può lasciare un grosso dito premuto in una materia molle. La signora, avvolta in uno scialle persiano, mostrava all'ombra d'una specie di tegola un viso emaciato, meditabondo; e nel suo abbigliamento e nella sua espressione ricordava la caricatura inglese d'una blue-stocking. Gli occhi del vecchio, cerulei, avevano però una vivacità singolare; parevano illuminati da una fiamma interiore, come gli occhi di un entusiasta. Inoltre, egli aveva risposto al saluto di Giorgio Aurispa con un sorriso dolcissimo.

Ippolita cercava nella sua memoria. In qual luogo aveva ella incontrata quella coppia? Non riusciva ad afferrare il ricordo; ma sentiva oscuramente che le due strane figure senili entravano in un ricordo del suo amore.

—Dimmi: chi sono?—ripeté all'orecchio dell'amico.

—I Martlet: mister Martlet con la moglie. Ci portano fortuna. Sai dove erano?

—Non so; ma io li devo aver veduti in qualche posto.

—Erano nella cappella di via Belsiana, il due di aprile, quando io ti conobbi...

—Ah, sì, sì; ricordo!

Le raggiarono gli occhi. Il caso le parve mirabile. Ella guardò di nuovo i due vecchi, quasi intenerita.

—Che buon augurio!

Appoggiò il capo e si mise a ripensare, invasa da una malinconia deliziosa. Rivide la piccola chiesa nella via Belsiana, segreta, immersa in una penombra turchiniccia:—un coro di fanciulle coronava la tribuna ch'era simile a un verone ricurvo; sotto, alcuni sonatori di strumenti ad arco stavano in piedi davanti ai leggii d'abete bianco; intorno intorno, su gli stalli di quercia stavano seduti i pochi uditori, quasi tutti canuti o calvi; il maestro batteva il tempo; un pio profumo d'incenso svanito e di violette si mescolava alla musica di Sebastiano Bach.

Ma, vinta dalla soavità del ricordo, ella si piegò di nuovo verso l'amico, mormorando:

—Ripensi anche tu?

Ella avrebbe voluto comunicargli la sua commozione, dimostrargli di non aver dimenticato neppure le più minute particolarità di quell'avvenimento solenne. Egli, con un atto furtivo, le prese una mano tra le pieghe ampie del mantello da viaggio e la tenne stretta. Ambedue provarono dentro di loro un brividìo che somigliava a certe delicate sensazioni dei primissimi tempi. E rimasero così, pensosi, un poco estatici, un poco intorpiditi nel tepore, cullati dal moto eguale e continuo del treno, intravedendo talvolta per i vetri un paesaggio verdastro nella nebbia. Il cielo s'era coperto; pioveva. Mister Martlet sonnecchiava in un angolo; mistress Martlet leggeva una rivista, il Lyceum. L'altro viaggiatore, con un berretto sugli occhi, dormiva profondo.

«Mister Martlet portava la battuta con veemenza, insieme al maestro, se il coro perdeva la misura. Tutti quei vecchi, a un certo punto, portavano la battuta, come invasi dalla follia della musica. C'era nell'aria un profumo d'incenso svanito e di violette.» Giorgio s'abbandonava intieramente al gorgo ritroso delle memorie. «Avrei potuto io imaginare pel mio amore un preludio più strano e più poetico? Pare il ricordo d'una qualche lettura fantastica; ed è invece un ricordo della mia vita reale. Ho d'innanzi agli occhi dell'anima le più minute particolarità. La poesia di quel cominciamento ha poi sparso su tutto il mio amore un'ombra di sogno.» Tenuto dalla lieve torpidezza, egli indugiava su certe imagini vaghe che prendevano nel suo spirito quasi un fascino musicale. «Qualche granello d'incenso... un mazzolino di violette...»

—Guarda come dorme mister Martlet—gli disse piano Ippolita.—Calmo come un bambino.

Poi soggiunse, sorridendo:

—Anche tu hai un po' di sonno; è vero? Piove sempre. Che sarà questo languore? Mi pesano le palpebre.

Ed ella lo guardò con gli occhi socchiusi, di tra i cigli lunghissimi.

«Come sùbito mi piacquero i suoi cigli!» pensava Giorgio. «Ella stava nel mezzo della cappella seduta su una sedia con una spalliera alta. Il suo profilo si disegnava sul chiarore piovente dalla finestra. Quando le nuvole di fuori si diradarono, il chiarore si fece d'improvviso più vivo. Ella si mosse un poco; e m'apparve nella luce tutta la lunghezza dei suoi cigli: una lunghezza portentosa!»

—Di': ci vorrà ancóra molto tempo per arrivare?—chiese Ippolita.

Il fischio del vapore annunziava una stazione prossima.

—Vuoi scommettere—soggiunse ella—che siamo passati oltre?

—Oh, no!

—Bene: infórmati.

—Segni-Paliano,—gridava una voce rauca, lungo gli sportelli.

Giorgio s'affacciò, un po' trasognato.

—Albano?—chiese.

—No, signore: Segni-Paliano,—rispose l'uomo sorridendo.—Va ad Albano? Doveva scendere alla Cecchina, signore.

Ippolita si mise a ridere così forte che mister e mistress Martlet la guardarono stupefatti. L'ilarità di lei si propagò sùbito all'amante.

—Che fare?

—Prima di tutto, bisogna scendere.

Giorgio porse all'uomo le valige; mentre Ippolita rideva ancóra, d'un suo fresco e vivace riso, affrontando gaiamente l'avventura imprevista. Mister Martlet pareva ricevere in mezzo al petto con lieta benignità quell'ondata di giovinezza, come un'ondata di sole. Egli s'inchinò ad Ippolita, che nel discendere provava in fondo al cuore un vago rammarico.

—Povero mister Martlet!—ella disse con un tono tra di gioco e di gravità, guardando il treno allontanarsi per la campagna deserta e squallida.—Mi dispiace di lasciarlo. Chi sa se lo rivedrò!

Poi volgendosi a Giorgio:

—E ora?

Un uomo della stazione avvertì:

—Passa un treno alle quattro e mezzo, per la Cecchina.

—Meno male!—riprese a dire Ippolita.—Sono le due e mezzo. Dichiaro però che da questo momento assumo io l'alta direzione del viaggio. Tu ti lascerai condurre. Tieniti bene stretto a me, Giorgino. Bada di non ti perdere!

Ella gli parlava come a un fanciullo, per gioco. Ambedue si sentivano allegri.

—Dov'è Segni? Dov'è Paliano?

Non si scorgevano intorno paesi. Le colline basse apparivano tutte ignude, dubbiamente verdeggianti, sotto un ciel grigio. Un solo alberello, smilzo e torto, presso al binario, si dondolava nell'umidità.

Come piovigginava, i due smarriti si rifugiarono dentro la stazione, in una piccola stanza dov'èra anche un caminetto, ma spento. Su una parete pendeva a brandelli una vecchia carta geografica solcata di linee nere; su un'altra parete pendeva un cartone quadrato recante l'elogio di un elixir. Di fronte al caminetto, omai immemore de' fuochi, era un canapè ricoperto di tela incerata; il quale versava da molte ferite la sua anima di stoppa.

—Guarda,—esclamò Ippolita, leggendo nel Baedeker—a Segni c'è la Locanda di Gaetanino!

Questa denominazione la fece ridere.

—Perché non fumiamo una sigaretta?—disse Giorgio.—Sono le tre. A quest'ora, due anni fa, io stavo per entrare nella cappella...

Di nuovo, il ricordo della gran giornata li occupò. Fumarono per qualche minuto in silenzio, ascoltando la pioggia che rinforzava. A traverso i vetri appannati, vedevano il meschino alberello torcersi sotto la sferza.

—Il mio amore è più antico del tuo—disse Giorgio.—Era già nato, prima di quel giorno.

Ella protestò.

—Ti vedo ancóra passare, la prima volta—egli soggiunse, con un'aria dolce, attratto dal profondo fascino dei giorni irrevocabilmente lontani.—Che impressione incancellabile! Era verso sera, quando incominciano ad apparire i lumi, quando cade su le vie tutto quell'azzurro... Io stavo, solo, innanzi alle vetrine dell'Alinari; guardavo le figure ma le vedevo appena: in uno stato indefinibile, un po' stanco, molto triste, con non so qual bisogno vago d'idealità fluttuante sul disgusto... Non te l'ho mai detto? Uscivo allora da una casa... È strano questo: come l'anima, dopo le peggiori cadute, tenda all'alto. Quella sera io avevo una gran sete di poesia, di elevazione, di cose delicate e spirituali. Un presentimento?

Egli fece una pausa lunga; ma Ippolita non parlò, aspettando ch'egli seguitasse, provando un piacere squisito ad ascoltarlo, in mezzo al fumo leggero della sigaretta, che quasi pareva mettere un velo di più sul ricordo velato.

—Era di febbraio. Nota: appunto in quei giorni ero stato ad Orvieto. Credo anzi che in quei momento io stessi là, dall'Alinari, con l'intenzione di chiedere una fotografia del reliquiario. E tu passasti! Due o tre altre volte, di poi, due o tre altre volte soltanto ti ho veduta così pallida, di quello speciale pallore. Tu non puoi imaginarti, Ippolita, com'eri pallida. Non mi è mai riuscito di trovare una similitudine. Pensai: «Questa donna, come cammina? Non deve avere nelle vene neppure una goccia di sangue.» Era un pallore soprannaturale, che ti faceva sembrare una creatura incorporea in mezzo a tutto quell'azzurro che cadeva dal cielo sul lastrico. Non guardai l'uomo che ti accompagnava; non ti volli seguire; non ebbi da te neppure l'accenno di uno sguardo. Ricordo anche questa particolarità: a poca distanza, tu ti soffermasti perché un accenditore di fanali ingombrava il marciapiede. Guarda: vedo ancóra luccicare nell'aria la fiammella in cima alla pertica e accendersi d'un tratto il fanale illuminandoti.

Ippolita sorrise, ma con un poco di malinconia; con quella specie di malinconia che assale una donna quando ella guarda un suo ritratto d'altri tempi.

—Già, ero pallida—ella disse.—Mi ero levata dal letto poche settimane innanzi, dopo una malattia di tre mesi. Avevo veduta la morte.

Uno scroscio di pioggia violento si rovesciò su la vetrata. Si vedeva l'alberello agitarsi con un moto quasi circolare, come sotto lo sforzo di una mano che volesse sradicarlo. Ambedue rimasero qualche minuto a guardare quella furiosa agitazione che assumeva una strana apparenza di vita consciente, nello squallore, nella nudità, nella supina inerzia della campagna. Ippolita provò quasi un senso di misericordia. Quella imaginata sofferenza dell'albero li metteva in conspetto della lor propria pena. Essi considerarono mentalmente la gran solitudine che si stendeva di fuori intorno quel misero edifizio, innanzi a cui passava di tanto in tanto un treno pieno di viaggiatori diversi, de' quali ciascuno portava in cuore una diversa ansietà. Le imagini tristi si succedevano nello spirito dei due amanti, rapide, suggerite da quelle cose medesime ch'essi avevano dianzi guardate con lieti occhi. E, quando le imagini si diradarono e la conscienza senza più seguirle si ripiegò su sé stessa, ambedue trovarono in fondo una sola ineffabile angoscia: il rimpianto dei giorni irrimediabilmente perduti.

Il loro amore aveva dietro di sé un lungo passato; trascinava dietro di sé, nel tempo, una immensa rete oscura, tutta piena di cose morte.

—Che hai?—chiese Ippolita, con la voce un poco alterata.

—E tu, che hai?—chiese Giorgio, fissandola.

Nessuno dei due rispose alla domanda. Tacquero, e guardarono di nuovo a traverso i vetri. Parve che il cielo avesse come un sorriso lacrimoso. Un bagliore fievole attinse una collina, la sparse d'una doratura leggerissima, si spense. Altri bagliori si accesero, languirono.

—Ippolita Sanzio—disse Giorgio, pronunziando quel nome con lentezza, come per assaporarlo.—Che palpito ebbi quando seppi finalmente che ti chiamavi così! Quante cose vidi e sentii nel tuo nome! Si chiamava così una mia sorella, morta. Il bel nome mi era familiare. Sùbito pensai, con una commozione profonda: «Se le mie labbra dovessero riprendere la cara consuetudine!» Per tutto quel giorno, le memorie della morta si mescolarono delicatamente al mio sogno segreto. Io non ti cercai, non ti perseguitai, non volli essere mai importuno; ma avevo dentro di me una fede inesplicabile, la sicurezza che tu, o prima o poi, mi avresti conosciuto e mi avresti amato. Che sensazioni deliziose! Vivevo fuori della realtà; nutrivo il mio spirito di musica e di letture esaltanti. Ti vidi, in fatti, un giorno a un concerto di Giovanni Sgambati; ma non ti vidi se non quando tu stavi per uscire dalla sala. Mi guardasti. Un'altra volta anche mi guardasti (forse te ne ricordi): quando c'incontrammo sul principio del Babuino, proprio davanti la libreria Piale.

—Me ne ricordo.

—Avevi teco una bambina.

—Sì: la Cecilia, una mia nipote.

—Io mi fermai sul marciapiede, per lasciarti passare. Notai che avevamo tutt'e due la stessa altezza. Eri meno pallida del solito. Mi balenò un pensiero orgoglioso...

—Indovinavi.

—Ti ricordi? Fu verso gli ultimi di marzo. La mia aspettazione si faceva sempre più sicura. Vivevo di giorno in giorno pensando al grande amore che doveva venire. Come ti avevo veduta due volte con un mazzolino di violette, empivo di violette la mia casa. Ah, io non dimenticherò mai quel principio di primavera! Certi sonni mattutini, nel mio letto, leggerissimi, trasparenti, pieni di sogni quasi volontarii! Certi risvegli lenti, dubbiosi, che mi aprivano gli occhi alla luce, mentre il mio spirito stentava a riacquistare il senso della realtà! Mi ricordo che alcuni artifizi puerili bastavano a darmi una specie di ebrezza illusoria. Mi ricordo che un giorno, in un concerto del Quintetto, ascoltando una musica del Beethoven piena di una frase grandiosa e appassionata che tornava a intervalli, mi esaltai sino alla follia col ripetere dentro di me una frase poetica in cui era il tuo nome.

Ippolita gli sorrise; ma, udendolo parlare di quella primissima apparizione dell'amore con tanta preferenza, ella provava in fondo all'anima un rincrescimento. Pareva forse a lui quello il tempo più dolce? Erano quelle forse per lui le memorie più dilette?

—Tutto il mio disdegno della vita comune—seguitò Giorgio—non mi avrebbe però mai fatto sognare un asilo fantastico e misterioso come l'Oratorio abbandonato nella via Belsiana. Ti ricordi? La porta su la via, in cima ai gradini, era chiusa: chiusa forse da anni. Si passava di lato, per un chiassetto che odorava di vino: c'era l'insegna rossa d'un vinaio, e una gran frasca. S'entrava, di dietro, per una sagrestia, ti ricordi?, che poteva appena contenere un prete e un sagrestano. S'entrava nella sede della Sapienza... Ah, tutti quei vecchi e quelle vecchie intorno intorno, negli stalli tarlati! Dov'era andato a cercare il suo uditorio Alessandro Memmi? Tu forse non sapevi di rappresentare la Bellezza in un concilio di filosofi musicomani, amor mio. Quel Martlet, vedi, mister Martlet, è uno tra i più convinti buddhisti dei nostri giorni; e la moglie ha scritto un libro su la Filosofia della Musica. La signora seduta accanto a te era Margherita Traube Boll, una medichessa celebre, continuatrice degli studi del marito (il defunto Boll) su la funzione della vista. Quel negromante che entrò in punta di piedi, con una gran palandrana verdognola, era il dottor Fleichl, un ebreo, un medico tedesco, pianista eccellente, fanatico del Bach. Il prete seduto sotto la croce era il conte Castracane, un botanico immortale. Un altro botanico, un batteriologo, un microscopista insigne, il Cuboni, gli stava di fronte. E c'era Jacopo Moleschott, il sommo fisiologo, quel vecchio indimenticabile: candido, enorme; c'era il Blaserna, il collaboratore dell'Helmholtz nella teoria dei suoni; c'era mister Davis, un filosofo pittore, un prerafaelita sprofondato nel brahmanesimo... Altri pochi c'erano: tutti intelletti singolari, spiriti rari, dediti alle più alte speculazioni della scienza moderna, freddi esploratori della vita, che hanno il culto appassionato del sogno.

Egli s'interruppe, riproducendo entro di sé lo spettacolo:—I sapienti ascoltavano la musica con un entusiasmo religioso; alcuni prendevano un'attitudine ispirata, altri imitavano inconsciamente col gesto il gesto del maestro, altri univano la loro voce sommessa alla voce del coro. Il coro, maschile e feminile, occupava la tribuna di legno dipinto, ove rimaneva appena qualche resto di doratura. Le fanciulle si aggruppavano sul davanti, tenendo le carte levate all'altezza della faccia. Sotto di loro ardevano le candele sui leggii rozzi dei violinisti, gialle nella mezza ombra azzurrognola. Qualche fiammella si rifletteva nella cassa levigata d'uno strumento, metteva un punto luminoso in cima a un archetto. Alessandro Memmi, un po' rigido, calvo, dalla corta barba nera, dagli occhiali d'oro, diritto innanzi alla sua orchestra, batteva il tempo con un gesto severo e sobrio. Alla fine d'ogni canto, si levava nella cappella un mormorio; dalla tribuna giungeva qualche riso mal represso tra un fruscìo di quaderni sfogliati. Schiarendosi fuori a intervalli il cielo, le candele impallidivano. Una croce smisurata, ch'era comparsa nelle antiche processioni solenni, tutta adorna di ramoscelli e d'olive d'oro, emergeva dalla parete illuminandosi. La canizie e la calvizie dell'uditorio rilucevano su le spalliere di quercia. D'improvviso, per una vicenda del cielo, l'ombra spiegavasi di nuovo su le cose, pari a un vapore tenue. Qualche debole onda d'effluvio (incenso? belzuino?), appena percettibile, vagava nell'aria. Due mazzi di violette, un poco appassiti, in vasi di vetro, su l'unico altare, esalavano il fiato della primavera. E i due profumi morenti parevano essere come la poesia de' sogni che la musica suscitava dalle anime senili; mentre un ben altro sogno, da ben altre anime, aprivasi tra quelli simile a un'aurora tra nevi che si sciolgano.—

Egli così, curiosamente, ricostruiva la scena; la riscaldava con un soffio lirico.

—Non pare inverosimile, incredibile?—esclamò.—A Roma, nella città dell'inerzia intellettuale, un maestro di musica, un buddhista, che ha publicato due volumi di saggi su la filosofia dello Schopenhauer, si dà il lusso di far eseguire una messa di Sebastiano Bach, unicamente pel piacer suo, in una cappella misteriosa, d'innanzi a un uditorio di grandi scienziati musicomani che hanno le loro figliuole nel coro. Non è una pagina dell'Hoffmann? In un pomeriggio di primavera un po' grigio ma tiepido, i vecchi filosofi escono dai loro laboratorii dove hanno lottato a lungo per strappare un segreto alla vita, e si raccolgono in un Oratorio occulto, per inebriarsi d'una passione che accomuna i loro cuori, per sollevarsi fuori della vita, per vivere idealmente in un sogno. E in mezzo alla vecchiezza, un delicato idillio musicale si svolge tra la cugina del buddhista e l'amico del buddhista, idealmente. E alla fine della messa il buddhista inconsapevole presenta alla divina Ippolita Sanzio l'amante futuro!

Egli rise, levandosi.

—Ho fatto, mi pare, una commemorazione in tutte le regole.

Ippolita rimase ancóra un poco assorta. Poi disse:

—Ti ricordi? Era un sabato: la vigilia della Domenica delle Palme.

Anch'ella si levò; e andò a baciare Giorgio su una gota.

—Vuoi che usciamo? Non piove più.

Uscirono e si misero a passeggiare sul selciato umido che riluceva a un sole fioco. L'aria fredda li punse. D'intorno, le collinette digradanti verdeggiavano solcate di strisce chiarissime; qua e là, i larghi pantani riflettevano pallidamente il cielo dove l'azzurro si dilatava tra i nuvoli fioccuti. L'alberello stillante aveva di tratto in tratto un luccichìo.

—L'alberello rimarrà nei nostri ricordi—disse Ippolita, fermandosi a guardarlo.—Solo solo!

Una campanella annunziò alfine l'approssimarsi del treno. Erano le quattro e un quarto. Un uomo del servizio si offrì per andare a prendere i biglietti.

—Verso che ora saremo ad Albano?—domandò Giorgio.

—Verso le sette.

—Sarà già buio,—disse Ippolita, prendendo il braccio di Giorgio, un po' infreddolita. E si compiacque nel pensiero di giungere all'albergo sconosciuto, in una sera fredda, e di pranzare sola con lui davanti a un camino acceso.

Sentendola tremare, Giorgio domandò:

—Vuoi che rientriamo?

—No—ella rispose.—Non vedi che c'è il sole? Camminiamo forte, su e giù. Mi riscalderò.

Ella si strinse al braccio di lui, mossa da un inesprimibile bisogno d'intimità. Divenne d'improvviso carezzevole, lusinghevole, in tutto: nella voce, nello sguardo, nel contatto, in ogni suo moto. Ella voleva espandere il suo più segreto fascino feminino e inebriarne l'amato; voleva far brillare agli occhi di lui una luce di felicità presente che oscurasse il riflesso della felicità lontana; voleva sembrare a lui più amabile, più adorabile, più desiderabile d'una volta. Una paura l'assalse, atroce, ch'egli potesse rimpiangere la donna d'una volta, sospirare le dolcezze trascorse, credere di aver raggiunto il sommo dell'ebrezza soltanto allora. Pensava: «I suoi ricordi mi hanno empita l'anima di malinconia. A stento ho trattenuto le lacrime. Anch'egli, forse, dentro di sé è triste; chi sa com'è triste! Tanto dunque il passato pesa all'amore?» Pensava: «Egli forse è stanco di me. Egli forse non lo sa, non lo confessa neanche a sé medesimo; s'illude. Ma forse non può più prendere da me nessuna gioia, e forse mi tiene cara soltanto perché trova in me i motivi delle sue care afflizioni. Ma anch'io rari momenti ho di vera gioia, accanto a lui; anch'io soffro; eppure l'amo, ed amo la mia sofferenza, e non ho altro desiderio se non di piacergli, e non concepisco la vita senza questo amore. Perché dunque, amandoci, siamo tristi?» Ella si appoggiava forte al braccio dell'amato e lo guardava con occhi in cui l'ombra dei pensieri dava alla tenerezza un'espressione più profonda.

«Due anni fa, su quest'ora, uscivamo insieme dalla cappella; ed egli mi parlava di cose estranee all'amore, con una voce che mi toccava l'anima, che mi posava su l'anima la carezza delle labbra, una carezza tutta ideale e pure assaporata da me come un lento bacio. Io tremavo, d'un tremito incessante, sentendo nascere dentro di me un sentimento ignorato. L'ora fu divina. Oggi cade il secondo anniversario; e noi ci amiamo. Dianzi egli parlava, e la sua voce mi turbava in una maniera diversa ma pur sempre a dentro. Abbiamo d'innanzi a noi una sera deliziosa. Perché rimpiangere il giorno lontano? La nostra libertà, la nostra intimità presente non valgono le incertezze e le esitazioni di quel tempo? Gli stessi ricordi numerosi non aggiungono un fascino di più alla nostra passione? Io l'amo; io mi do a lui tutta quanta, non ho d'innanzi al suo desiderio nessun pudore. Io ho ora il gusto profondo della voluttà; ed egli me l'ha dato, egli solo, ed io l'ho per lui. In due anni egli mi ha trasformata, mi ha fatta un'altra; mi ha dato nuovi sensi, un'anima nuova, un nuovo intelletto. Io sono la sua creatura. Egli può inebriarsi di me, come d'un suo pensiero. Io gli appartengo tutta quanta, ora e sempre.» Ella gli chiese, stringendosi forte a lui, appassionatamente:

—Non sei felice?

Turbato dal suono di quella domanda, investito come da un soffio caldo improvviso, egli ebbe un brivido vero di felicità. Rispose:

—Tanto felice!

E udirono, con un palpito concorde, il fischio del vapore.

Nello scompartimento si trovarono soli; chiusero tutti i vetri; aspettarono che il treno si movesse; si abbracciarono, si baciarono, si ripeterono tutti i nomi carezzevoli che la loro tenerezza in due anni aveva usati. Poi rimasero seduti l'uno accanto all'altra, con un sorriso vago su le labbra e negli occhi, sentendo il moto rapido del loro sangue a poco a poco rallentare. Guardarono a traverso i vetri fuggire un paesaggio monotono in una nebbietta appena appena colorita di viola.

Disse Ippolita:

—Metti la testa qui, su le mie ginocchia, e distenditi.

Giorgio mise la testa su le ginocchia di lei; si distese.

Ella disse:

—Il vento ti ha un po' sciupate le labbra.

E con le dita gli tolse di su la bocca alcuni fili dei baffi leggeri. Egli le baciò le dita. Ella gli solcò i capelli. Disse:

—Anche tu hai le ciglia molto lunghe.

Gli chiuse gli occhi, per ammirarle. Poi gli accarezzò la fronte, le tempie; si fece baciare di nuovo le dita, a una a una, con la testa china verso di lui. Ed egli, dal basso, vedeva la bocca di lei aprirsi con infinita lentezza e dal fondo sorgere il calice niveo dei denti. Ella la richiudeva: e ancóra, lentamente, lentamente, le labbra si schiudevano, come un fiore di due petali; e sorgeva dal fondo il candore perlato.

Ambedue, in quella blandizia, languivano; felici, obliosi. Il romore monotono li cullava. Si scambiarono, piano, parole di adorazione.

Ella disse, sorridendo:

—Questo è il primo viaggio che facciamo insieme; e questa è la prima volta che ci troviamo soli, in treno.

Ella si compiaceva di confermare che facevano una cosa nuova. Un desiderio, che già aveva tentato Giorgio, balenò più forte in lui. Egli si sollevò; la baciò sul collo, proprio su i gemelli; le mormorò nell'orecchio qualche parola. Per gli occhi di lei passò un bagliore indefinibile; ma ella disse vivacemente:

—No, no. Bisogna che noi siamo savi, fino a stasera; bisogna che aspettiamo. Sarà poi tanto dolce...

Di nuovo, ella vide un albergo silenzioso, una stanza con suppellettili antiquate, con un gran letto coperto d'un zanzariere bianco.

—Ad Albano, in questo mese, non ci sarà quasi nessuno—disse, per distrarre l'amante.—Come staremo bene, soli soli, in un albergo deserto! Ci prenderanno per due sposi novelli.

Si raccolse nel suo mantello, rabbrividendo; si piegò contro la spalla di Giorgio.

—Fa freddo, oggi; è vero? Appena giunti, accenderemo un gran fuoco e prenderemo una tazza di tè.

Provarono ambedue un acuto piacere ad imaginare la prossima delizia. Parlavano sottovoce, comunicandosi il calore del sangue e delle promesse. Ma, come parlavano della voluttà futura, il desiderio presente diveniva più forte; diveniva omai insostenibile. Tacquero. Congiunsero le bocche, non udendo più altro romore se non quello delle loro vene agitate, invasi da una brama cieca e violenta.

—Vuoi?—chiese Giorgio, d'improvviso, lasciandosi cadere in ginocchio.

Ella non rispose, ma si abbandonò.

Parve, di poi, ad entrambi, che un velo si dileguasse di su gli occhi loro, che un vapore accolto entro di loro si disperdesse, che un incanto si rompesse. Il fuoco nel camino della stanza imaginata si spense; il letto prese un aspetto gelido; il silenzio dell'albergo deserto divenne grave. Ippolita disse, quasi umiliata di aver ceduto a un impeto selvaggio che nulla forse aveva di comune con l'amore:

—Perché abbiamo fatto questo?

Ella aveva la voce triste ma dolce. Appoggiò il capo alla spalliera e guardò il vasto paesaggio monotono allontanarsi nell'ombra.

Ma Giorgio, accanto a lei, era caduto in balìa de' suoi pensieri perfidi. Una orribile visione lo torturava; a cui egli non poteva sfuggire, perché la vedeva con gli occhi dell'anima, con quegli occhi senza palpebre, che nessuna volontà può serrare.

—A che pensi?—gli chiese Ippolita, con inquietudine.

—A te.

Egli pensava a lei, al viaggio di nozze, all'uso comune dei novelli sposi. «Ella si trovò certo sola con suo marito, una volta, come ora è con me. Ella forse patì nel treno, durante il viaggio, la prima violazione. Ella forse, dianzi, si ricordava del fatto odioso, quando ha risposto così vivamente:—No, no.—Quel ricordo le dà ora, forse, tanta tristezza!» Ed egli pensò anche alle avventure rapide fra una stazione e l'altra, ai turbamenti repentini cagionati da uno sguardo, alle sorprese della sensualità, nei lunghi pomeriggi afosi d'estate, sotto le gallerie favorevoli... «Orrore! Orrore!» Ebbe un sussulto, quel particolare sussulto che Ippolita conosceva pur troppo come un sicuro indizio del male da cui l'amato era afflitto. Ella gli domandò, prendendogli la mano:

—Tu soffri?

Egli accennò di sì col capo; la guardò con un sorriso doloroso. Ma ella non ebbe il coraggio d'interrogarlo più oltre, poiché temeva che egli rispondesse qualche parola amara e straziante. Preferì il silenzio; ma lo baciò su la fronte a lungo, come soleva, sperando sciogliere il duro nodo dei pensieri.

—Ecco la Cecchina!—esclamò, sollevata, udendo il fischio dell'arrivo.—Su, su, amore! Bisogna scendere.

Ella si mostrava allegra, per rallegrarlo. Abbassò un vetro, sporse il capo.

—È una sera fredda ma bella. Su, amore! È l'anniversario. Bisogna che siamo felici.

Egli scosse da sé le cattive cose, al suono di quella voce tenera e forte. Uscendo all'aria viva, si sentì rasserenato.

Una serenità quasi adamantina s'incurvava su la campagna sazia di acque. Ancóra nell'aria diafana erravano atomi di luce crepuscolare. Le stelle si accendevano a una a una, successivamente, come su rami di lampadari pensili invisibili che ondeggiassero.

«Bisogna che siamo felici!» Giorgio riudiva entro di sé le parole dell'amica; e il cuore gli si gonfiava di aspirazioni indefinite. E la stanza tranquilla e il camino acceso e il letto bianco gli parevano troppo umili elementi di felicità in quella notte solenne e pura. «È l'anniversario. Bisogna che siamo felici.» Che pensava, che faceva egli, due anni avanti, su quell'ora?—Vagava per le vie, senza una mèta, spinto da un bisogno istintivo di raggiungere uno spazio più largo e pure attratto dai luoghi popolosi dove il suo orgoglio e la sua gioia gli parevano grandeggiare al contrasto della vita comune. E il romore cittadino, pure avvolgendolo, gli arrivava all'orecchio come di lontano.

V

Il vecchio albergo di Ludovico Togni, con quel suo lungo androne dalle pareti di stucco marmorizzate e con que' suoi pianerottoli dalle porte verdigne tutti illustrati di lapidi commemorative, inspirava sùbito un senso di pace quasi conventuale. Ogni suppellettile aveva un aspetto di familiare vecchiezza. I letti, le sedie, le poltrone, i canapè, i canterani avevano forme d'altri tempi, cadute in disuso; i soffitti, dipinti a colori teneri, gialletti o celestini, portavano nel centro una ghirlanda di rose o un qualche simbolo usuale, come una lira, una face, un turcasso; i fiorami su i parati di carta e su i tappeti di lana erano impalliditi, quasi scomparsi; le tende di velo alle finestre pendevano da bastoni sdorati, candide e modeste; gli specchi rococò, riflettendo le antichette imagini in un'appannatura diffusa, davano ad esse quell'aria di malinconia e quasi d'inesistenza, che talvolta dànno alle rive gli stagni solinghi.

—Come mi piace di star qui!—diceva Ippolita, penetrata dal mite incanto delle cose, raccogliendosi nella gran poltrona soffice, appoggiando il capo alla spalliera, dov'era cucita una mezzaluna bianca, di cotone, umile opera d'uncinetto.—Non mi vorrei più muovere.

Ella ripensò la defunta zia Giovanna, l'infanzia lontana.

—La povera zia, mi ricordo, aveva una casa come questa, una casa dove da un secolo i mobili stavano al medesimo posto. Mi ricordo sempre le sue disperazioni quando le ruppi una di quelle campane di vetro, tu sai, con dentro i fiori artificiali... Mi ricordo che pianse. Povera vecchia! La vedo ancóra, con quelle sue cuffie di merletto nero, con que' suoi buccolotti bianchi giù per le tempie...

Ella parlava piano, interrompendosi, guardando il fuoco ardere su gli alari, sorridendo talvolta a Giorgio con occhi un poco abbattuti, cerchiati d'un'ombra violetta; mentre dalla strada saliva un romore eguale e continuo che facevano certi selciatori battendo le selci.

—Nella casa c'era, mi ricordo, una gran soffitta con due o tre abbaini, abitata dai colombi. Ci si saliva per una piccola scala ripida, dove su le pareti pendevano, chi sa da quanto, certe pelli di lepre con tutto il pelo, secche, tese da due pezzi di canna messi in croce. Io portavo ogni giorno il mangiare ai colombi. Appena mi sentivano salire, si affollavano davanti alla porta. Com'entravo, mi assaltavano. Allora io mi sedevo per terra e spargevo l'orzo intorno intorno. I colombi mi circondavano; erano tutti bianchi; e io li guardavo beccare. Da una casa vicina giungeva il suono d'un flauto: sempre la stessa arietta, alla stessa ora. Quella musica mi pareva deliziosa. Ascoltavo, con la testa levata verso l'abbaino, a bocca aperta, come per bere le note che piovevano. Di tratto in tratto, rientrava un colombo sperso, battendomi le ali sul capo, mettendomi nei capelli qualche piuma. E il flauto invisibile sonava, sonava... Ho ancóra nell'orecchio l'arietta; la potrei cantarellare. La passione della musica mi cominciò in quel tempo, dentro una colombaia...

Ella ripeteva mentalmente la sonata dell'antico flauto albanese, gustandone il sapore dolcigno con una malinconia simile in parte a quella della sposa che dopo molti anni ritrova in fondo al suo cassone di nozze un confetto dimenticato. Successe un intervallo di silenzio. Un campanello sonò in un corridoio dell'albergo pacifico.

—Girava per le stanze, mi ricordo, una tortora zoppa, una delle grandi tenerezze di mia zia. Un giorno venne su a giocare con me una bambina del vicinato, una bella bambina bionda, che si chiamava Clarice. La zia era a letto, con la tosse. Noi giocavamo su una terrazza, devastando i vasi dei garofani. La tortora apparve su la soglia, ci guardò senza sospetto, si fermò in un angolo a godere il sole. Clarice, appena la vide, le corse sopra per afferrarla. La povera bestiola tentava di sfuggire, zoppicando; ma zoppicava in un modo così strano che noi cominciammo a ridere per non finir più. Clarice la raggiunse: era una bambina crudele. Pel troppo ridere, eravamo tutt'e due come ubriache. La tortora, sbigottita, si dibatteva nelle nostre mani. Clarice le strappò una penna; poi (ora che ci ripenso, rabbrividisco) poi la spennò quasi tutta, davanti a me, ridendo, facendomi ridere, come ubriaca. La povera bestiola, spennata, insanguinata, quando fu libera, si salvò dentro la casa. Noi la seguimmo per un tratto. Poco dopo, udimmo scampanellare, e la zia che gridava e tossiva dal suo letto... Clarice infilò sùbito le scale; io mi nascosi dietro a una tenda. La tortora morì, la sera stessa. La zia mi rimandò a Roma, credendomi colpevole dello strazio; e pur troppo non la rividi più. Quanto piansi! Il rimorso mi dura ancóra.

Ella parlava piano, interrompendosi, guardando con occhi fissi e un poco dilatati il fuoco splendido che pareva quasi magnetizzarla, darle come un principio di torpore ipnotico; mentre dalla strada saliva il remore eguale e continuo che facevano i selciatori battendo le selci.

VI

Un giorno gli amanti tornarono dal lago di Nemi, un po' stanchi. Avevano fatto colazione nella Villa Cesarini, sotto le pompose camelie fiorite. Soli, col sentimento di chi solo contempla la più segreta delle segrete cose, avevano contemplato lo Specchio di Diana freddo e impenetrabile alla vista come un ghiaccio azzurro.

Ordinarono il tè consueto. Ippolita, che cercava qualche oggetto in una sua valigia, si volse d'un tratto a Giorgio mostrandogli un plico legato da un nastro.

—Vedi? Le tue lettere... Le porto sempre con me.

Giorgio esclamò con visibile compiacenza:

—Tutte? Le hai conservate tutte?

—Sì, tutte. Ho anche i biglietti, anche i telegrammi. Manca un biglietto solo, quello che gettai nel fuoco perché non cadesse nelle mani di mio marito. Ma conservo i pezzi bruciati: qualche parola è ancóra leggibile.

—Mi lasci vedere?—domandò Giorgio.

Ella celò con un atto geloso il plico. Poi, come Giorgio si avanzava verso di lei sorridendo, ella fuggì nella stanza attigua.

—No, no; tu non vedrai niente. Non voglio.

Si opponeva un po' per gioco e un po' anche perché, avendo sempre custodite gelosamente quelle lettere come un tesoro occulto, con orgoglio e con timore, ella insino le mostrava mal volentieri a colui che le aveva scritte.

—Lasciami vedere, ti prego! Sono tanto curioso di rileggere le mie lettere di due anni fa. Che ti scrivevo?

—Cose di fuoco.

—Ti prego! Lasciami vedere.

Ella alfine consentì, ridendo alle persuadevoli carezze dell'amante.

—Ebbene, aspettiamo che venga il tè; e poi le vedremo insieme. Vuoi che accendiamo il caminetto?

—No; oggi è una giornata quasi calda.

Era una giornata bianca, soffusa come d'un riverbero argentino, in un'aria inerte. Il candore diurno diveniva anche più mite passando a traverso il velo delle tende. Le violette fresche, còlte nella Villa Cesarini, già avevano profumata tutta la stanza.

—Ecco Pancrazio—disse Ippolita, sentendo battere all'uscio.

Il buon servo Pancrazio portava il suo sorriso inestinguibile e il suo tè inesauribile. Posò il vassoio sul tavolo; promise pel pranzo della sera una primizia; ed uscì, con un passo alacre e saltellante. Egli era calvo, ma conservava ancóra un'aria giovanile; era straordinariamente servizievole; ed aveva, come certe divinità giapponesi, gli occhi ridarelli, lunghi, stretti e un poco obliqui.

Giorgio disse:

—Pancrazio è più esilarante del suo tè.

Il tè, infatti, non aveva aroma; assumeva però un sapore strano dagli accessorii. Il vaso e le tazze erano di una capacità e di una forma non mai vedute; il vassoio era illustrato d'una amorosa istorietta pastorale; il piatto contenente le fette sottili di limone recava nel mezzo a caratteri neri un indovinello.

Ippolita versò la bevanda: le tazze fumigarono come turiboli. Quindi ella sciolse il plico: le lettere apparvero tutte ordinate, divise in tanti fasci minori.

—Quante!—esclamò Giorgio.

—Non poi tante! Sono duecento novanta quattro. E due anni, mio caro, si compongono di settecento trenta giorni.

Sorrisero entrambi. Si posero l'uno accanto all'altra, seduti, contro il tavolo; e incominciarono la lettura. Invadeva Giorgio una commozione singolare, dinanzi a quei documenti del suo amore: una commozione delicata e forte. Le prime lettere misero nel suo spirito uno scompiglio. Certi stati dell'animo estremi, che quelle lettere rivelavano, gli parvero da principio incomprensibili. L'elevazione lirica di certe frasi lo empì quasi di stupore. La violenza e il tumulto della passione giovine gli diedero una specie di sbigottimento, in mezzo alla quiete che ora lo circondava, in quell'albergo modesto e silenzioso. Una lettera diceva: «Quante volte il mio cuore ha sospirato verso di te, questa notte! Un'angoscia oscura mi premeva, anche nei brevi intervalli di sonno; ed io aprivo gli occhi per fuggire i fantasmi che si levavano dal profondo dell'anima mia.... Un solo pensiero mi tiene, un solo pensiero mi tortura:—che tu possa andar lontano. Mai mai una tal possibilità mi ha dato un terrore e un dolore più folli. Io ho, in questo momento, la certezza precisa, chiarissima, evidente, che senza di te è impossibile la mia vita. Se penso che tu non ci sei, ecco, il giorno si oscura, la luce mi diventa nemica, la terra mi appare come una tomba senza fondo:—io entro nella morte.» Un'altra lettera, scritta dopo la partenza di Ippolita, diceva: «Faccio uno sforzo immane per reggere la penna. Non ho più vigore alcuno, non ho più volontà. Mi tiene un abbattimento così scorato ch'io non ho altro senso della vita all'infuori d'una insopportabile nausea di vivere. Ed è una giornata grigia, afosa, plumbea, una giornata quasi direi omicida. Le ore passano con una lentezza inesorabile; e la mia miseria si accumula, ad ogni minuto, più squallida e più arida. Mi par d'avere in fondo a me non so quali acque morte e venefiche. Ed è questa una sofferenza morale o fisica? Non so. Io rimango ottuso ed immobile, sotto un peso che mi schiaccia senza farmi morire.» Un'altra diceva: «Ho infine ricevuta la tua lettera, oggi, alle quattro, mentre disperavo. E l'ho letta molte volte, cercando tra le parole l'Indicibile, quel che tu non hai potuto esprimere, il segreto dell'anima tua—qualche cosa che fosse più viva e più dolce delle parole scritte su la carta inanimata... Ho un terribile desiderio di te. Cerco su la carta la traccia della tua mano, del tuo alito, del tuo sguardo—inutilmente. Non so che darei per avere almeno un'illusione della tua presenza. Mandami un fiore lungamente baciato, segnami su la carta un cerchio dove tu abbia premuto lungamente la bocca, fa che io possieda nell'imaginazione una carezza tua inviatami di lontano... Di lontano! Di lontano! Quanto tempo è ch'io non ti bacio, ch'io non ti tengo fra le braccia, ch'io non ti vedo impallidire? È un anno? È un secolo? Dove sei tu andata? Oltre quali terre? Oltre quali mari?... Passo le ore nell'inerzia, pensando. Questa mia stanza è diventata funebre come una cappella sotterranea. Talvolta io mi vedo disteso in una bara; io mi contemplo nella immobilità della morte, con una lucidezza imperturbabile. Esco dalla contemplazione quietato.» Questi gridi e questi gemiti mandavano le lettere, sul tavolo coperto d'un tappeto casalingo; mentre le ampie tazze rustiche, piene di un'infusione innocente, fumigavano in pace.

—Ti ricordi?—disse Ippolita.—Fu quando io partii la prima volta da Roma, per soli quindici giorni.

Giorgio era assorto, appunto nel ricordo di tutte quelle agitazioni insensate; cercava di risuscitarle in sé, di comprenderle. Ma il benessere ambiente non era favorevole a quello sforzo interiore. Un senso di benessere gli avvolgeva lo spirito come in una fascia molle. La luce velata, la bevanda calda, il profumo delle mammole, il contatto d'Ippolita lo intorpidivano. Egli pensò: «Sono io dunque così lontano dall'ardore di quel tempo? No; perché, ultimamente quando ella è partita, io non me ne sono afflitto con minor crudezza.» Ma non gli riusciva di ravvicinare l'io di quel tempo all'io presente. Egli sentiva pur sempre di rimanere estraneo all'uomo che si disperava e si accorava in quelle frasi scritte; sentiva che quelle emanazioni del suo amore non gli appartenevano più e sentiva anche tutta la vacuità delle parole. Quelle lettere erano come epitaffii in un cimitero. Come gli epitaffii dànno un'idea grossolana e falsa delle persone morte, così quelle lettere mal rappresentavano i diversi stati pe' quali l'animo dell'amante era passato. Egli conosceva bene lo straordinario orgasmo che invade l'amante nell'atto di scrivere una lettera d'amore. All'urto di quell'orgasmo, tutte le diverse onde del sentimento si mescolano e s'intorbidano levando un bollore confuso. Non avendo l'amante la conscienza precisa di ciò ch'egli vuole esprimere, constretto nella materiale angustia delle parole, egli rinunzia alla descrizione del suo vero tumulto interno ma cerca di raggiungere una intensità approssimativa esagerando la frase, adoperando i comuni effetti retorici. Per questo appunto tutti gli epistolarii d'amore si somigliano; per questo appunto il linguaggio della più alta passione è poco più vario d'un gergo.

Giorgio pensava: «Qui tutto è violenza, spasimo, eccesso. Ma dove sono le mie delicatezze? Dove sono le mie malinconie squisite e complicate, certe afflizioni profonde e tortuose in cui l'anima si perdeva come in labirinti inestricabili?» Egli vedeva ora con rammarico che nelle sue lettere mancava la parte più rara del suo spirito, quella ch'egli aveva sempre coltivata con maggior cura. A poco a poco, andando innanzi nel leggere, egli trascurava i lunghi brani di pura eloquenza e ricercava le indicazioni dei piccoli fatti, le particolarità degli avvenimenti, gli accenni degli episodii memorabili.

In una lettera trovò: «Verso le dieci, macchinalmente, entrai nel solito luogo, nel giardino Morteo, dove ti avevo veduta per tante sere. Quegli ultimi trentacinque minuti, avanti l'ora precisa della tua partenza, furono atrocissimi. Tu partivi, tu partivi, senza ch'io ti potessi vedere, coprirti di baci la faccia, ripeterti un'ultima volta: Ricòrdati! Ricòrdati! ...—Verso le undici, come per istinto io mi voltai. Entrava tuo marito con la signora solita e con l'amico. Venivano dall'averti accompagnata, senza dubbio. Mi prese una convulsione di dolore così forte che dovetti alzarmi dopo poco ed uscire. La presenza di quelle tre persone che parlavano e ridevano come nelle altre sere, come se nulla di nuovo fosse accaduto, mi esasperava. Esse rappresentavano, d'innanzi a me, la certezza che tu eri partita, partita irremissibilmente.»

Egli ripensò quelle sere di estate, quando vedeva Ippolita seduta a un tavolo, tra il marito e un capitano di fanteria, di fronte a una piccola signora goffa. Egli non conosceva nessuna delle tre persone; e soffriva d'ogni loro gesto, d'ogni loro attitudine, di tutta la loro volgarità esterna; e imaginava la stupidità dei loro discorsi a cui la creatura elegante pareva prestare un'attenzione continua.

In un'altra lettera trovò: «Dubito. Ho contro di te oggi l'animo ostile. Sono pieno d'un'ira compressa. Uscirò fra poco e andrò in mare. Le onde sono allegre e forti. Addio. Non ti scrivo di più, per non dirti cose durissime. Addio. Mi ami tu? O scrivi ancóra parole d'amore per abitudine pietosa? Sei tu leale? Che pensi? Che fai? Io soffro. Ho il diritto d'interrogarti così. Dubito, dubito, dubito. Sono demente.»

—Questa—disse Ippolita—è del tempo ch'io ero a Rimini. Agosto e settembre, che mesi tempestosi! E quando tu finalmente venisti col Don Juan?

—Ecco una lettera di bordo. «Siamo giunti ad Ancona oggi alle due, venendo a vela da Porto San Giorgio. Per le tue preghiere e per i tuoi augurii, abbiamo avuto propizio il vento. Meravigliosa navigazione, che ti racconterò. All'alba, riprenderemo il largo. Il Don Juan è il re dei cutters. La tua bandiera sventola sull'albero. Addio, forse a domani!—2 settembre.—»

—Ci rivedemmo; ma che giorni di supplizio! Ti ricordi? Avevamo sempre testimonii vigilanti. Oh quella mia cognata! Ti ricordi la visita al Tempio malatestiano? E il pellegrinaggio alla chiesa di San Giuliano, la sera prima che tu partissi?

—Ecco una lettera di Venezia...

Lessero ambedue, con un palpito concorde: «Sono a Venezia dal 9, plus triste que jamais. Venezia mi soffoca. Nessun più lucido sogno può uguagliare in magnificenza questo che si leva dal mare e che fiorisce nel cielo chimericamente. Muoio di malinconia e di desiderio. Perché non sei qui? Se tu fossi venuta, seguendo il proponimento d'una volta! Forse avremmo potuto strappare un'ora ad ogni vigilanza; e tra i nostri ricordi innumerevoli sarebbe anche questo, il più divino...» Lessero ancóra, in un'altra pagina: «Ho un pensiero strano che mi balena di tratto in tratto e mi turba nel profondo: un pensiero folle, un sogno. Penso che tu potresti giungere d'improvviso a Venezia, sola, per essere tutta mia!» E più oltre, ancóra: «La bellezza di Venezia è il naturale quadro della tua bellezza. Il tuo colore, quel colore così ricco e possente, tutto materiato d'ambra pallida e d'oro opaco e forse di qualche rosa un po' disfatta, è il colore ideale che più felicemente armonizza con l'aria veneziana. Io non so come fosse Caterina Cornaro regina di Cipro; ma, non so perché, imagino che dovesse rassomigliarti.—Ieri passai appunto sul Canalazzo, d'innanzi al magnifico palagio della regina di Cipro; ed esalai la mia poesia. Non abitasti un tempo tu in quella casa regale e non t'inchinasti fuor del balcone prezioso a guardare nell'acqua i giochi del sole?—Addio, Ippolita. Io non posseggo un palagio di marmo sul Canal Grande, degno della tua sovranità; né tu sei arbitra de' tuoi fati...» E più oltre, ancóra: «Qui c'è tutta la gloria di Paolo Veronese. Un Veronese mi ricordava dianzi il nostro pellegrinaggio in Rimini alla chiesa di San Giuliano.—Eravamo assai tristi quella sera. Uscendo dalla chiesa, ci dilungammo nella campagna, per la riva del fiume, verso quel grande gruppo di alberi lontani. Rammenti? Fu l'ultima volta che ci vedemmo e ci parlammo. L'ultima volta!—E se tu giungessi d'improvviso a Venezia, da Vignola?»

—Vedi: era una seduzione continua, raffinata, irresistibile—disse Ippolita.—Tu non puoi imaginare le mie torture. Non dormivo la notte, per studiare un modo di partir sola, senza mettere in sospetto i miei ospiti. Feci un miracolo d'abilità. Non so più come feci... Quando mi ritrovai sola, con te, nella gondola, sul Canalazzo, in quell'alba di settembre, non credevo alla realtà. Ti ricordi? Mi prese un impeto di pianto e non potei dirti una parola...

—Ma io t'aspettavo. Io ero sicuro che tu saresti venuta, a qualunque costo.

—E fu la prima grande imprudenza!

—È vero.

—Che importa? Non è meglio così? Non è meglio ch'io sia ora tutta tua? Io non mi pento di nessuna cosa.

Giorgio la baciò su la tempia. Parlarono a lungo di quell'episodio ch'era nella loro memoria uno de' più belli e de' più straordinarii. Rivissero di minuto in minuto i due giorni di vita segreta, nell'albergo Danieli, i due giorni d'oblìo, di suprema ebrezza, in cui parevano entrambi avere smarrito ogni nozione del mondo e quasi ogni conscienza del loro essere anteriore.

Quei giorni avevano segnato il principio della disgrazia d'Ippolita. Le lettere seguenti accennavano alle prime sofferenze di lei. «Quando penso che la causa prima dei tuoi dolori e dei fastidii tuoi familiari sono io, mi punge un rammarico indicibile; e vorrei che tu conoscessi tutta, tutta la mia passione, per farmi perdonare il danno.—La conosci tu? Sei tu certa che il mio amore valga il tuo lungo dolore? Ne sei tu certa, sicura, profondamente consapevole?» Di pagina in pagina l'ardore cresceva. Poi succedeva un lungo intervallo oscuro, dall'aprile al luglio, senza documenti. E in quei mesi appunto erasi compiuta la rovina. Il marito debole, non avendo saputo in alcun modo vincere l'aperta e ostinata ribellione d'Ippolita, era quasi fuggito lasciando dietro di sé un gravissimo intrico di affari in cui era rimasta presa la massima parte della sua fortuna. Ippolita s'era rifugiata in casa della madre e quindi a Caronno, dalla sorella, in una villeggiatura. Un terribile male, già da lei sofferto nell'infanzia, un male nervoso che aveva le forme dell'epilessia, era di nuovo apparso. Le lettere, con la data di agosto, ne parlavano. «Tu non imaginerai giammai lo sbigottimento ch'io ho nello spirito. La mia tortura maggiore è questa implacabile lucidezza della visione fantastica. Io ti vedo contorcerti, nell'accesso; io vedo i tuoi lineamenti scomporsi e illividirsi, i tuoi occhi volgersi disperatamente sotto le palpebre rosse di pianto... Io vedo tutta la terribilità del male, come s'io ti fossi vicino; e, per quanti sforzi io faccia, non riesco a scacciare l'orrida visione. E poi, mi sento chiamare. Ho proprio negli orecchi il suono della tua voce, un suono roco e lamentevole, come di chi chiede aiuto e non ha speranza di aiuto.» E tre giorni dopo: «Duro fatica a scriverti queste righe. Vorrei rimanere immobile, in silenzio, là nell'angolo, nell'ombra, a pensare, ad evocare la tua imagine, ad evocare il tuo male, a vederti. Provo non so quale attrazione irresistibile verso questa tortura volontaria...—Oh povero, povero amore mio! Mi sento così triste che vorrei perdere il senso dell'essere, per molto tempo, e poi svegliarmi e non ricordarmi più di nulla e non più soffrire. Vorrei, almeno, avere un acuto spasimo fisico, una ferita, una piaga, una bruciatura profonda, qualche cosa che mi alleviasse l'implacabile tormento dello spirito.—Mio Dio! Vedo le tue mani pallide e convulse; e vedo tra le dita la ciocca dei capelli strappati...»

E più oltre: «Tu mi scrivi:—Se questo male mi prendesse fra le tue braccia? No, no; io non ti vedrò più, non voglio più vederti!—Eri demente quando scrivevi? Hai tu pensato a quello che scrivevi? Mi pare che tu mi abbia presa la vita e ch'io non possa più dare un respiro. Riscrivimi sùbito! Dimmi che guarirai, che non disperi, che vuoi rivedermi. Tu devi guarire. Intendi, Ippolita? Tu devi guarire.» Più oltre, ancóra: «Questa notte la luna era coperta. Andavamo per la marina, io e un amico. Io dissi:—Che notte sconsolata!—L'amico rispose:—Sì, la notte non è bella.—E si fermò. Un cane uggiolava in lontananza. Come potrò ridirti l'impressione lugubre che mi fecero le parole dell'amico?—Non è bella!—Che accadeva lontano? Tu che facevi? Quale sventura si preparava, nella notte? Poi, fino all'alba, gli uccelli notturni hanno cantato. Altre volte non ci badavo. Questa volta ogni grido mi penetrava nel cuore, con uno strazio insopportabile.»... «Tu disperi, senza ragione. Ieri passai gran parte della giornata intorno a un trattato su le malattie nervose, per conoscere il tuo male. Tu guarirai, certamente. Io credo anzi che tu non avrai altri assalti e che la tua convalescenza proseguirà senza interruzioni fino alla guarigione perfetta. Sollevati!—Hai sentito questa notte il mio pensiero continuo? Era una notte malinconica, un po' velata, piena di canti religiosi. Su la strada maestra, fra le siepi e gli alberi, passavano i pellegrini, cantando in coro una cantilena lunga e monotona...»

Le lettere si facevano dolci e delicate verso la convalescente. «Ti mando un fiore, còlto su l'arena. È una specie di giglio selvaggio, bellissimo quando è vivo, e così profumato che spesso nel calice io trovo qualche insetto tramortito di ebrezza. Tutta la spiaggia intorno è piena di questi gigli appassionati che sbocciano in un attimo e durano poche ore, al sole torrido, su la sabbia ardente. Anche morto, guarda com'è spirituale questo fiore! Com'è fino e feminino!» Più oltre: «Stamani, al primo svegliarmi, guardavo il mio corpo arso dal sole. Da tutto il busto mi cadeva l'epidermide, ma specialmente di su la spalla, nel luogo dove tu posavi la testa. Con le dita strappavo piano piano i brani della pelle, e pensavo che forse in quei brani omai morti era ancóra il segno della tua guancia e della tua bocca. Ho perduta la prima spoglia, come un serpente. Quanta voluttà quella spoglia ha contenuto!» Più oltre: «Ti scrivo ancóra dal letto. La febbre m'è passata, lasciandomi una nevralgia su l'occhio sinistro, acutissima. Mi sento anche molto debole perché da tre giorni non prendo cibo. Ripenso tante tante cose, affondato nel letto, con il capo dolente. Qualche volta, d'un tratto, senza ragione, mi sento mordere dal dubbio; e devo far grandi sforzi per cacciare i pensieri cattivi. Anche ieri pensai a te, tutto il giorno. La mia sorella maggiore, Cristina, mi stava accanto e mi asciugava la fronte, con una infinita dolcezza. Io chiudevo gli occhi e m'imaginavo che quella mano fosse la tua; e provavo un sollievo ineffabile; e mormoravo in cuor mio il tuo nome. Poi guardavo mia sorella, con un sorriso di riconoscenza. E quel momentaneo scambio imaginario della sua e della tua carezza mi pareva assai puro e casto e spirituale. Non so esprimerti con le parole la delicatezza, la squisitezza, la estrema idealità di quel sentimento. Ma tu comprendi. Ave.» Più oltre: «Sono triste, ancóra, sempre. Ho i sensi così acuiti che odo cadere a una a una sul tavolo le foglie di alcune rose—ultime—donatemi da mia sorella. Cadono—soavi come pensieri del tuo capo. E per le finestre spalancate giungono le risa delle donne e i gridi dei fanciulli che si bagnano nel mare.»

Le lettere seguitavano, fino ai primi giorni di novembre; ma a poco a poco diventavano amare, torbide, piene di sospetti, di dubbii, di accuse. «Come ti sei allontanata da me! Non è soltanto il sentimento della lontananza materiale, che mi tortura. Mi pare che anche l'anima tua si distacchi da me e mi abbandoni...—Il tuo profumo fa felici gli altri. Chi ti guarda, chi ti ode, gioisce di te...—Scrivimi e dimmi che sei tutta mia in ogni tuo atto e in ogni tuo pensiero, e che mi desideri e che mi rimpiangi, e che non trovi bello nessun momento, lontana da me.» Più oltre: «Io penso, penso, penso, acutamente; e l'acutezza del pensiero mi dà uno spasimo inumano. Provo, talvolta, una smania furibonda di strapparmi dalle tempie dolenti questa cosa impalpabile che pure è più forte e più inflessibile di un aculeo. Il respiro m'è una fatica insopportabile, e il bàttito delle vene m'è fastidioso come il rimbombo d'un martello ch'io sia condannato ad ascoltare...—Questo è l'amore? Oh no. È una sorta di prodigiosa infermità che fiorisce soltanto nel mio essere, facendo la mia gioia e la mia pena. Mi piace di credere che sia questo un sentimento non mai provato da alcun'altra creatura umana.» Più oltre: «Io non avrò mai mai mai la pace intera e l'intera sicurtà. Io non potrei esser pago se non a un sol patto:—assorbendo tutto tutto il tuo essere e divenendo con te un essere unico, vivendo della tua vita, pensando i tuoi pensieri. Vorrei almeno che i tuoi sensi fossero chiusi a qualunque sensazione che non ti venisse da me...—Sono un povero infermo. Tutta la mia giornata è una lunga agonia. Poche volte ho desiderata una fine, come ora la desidero e l'invoco. Ecco, sta per tramontare il sole; e la notte scende nel mio spirito con mille orrori. L'ombra viene dagli angoli della stanza verso di me, quasi con un passo e con un fiato di persona viva, e quasi con un'attitudine ostile...—Ho sul tavolino molte rose. Le ho còlte su gli ultimi rosai. Hanno un colore un poco smorto e anche un odore un poco smorto; ma le amo così. Mi sembrano nate in un cimitero dove sieno sepolti a coppie gli amanti d'un tempo assai remoto.» Più oltre: «Ieri mattina, tra le undici e il tocco, meditai gravemente su la mia fine. Lo spirito familiare del mio povero zio Demetrio da qualche giorno m'inquieta. Ieri il mio stato era così inumano che spontaneamente s'offerse al mio spirito l'imagine della liberazione. Poi la crisi passò. Ora ne sorrido, un poco; ma ebbi un colloquio con la Morte assai fiero.»

Le lettere datate da Roma, dove Giorgio su i primi di novembre era tornato per aspettare il ritorno d'Ippolita, accennavano a un episodio molto doloroso e molto oscuro. «Tu mi scrivi:—Io ti son rimasta fedele a gran pena.—Che intendi di dire? Quali sono le terribili vicende che ti hanno sconvolta? Dio mio, come sei mutata! Ne soffro inesprimibilmente; e il mio orgoglio si adira contro la sofferenza. Ho una ruga tra ciglio e ciglio, profondissima, come una cicatrice. Vi è raccolta un'ira repressa; vi è raccolta tutta l'amarezza de' miei dubbii, de' miei sospetti, de' miei disgusti. Credo che neppure il tuo bacio basterebbe a mandarla via. Le tue lettere piene di desiderio mi turbano. Io non te ne sono grato. Da due o tre giorni ho contro di te qualche cosa, nel cuore. Non so che sia. Forse un presentimento? Forse una divinazione?»

Giorgio soffriva, leggendo, come se dentro gli si fosse riaperta una piaga. Ippolita avrebbe voluto impedirgli d'andare oltre. Ella si ricordava di quella sera in cui il marito era apparso d'improvviso nella casa di Caronno, tranquillo e freddo nei modi ma con lo sguardo d'un folle, dicendole d'essere venuto per ricondurla seco; e si ricordava del momento in cui erano rimasti soli, l'una di fronte all'altro, in una stanza un po' remota, mentre il vento agitava le tende della finestra, e il lume oscillava forte, e giungeva lo stormire degli alberi sottostanti. Si ricordava della lotta selvaggia e silenziosa sostenuta allora contro quell'uomo che l'aveva abbracciata con un movimento repentino, oh ribrezzo! volendola possedere.

—Basta, basta, Giorgio!—ella disse, attirando a sé la testa dell'amato.—Non leggiamo più.

Ma egli volle seguitare. «Ancóra non comprendo. Non comprendo la riapparizione di quell'uomo; e non so difendermi da un sentimento iroso che va, in parte, anche contro di te. Per non tormentarti, non ti scrivo in proposito i miei pensieri. Sono acerbi e oscurissimi. Sento che, per qualche tempo, la mia tenerezza è avvelenata. Credo sia meglio che tu non mi riveda. Non tornare ora, se vuoi evitare a te medesima un dolore inutile. Io non sono buono ora. L'anima mia ti ama e ti si prostra, e il pensiero ti morde e ti macchia. E il contrasto ricomincia sempre, non finirà mai!» Nella lettera del giorno dopo: «Un dolore, un dolore atroce, insostenibile, non mai provato... O Ippolita, ritorna, ritorna! Voglio vederti, parlarti, accarezzarti. Ti amo come non mai... Risparmiami però la vista delle tue lividure. Io non so pensarci senza raccapriccio e senza collera. Mi pare che, se vedessi la tua carne macchiata da quelle mani, mi si spezzerebbe il cuore... Orribile! Orribile!»

—Basta, Giorgio. Non leggiamo più—supplicò di nuovo Ippolita, prendendo fra le sue palme la testa dell'amato, baciandolo su gli occhi.—Giorgio, ti prego!

Ella riuscì ad allontanarlo dal tavolo. Egli sorrideva, lasciandosi trarre; sorrideva di quel sorriso indefinibile che hanno certi malati quando si piegano alla volontà altrui, pur sapendo bene che il rimedio è tardo e vano.

VII

La sera del venerdì santo ripartirono per Roma. Prima di partire, verso le cinque, presero il tè. Erano taciturni. La vita semplice vissuta in quell'albergo apparve loro, nel momento che stava per finire, straordinariamente bella e desiderabile. L'intimità di quelle stanze modeste apparve loro più dolce e più profonda. I luoghi, per ove essi avevano portato le loro malinconie e le loro tenerezze, apparvero in una luce ideale. Ancóra un frammento del loro amore e del loro essere cadeva nell'abisso del tempo, distrutto.

Giorgio disse:

—Anche questo è passato.

Ippolita disse:

—Come farò? Mi pare di non poter più dormire che sul tuo cuore.

Ambedue si guardarono negli occhi, si comunicarono la loro commozione, si sentirono dall'onda cresciuta chiudere la gola. Tacquero; ed ascoltarono il romore eguale e continuo che facevano i selciatori nella strada battendo le selci. Quel romore accorante aumentò la loro pena.

Giorgio disse, levandosi:

—È insopportabile.

Quegli urti cadenzati acuivano in lui il sentimento della fugacità del tempo, ch'egli aveva già così vivo; gli davano quella specie di terrore ansioso ch'egli aveva già altre volte esperimentato ascoltando le vibrazioni del pendolo. Eppure, il romore medesimo, nei giorni scorsi, non lo aveva cullato in un vago senso di benessere? Egli pensò: «Noi ci divideremo, fra due o tre ore. Io ricomincerò la mia vita solita, tutta fatta di piccole miserie. Sarò ripreso dal solito male, inevitabilmente. Io conosco poi le turbolenze che suscita in me la primavera. Soffrirò, senza tregua. E sento già che uno de' miei carnefici più accaniti sarà il pensiero confittomi nel capo da quell'Exili, l'altro dì. Se Ippolita volesse guarirmi, potrebbe? Forse, almeno in parte. Perché non verrebbe ella con me, in un luogo solitario, non per una settimana ma per lungo tempo? Ella è, nell'intimità, adorabile, piena di minute cure e di minute grazie. Più d'una volta ella m'è parsa una sorella, una sorella amante, gravis dum suavis, la creatura del mio sogno. Forse ella potrebbe guarirmi, con la sua presenza assidua; o almeno potrebbe alleggerire la mia vita.»

Egli chiese, fermandosi davanti a Ippolita, prendendole ambo le mani:

—Sei stata molto felice, in questi pochi giorni? Rispondimi.

Aveva la voce commossa e insinuante.

Ippolita rispose:

—Come non mai.

Giorgio le strinse forte le mani, poiché sentiva in quelle parole una sincerità profonda.

Soggiunse:

—Puoi tu seguitare a vivere come vivi?

Ippolita rispose:

—Non so; non vedo nulla innanzi a me. Tu sai che tutto è caduto.

Ella abbassò gli occhi. Giorgio la prese fra le sue braccia, appassionatamente.

—Tu mi ami; è vero? Io sono per te l'unico scopo della tua esistenza; tu non vedi che me nel tuo avvenire...

Ella disse, con un sorriso impreveduto che le sollevò i lunghi cigli:

—Tu sai che è così.

Egli soggiunse, a voce bassa, chinando la faccia sul petto di lei:

—Tu sai il mio male.

Ella pareva avere indovinato il pensiero dell'amante. Domandò, quasi in segreto, quasi restringendo con la voce sommessa il cerchio ove insieme respiravano e palpitavano:

—Come ti potrei guarire?

Tacquero, avvinti. Ma nel silenzio le loro anime consideravano, risolvevano una medesima cosa.

—Vieni con me!—Giorgio interruppe.-Andiamo in un paese sconosciuto; restiamo là tutta la primavera, tutta l'estate, fin che potremo... E tu mi guarirai.

Ella non esitò. Disse:

—Eccomi. Io sono tua.

Si sciolsero, consolati. Prepararono l'ultima valigia, per partire. Ippolita raccolse tutti i suoi fiori, già appassiti nei bicchieri: le violette della Villa Cesarini, i ciclamini, gli anemoni e le pervinche del Parco Chigi, e le rose scempie di Castel Gandolfo, e anche un ramo di mandorlo, còlto in vicinanza dei Bagni di Diana, tornando dall'Emissario. Quei fiori potevano raccontare tutti gli idillii:—Oh la corsa folle giù per un pendìo ripido del parco, su le foglie secche dove i piedi affondavano sino alla caviglia! Ella gridava e rideva, sentendosi pungere le gambe dalle ortiche verdi, che trapassavano la calza sottile; e allora Giorgio, precedendola, abbatteva col bastone le piante pungenti che ella poi calpestava incolume. Verdissime le ortiche, innumerevoli, ornavano i Bagni di Diana, l'antro misterioso ove gli stillicidii erano musicali col favore degli echi. Ed ella dall'ombra umida guardava il campo esterno tutto coperto di mandorli e di peschi, rosei ed argentei, infinitamente delicati sul pallido indaco delle acque lacustri.—Ogni fiore, un'imagine.

—Guarda—ella disse mostrando a Giorgio una tessera—il biglietto di Segni-Paliano! Lo conservo.

Pancrazio batté all'uscio. Portava a Giorgio il conto saldato. Intenerito dalla generosità del signore, egli si profuse in ringraziamenti e in augurii. Giunse perfino a levarsi di tasca due biglietti di visita e ad offrirli «per memoria del suo povero nome», scusandosi dell'ardire. Come uscì, i due falsi sposi novelli si misero a ridere. Sul biglietto era scritto con un carattere pomposo:—Pancrazio Petrella.

Disse Ippolita:

—Conserveremo anche questo!

Pancrazio batté di nuovo all'uscio. Portava in dono quattro o cinque aranci alla signora, magnifici. Gli occhi gli brillavano in un viso rubicondo. Egli anche avvertì:

—È tempo di scendere.

Giù per le scale gli amanti furono ripresi dalla tristezza e quasi da un senso di timore, come se uscendo da quell'asilo di pace andassero incontro ad oscuri pericoli. Il vecchio albergatore li salutò su la porta, dicendo con rammarico:

—Avevo per questa sera certe belle lòdole!

Giorgio assicurò, con labbra convulse:

—Torneremo presto, torneremo presto.

Mentre scendevano alla stazione, il sole tramontava nel mare, all'estremo limite della pianura laziale, rossastro fra le caligini. Alla Cecchina, piovigginava. Roma, nella sera di venerdì santo umidiccia e nebbiosa, parve loro, quando si separarono, una città dove altro non si potesse che morire.

LIBRO SECONDO

LA CASA PATERNA


I

Verso gli ultimi di aprile Ippolita partì per Milano, chiamata dalla sorella a cui era morta la suocera in quei giorni. Giorgio doveva anche partire, alla ricerca del paese sconosciuto. E verso la metà di maggio dovevano ritrovarsi insieme.

Ma in quei giorni appunto Giorgio aveva ricevuto una lettera della madre, piena di cose dolorose, quasi disperata. E oramai egli non poteva più differire il ritorno alla sua casa paterna.

Quando sentì che doveva senza altri indugi accorrere là dove era il vero dolore, fu occupato da una torbida angoscia in cui la primitiva pietà filiale venne a poco a poco sopraffatta da una irritazione crescente che aumentava d'acredine come più chiare e più spesse sorgevano nella conscienza le imagini della lotta prossima e come più alte sonavano dal profondo le voci dell'egoismo intollerante. E quella irritazione si fece così acre che in breve dominò sola, durevole, mantenuta dai fastidii materiali della partenza, dagli strazii del commiato.

Il commiato fu doloroso come non mai. Giorgio era in un periodo di sensibilità acutissimo. Tutti i suoi nervi tesi ed esacerbati lo tenevano in uno stato di inquietudine incessante. Egli pareva incredulo della felicità promessa, della quiete ventura. Quando Ippolita gli disse addio, egli domandò:

—Ci rivedremo?

Quando egli su la soglia le diede in bocca l'ultimo bacio, notò che ella calava su quel bacio un velo nero; e quel piccolo fatto insignificante lo turbò a dentro, gli s'ingigantì nell'imaginazione come un presagio sinistro.

Giungendo a Guardiagrele, alla città natale, alla casa paterna, egli era così estenuato che nell'abbracciare la madre pianse come un fanciullo. E pure né da quell'abbraccio né da quelle lacrime provò conforto. Gli parve d'essere nella sua casa un estraneo; gli parve d'essere in mezzo a una famiglia non sua. Quel singolar sentimento di distacco, ch'egli già altre volte aveva provato verso i consanguinei, ora gli risorgeva più vivo e più molesto. Mille piccole cose, nella vita familiare, lo irritavano, lo ferivano. Certi silenzii, durante il pranzo, durante la cena, riempiti dal tintinno delle forchette, gli davano un fastidio insopportabile. Talune sue abitudini di finezza ricevevano ad ogni tratto una scossa brusca, un urto rude. Quell'aria di dissenso, di ostilità, di guerra, che pesava su la sua casa, gli toglieva il respiro.

La madre lo aveva chiamato in disparte, la sera stessa dell'arrivo, per raccontargli tutti i suoi dolori, tutti i suoi patimenti, tutte le sue ansietà, per raccontargli tutti i disordini e tutti gli eccessi del marito. Ella gli aveva detto con la voce tremante di collera, guardandolo con gli occhi pieni di lacrime:

—Tuo padre è un infame!

Ed ella aveva le palpebre un po' gonfie, arrossite dal lungo piangere; aveva le gote scarne; aveva in tutta la persona le tracce d'una sofferenza lungamente durata.

—È un infame! È un infame!

Salendo alle sue stanze, Giorgio conservava ancóra nell'orecchio il suono di quella voce; rivedeva l'attitudine della madre; riudiva le accuse ad una ad una, le accuse ignominiose contro l'uomo di cui egli portava nelle vene il sangue. E il cuore gli si gonfiava così ch'egli credeva di non poterlo trascinare più oltre. Ma un'aspirazione improvvisa e furiosa verso l'amante lontana lo alterò diversamente; ed egli sentì che non era grato alla madre di avergli rivelate tante miserie, egli sentì che avrebbe preferito ignorare, non occuparsi d'altro se non del suo amore, non dover soffrire d'altro se non del suo amore.

Entrò nelle sue stanze, si chiuse. La luna di maggio splendeva su i vetri dei balconi. Ed egli aprì le imposte, provando un gran bisogno di respirare l'aria della notte; si appoggiò alla ringhiera, bevve, come a lunghi sorsi, la freschezza notturna. Un'immensa pace regnava nella valle sotto stante; e la Maiella, tutta ancóra candida di nevi, pareva ampliare l'azzurro col suo semplice e solenne lineamento. Guardiagrele dormiva, simile a un gregge biancastro, intorno a Santa Maria Maggiore. Una sola finestra, in una casa vicina, era illuminata, d'una luce gialla.

Egli dimenticò la ferita recente. Innanzi alla bellezza della notte, egli non ebbe se non un pensiero: «Ecco una notte perduta per la felicità!»

Stette in ascolto. Gli giunse nel silenzio, da una stalla vicina, lo scalpitìo d'un cavallo; poi, un tintinno fioco di sonagli. Guardò la finestra illuminata; e vide, nel rettangolo di luce, passare alcune ombre, ondeggianti, come di persone che nell'interno si agitassero. Stette in ascolto. Gli parve di sentir battere leggermente all'uscio. Andò ad aprire, nel dubbio.

Era la zia Gioconda.

—Mi dimentichi?—disse ella entrando, abbracciandolo.

Non avendola veduta all'arrivo, egli l'aveva dimenticata, infatti. Si scusò. La prese per mano, la fece sedere, le parlò con voce affettuosa.

Ella era la sorella del padre, la maggiore, sessantenne. Zoppicava, per una caduta; ed era un poco pingue ma d'una pinguedine malaticcia, floscia, esangue. Tutta immersa nelle cose della religione, ella viveva in una stanza remota, all'ultimo piano della casa, quasi separata dalla famiglia, trascurata, non amata, ritenuta inferma di mente. Il suo mondo si componeva d'imagini sacre, di reliquie, di emblemi, di simboli. Ella non altro faceva che seguire le pratiche della divozione, assopirsi nella monotonia delle preghiere, soffrire le crudeli torture che le dava la sua golosità. Ella era ghiotta di dolciumi, provando nausea d'ogni altro cibo; e i dolciumi spesso le mancavano. Prediligeva Giorgio perché egli ad ogni ritorno le portava una scatola di confetture e una scatola di rosolii.

—Dunque—ella diceva, balbettando tra le gengive quasi vuote—dunque... tu sei tornato... eh... sei tornato...

Ella lo guardava, con un po' di peritanza, non sapendo dir altro; ma aveva negli occhi un'aspettazione manifesta. E Giorgio, pur tra il disgusto che gli dava l'alito di lei, si sentiva stringere il cuore da una pietà angosciosa. Pensava: «Questa misera creatura, caduta in una delle più basse degradazioni umane, questa povera beghina ingorda, è legata a me da vincoli di sangue; è della mia stessa razza!»

—Dunque...—ella ripeteva, presa da un'ansia visibile; e i suoi occhi divenivano quasi impudenti.

—Oh, zia Gioconda, perdonami!—disse alfine Giorgio, con uno sforzo penoso.—Questa volta mi sono dimenticato di portarti i dolci.

La vecchia si mutò nel viso, come s'ella fosse per venir meno. Gli occhi le si spensero. Ella balbettò:

—Non fa niente...

—Ma te ne procurerò, domani—soggiunse Giorgio, per consolarla, col cuore stretto.—Te ne procurerò; poi, scriverò...

La vecchia si rianimava. Disse, con gran premura:

—Sai, alle Orsoline... si trovano.

Poi, dopo un intervallo di silenzio, in cui ella certo pregustò la delizia del domani perché mise dalla bocca sdentata un piccolo gorgoglio come ingoiando la saliva soverchia:

—Povero Giorgio!... Eh, se non avessi Giorgio, io! Vedi che succede in questa casa? Il castigo del Cielo... Va, va a vedere sul balcone i vasi. Io, io, li ho inaffiati sempre. Ho sempre pensato, io, a Giorgio! Prima avevo Demetrio, ora ho te solo.

Ella si levò, prese per mano il nipote e lo condusse a uno dei balconi; gli mostrò i vasi prosperi; colse una foglia di bergamotto e gliela porse. Si chinò per sentire se la terra era secca; poi disse:

—Aspetta.

—Dove vai, zia Gioconda?

—Aspetta.

Ella si allontanò zoppicando, uscì dalla stanza; e rientrò poco dopo, reggendo a fatica una brocca ricolma.

—Ma perché fai questo, zia? Perché ti dai pena?

—I vasi hanno bisogno d'acqua. Se io non ci penso, chi ci pensa?

Ella annaffiò i vasi. Ansava forte; e l'affanno roco di quel petto senile straziava il giovine.

Egli disse, togliendole di tra le mani la brocca:

—Basta così.

Rimasero sul balcone, mentre l'acqua dai vasi gocciolava su la strada con un leggero strepito.

—Di chi è quella finestra illuminata?—domandò Giorgio, per rompere il silenzio.

—Oh—rispose la vecchia—sta per morire Don Defendente Scioli.

Guardarono ambedue agitarsi le ombre, su quel rettangolo di luce gialla. La vecchia, all'aria fredda della notte, incominciò a tremare.

—Va, va a letto, zia Gioconda.

Egli volle ricondurla fino alla stanza del piano superiore. In un corridoio incontrarono qualche cosa che si trascinava su i mattoni pesantemente. Era una testuggine. La vecchia disse, soffermandosi:

—Questa ha l'età tua: venticinque anni. S'è azzoppata come me. Un calcio di tuo padre...

Egli ripensò la tortora spennata, la zia Giovanna, alcuni istanti della vita d'Albano.

Giunsero su la soglia. Un odore nauseoso, un lezzo di malattia e d'immondizia, emanava dall'interno. Al lume debole d'una lampada apparivano le pareti coperte di madonne e di crocifissi, un paravento lacero, una poltrona che mostrava i ferri e la stoppa.

—Vuoi entrare?

—No, grazie, zia Gioconda. Va a letto.

Ella entrò presto presto e ritornò su la soglia con un cartoccino che aperse innanzi a Giorgio, versandosi un po' di zucchero su la palma della mano.

—Vedi? Non ho che questo poco.

—Domani, domani, zia... Va a letto, ora. Santa notte!

Ed egli la lasciò, non potendo più reggere, con lo stomaco rivoltato, con il cuore disfatto. Uscì di nuovo sul balcone.

La luna pendeva a mezzo del cielo, colma. La Maiella era inerte e glaciale come uno di quei promontorii selènici che il telescopio avvicina alla terra. Guardiagrele dormiva, da presso. I bergamotti odoravano.

«Ippolita! Ippolita!» Tutta l'anima sua tendeva all'amante, in quell'ora di suprema angoscia, chiedendo aiuto. «Ippolita!»

Un grido, improvviso, risonò nel silenzio, dalla finestra illuminata: un grido di donna. Poi altri gridi seguirono; poi seguì un singhiozzare continuo che si elevava e si abbassava come un canto cadenzato. L'agonia era finita. Si disperdeva uno spirito nella notte omicida e calma.

II

Bisogna—diceva la madre—bisogna che tu mi aiuti; bisogna che tu gli parli, che tu gli faccia sentire la tua voce. Tu sei il primogenito. È necessario, Giorgio.

Ed ella seguitava ad enumerare le colpe del marito, seguitava a rivelare al figliuolo le vergogne del padre. Questo padre aveva una concubina: una pettinatrice ch'era già stata al servizio della famiglia, una donna perduta, avidissima; e per lei e per gli spurii dissipava tutte le sostanze, senza ritegno alcuno, trascurando gli affari, trascurando le campagne, vendendo i raccolti a prezzo vile, al primo offerente, per aver denaro; e giungeva, e giungeva qualche volta sino a far mancare nella casa il necessario; e si rifiutava di dare la dote alla figlia minore che pure da tanto tempo era sposa promessa; e ad ogni rimostranza rispondeva con le grida, con le contumelie, qualche volta con violenze più ignobili.

—Tu vivi lontano, tu non sai in che inferno viviamo noi. Tu non puoi imaginare nemmeno una minima parte di quel che noi stiamo soffrendo... Ma tu sei il primogenito. Bisogna che tu gli parli. È necessario, Giorgio. È necessario.

Giorgio taceva, con gli occhi bassi, facendo uno sforzo immane per contenere l'esasperazione di tutti i suoi nervi, al conspetto di quel dolore che gli si mostrava con tanta crudezza. Quella dunque era sua madre? Quella bocca convulsa, amara, che si scomponeva così aspramente pronunziando le parole crude, era la bocca di sua madre? Il dolore dunque e la collera l'avevano tanto mutata?—Egli sollevò gli occhi per guardarla, per ritrovare nel viso di lei le tracce della dolcezza d'un tempo. Come aveva egli un tempo conosciuta dolce la madre! Che bella e tenera creatura ella era un tempo! E come l'aveva egli teneramente amata, nella puerizia, nell'adolescenza! Era alta e gracile, Donna Silveria, bianca e di capelli quasi bionda e d'occhi oscura; ed aveva in tutta la persona l'impronta della buona stirpe, poiché ella esciva di quella famiglia Spina che, insieme con la famiglia Aurispa, ha il suo stemma scolpito sotto il portico di Santa Maria Maggiore. Che tenera creatura ella era un tempo! Perché tanto mutata?—Il figliuolo soffriva d'ogni gesto di lei un po' incomposto, d'ogni parola acre, di tutte le alterazioni che la furia del risentimento portava nella sembianza di lei; e soffriva nel veder così coperto di vergogna il padre, nel vedere un abisso così terribile scavato tra i due esseri a cui egli doveva l'esistenza. Quale esistenza!

—Tu intendi, Giorgio?—ella incalzava.-È necessario da parte tua un atto di energia. Quando gli parlerai? Risòlviti.

Egli intendeva, e si sentiva scuotere l'intime viscere da un tremito come di orrore; e rispondeva interiormente: «Oh, mamma, chiedimi tutto, chiedimi qualunque sacrificio più atroce; ma risparmiami questo passo, non mi spingere a questo coraggio! Io sono vile.» Una ripugnanza invincibile gli si levava dalle radici dell'essere, al pensiero di dover affrontare il padre, al pensiero di dover compiere un atto di forza e di volontà. Avrebbe preferito lasciarsi troncare una mano.

Rispose, con la voce velata:

—Va bene, mamma. Gli parlerò. Troverò il momento opportuno.

Se la prese fra le braccia e la baciò su le guance, come per chiederle tacitamente perdono della menzogna; poiché egli assicurava a sé stesso: «Non troverò il momento opportuno, non parlerò.»

Restarono nel vano della finestra. La madre aprì le imposte, dicendo:

—Fra poco porteranno via Don Defendente Scioli.

Si affacciarono, l'uno accanto all'altra. Ella soggiunse, volgendosi al cielo:

—Che giornata!

Guardiagrele, la città di pietra, risplendeva al sereno di maggio. Un vento fresco agitava le erbe su le grondaie. Santa Maria Maggiore aveva per tutte le fenditure, dalla base al fastigio, certe pianticelle delicate, fiorite di fiori violetti, innumerevoli; così che l'antichissimo Duomo sorgeva nell'aria cerulea tutto coperto di fiori marmorei e di fiori vivi.

Giorgio pensava: «Io non rivedrò Ippolita. Ho un presentimento funesto. So che fra cinque giorni, che fra sei giorni partirò per andare a cercare l'eremo dei nostri sogni; e so nel tempo medesimo che farò una cosa inutile, che non riuscirò a nulla, che mi arresterò a un ostacolo oscuro. Com'è strano e indefinito quel ch'io provo! Non so io, ma qualcuno dentro di me sa che tutto sta per finire.» Pensava: «Ella non mi scrive. Da che sono qui, mi ha telegrafato due volte, brevemente: da Pallanza e da Bellagio. Ella non m'è parsa mai così lontana. Forse, in questo istante, un altro uomo le piace. Può l'amore cadere d'un tratto dal cuor d'una donna? Sì; tutto è possibile nel mondo interiore. Il cuore di lei è stanco. Ad Albano, scaldato dai ricordi, mi dava forse i suoi ultimi palpiti. Ed io mi sono illuso! Certi fatti, se uno sa considerarli in forma ideale, portano in fondo a loro nascosta una significazione precisa, indipendente dalle apparenze. Orbene, tutti i piccoli fatti, di cui si compose la nostra vita d'Albano, se io li considero nel mio pensiero, hanno una significazione non dubbia, un'impronta sicura: sono finali. Quando giungemmo alla stazione di Roma, la sera di venerdì santo, e ci separammo, ed ella si allontanò nella vettura fra la nebbia, non mi parve d'averla perduta per sempre, senza riparo? Non ebbi, profondo, il sentimento della fine?» Gli riapparve nell'imaginazione il gesto d'Ippolita che calava il velo nero su l'ultimo bacio. Il sole, l'azzurro, i fiori, tutte le cose liete non altro gli suggerirono se non questo: «Senza di lei, è impossibile la vita!»

Disse la madre in quel punto, sporgendosi dal davanzale, guardando verso la porta del Duomo:

—Escono.

Escivano dalla porta gli accompagnatori funebri, con le insegne. La bara era portata da quattro uomini incappati, su le spalle. Due lunghe file d'incappati seguivano tenendo in mano torchietti accesi. Non apparivan di costoro se non gli occhi, pe' due buchi del cappuccio. Il vento a tratti faceva oscillare le fiammelle appena visibili; ne spegneva qualcuna; e i torchietti si struggevano lacrimando. Ciascuno incappato aveva a fianco un fanciullo scalzo che raccoglieva la cera liquefatta nel concavo d'ambe le mani.

Come fu tutto svolto nella strada il corteo, una banda di sonatori vestiti di rosso e impennacchiati di bianco intonò la marcia funebre. I mortuarii misurarono il passo sul ritmo della musica. Gli strumenti d'ottone scintillarono al sole.

Giorgio pensava: «Che onoranza triste e ridicola segue la morte d'un uomo!» Vide sé stesso nella bara, chiuso tra le assi, portato da quegli uomini mascherati, accompagnato da quelle torce, da quell'orribile strombettio. L'imagine lo empì di disgusto. Poi lo attrassero quei fanciulli laceri che raccoglievano le lacrime della cera, a fatica, un po' curvi, con un passo ineguale, con gli occhi intenti alla fiammella mutabile.

—Povero Don Defendente!—mormorò la madre, guardando allontanarsi il corteo.

Poi soggiunse, come parlando a sé medesima e non al figliuolo, stanca:

—Perché povero? È entrato nella pace; e noi restiamo a penare.

Il figliuolo la guardò. I loro occhi s'incontrarono; ed ella gli sorrise ma d'un sorriso così fievole che non mosse alcuna linea del volto. Fu come un passaggio d'un velo leggerissimo, appena appena chiaro, sul volto pur sempre atteggiato di tristezza. E quel lume tenue fu pel figliuolo come una gran luce subitanea; poiché egli vide, allora soltanto vide intieramente sul volto della madre l'opera irrimediabile del dolore.

Un'onda di tenerezza impetuosa gli gonfiò il petto, innanzi alla tremenda rivelazione che gli faceva quel sorriso. La madre, sua madre, non poteva più sorridere se non in quel modo, in quel modo solo! Le impronte della sofferenza erano omai indelebili sul caro volto ch'egli aveva veduto tante volte chinarsi verso di lui, con tanta bontà nella malattia, nell'inquietudine! La madre, sua madre, si consumava a poco a poco, si logorava di giorno in giorno, andava piegando verso il sepolcro, inevitabilmente! Ed egli, dianzi, quando la madre esalava la pena, dianzi egli aveva sofferto non del dolore di lei ma del suo proprio egoismo offeso, dell'urto che infliggevano ai suoi nervi malati le espressioni crude del dolore materno!

—Oh, mamma...—egli balbettò, soffocato dal pianto, prendendole le mani, ritraendola dentro la stanza.

—Giorgio, che hai? Figlio mio, che hai?—chiedeva la madre, sbigottita, vedendogli tutta la faccia rigata di lacrime.—Dimmi: che hai?

Oh, era quella la voce cara, la voce unica, indimenticabile, che gli toccava il fondo dell'anima; era quella la voce di consolazione, di perdono, di consiglio, d'infinita bontà ch'egli aveva ascoltato ne' giorni suoi più oscuri; era quella, era quella! Egli riconosceva alfine la tenera creatura d'un tempo, l'adorata.

—Oh mamma, mamma...

Egli la stringeva fra le braccia, singhiozzando, bagnandola delle sue lacrime calde, baciandola su le guance, su gli occhi, su la fronte, smarritamente.

—Povera mamma mia!

Egli la fece sedere, le s'inginocchiò d'innanzi, la guardò; la guardò a lungo, come se la rivedesse soltanto allora, dopo gran tempo. Ella chiese, con la bocca convulsa, mal trattenendo il singhiozzo che le serrava la gola:

—Ti ho fatto molta pena?

Ella gli asciugò le lacrime, gli accarezzò i capelli. Con la voce interrotta dai sussulti, diceva:

—No, no, Giorgio; tu non ti devi affliggere, tu non devi soffrire... Dio ti ha tenuto lontano da questa casa. Tu non devi soffrire. In tutta la mia vita, da che tu sei nato, in tutta la mia vita io sempre, sempre ho cercato di risparmiarti una pena, un dolore, un sacrificio. E questa volta non ho saputo tacere!... Io dovevo tacere, non dovevo dirti nulla. Perdonami, Giorgio. Non credevo di farti tanta pena. Non piangere; ti prego! Non piangere più! Ti prego, Giorgio... Io non posso vederti piangere.

Ella stava per prorompere, non reggendo all'ambascia.

—Vedi?—egli disse.—Non piango più.

Appoggiò la testa su le ginocchia di lei; rimase alquanto sotto la carezza delle dita materne; si calmò. Un singhiozzo ancóra lo scoteva di tratto in tratto. Gli ripassavano nello spirito, in forma d'un sentimento vago, afflizioni lontane dell'adolescenza. Udiva garrire le rondini, stridere la ruota di un arrotino, gente vociare nella strada: romori noti, uditi in pomeriggi lontani; romori che l'accoravano. Una specie di fluttuazione indefinita seguiva la crisi; ma, come riapparve l'imagine d'Ippolita, tutto il mondo interiore si agitò di nuovo con tale tumulto che su le ginocchia della madre il giovine trasse un sospiro.

Ella si chinò verso di lui, mormorando:

—Che sospiro!

Egli, tenendo chiuse le palpebre, le sorrise; ma un'immensa prostrazione lo invadeva, una desolata stanchezza, un bisogno disperato di sottrarsi alla guerra senza tregua.

La volontà di vivere si ritirava da lui a poco a poco, come il calore abbandona un cadavere. Nulla più rimaneva della commozione recente; la madre ridiveniva estranea.—Che cosa poteva egli fare per lei? Salvarla? Ridarle la pace? Ridarle la sanità, la gioia? La ruina non era irreparabile? L'esistenza di lei non era omai per sempre avvelenata?—La madre non gli poteva più offrire un rifugio, come nell'infanzia, come negli anni lontani. Ella non poteva comprenderlo, né consolarlo, né guarirlo. Troppo erano diversi i loro due spiriti e diverse le loro due vite. Ella non poteva dunque se non offrirgli lo spettacolo della propria tortura!

Si levò, la baciò, si separò da lei, uscì, salì alle sue stanze, si affacciò a uno dei balconi. Vide la Maiella tutta rosea nel tramonto: enorme e delicata, in un cielo verdastro. Il gridìo assordante delle rondini che turbinavano nell'aria lo respinse. Egli andò a distendersi sul letto.

Supino, pensò: «Ecco, io sono vivo, io respiro. Qual è la sostanza della mia vita? ed in balìa di quali forze? sotto l'impero di quali leggi? Io non mi posseggo, io sfuggo a me stesso. Il senso ch'io ho del mio essere è simile a quello che può avere un uomo il quale, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di continuo mancargli l'appoggio, dovunque egli posi il piede. Io sono perpetuamente ansioso; e neanche la mia ansietà è bene definita. Io non so se sia l'ansietà del fuggiasco inseguito alle calcagna o quella di chi insegue senza mai raggiungere. Forse è l'una e l'altra insieme.»

Le rondini garrivano passando e ripassando a stormi, come nere saette, nel rettangolo pallido segnato dal balcone.

«Che cosa mi manca? Qual è il difetto del mio organismo morale? Qual è la causa della mia impotenza? Io ho una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e armonioso. E ogni giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi fugge da varchi invisibili e innumerabili; e rimango come una vescica mezzo vuota che ad ogni movimento del liquido sbattuto prenda una diversa deformità. Tutte le mie forze non ad altro mi servono che a trascinare con una immensa fatica qualche granello di polvere a cui la mia imaginazione dà il peso d'un macigno gigantesco. Una discordia incessante agita e sterilisce tutti i miei pensieri. Che cosa mi manca? Chi dunque possiede del mio essere quella parte di cui non ho conscienza ma che pure m'è necessaria (sento) per continuare ad esistere? O forse quella parte del mio essere è già morta ed io non posso ricongiungermi a lei se non morendo? Così è. La morte, infatti, m'attira.»

Le campane di Santa Maria Maggiore sonarono a vespro. Egli rivide il corteo funebre, la bara, gli incappati; e quei fanciulli laceri che raccoglievano le lacrime della cera, a fatica, un po' curvi, con un passo ineguale, con gli occhi intenti alla fiammella mutabile.

Quei fanciulli gli rimasero lungo tempo impressi. Più tardi, scrivendo all'amata, egli sviluppò l'allegoria segreta che il suo spirito curioso d'imagini aveva confusamente intravista. «Uno di loro, mingherlino, giallastro, si appoggiava con una mano a una stampella e nel cavo dell'altra raccoglieva la cera, strascicandosi a fianco d'una specie di gigante incappato che stringeva il torchio nel pugno enorme brutalmente. Li vedo ancóra, ambedue; e non li dimenticherò. C'è qualcosa forse in me, che mi fa assomigliare a quel fanciullo. La mia vera vita è in potere di qualcuno, misterioso, inconoscibile, che la stringe con un pugno di ferro; ed io la vedo struggersi, trascinandomi accosto accosto, affaticandomi per raccoglierne almeno una piccola parte. Ed ogni goccia brucia la mia povera mano.»

III

Su la mensa, in un vaso, era un mazzo di rose fresche, rose di maggio, che Camilla, la sorella minore, aveva còlte nel giardino. Sedevano intorno alla mensa il padre, la madre, il fratello Diego e, per quel giorno, il fidanzato di Camilla e la sorella maggiore Cristina col marito e con un suo bimbo biondetto, niveo, gracile come un giglio semichiuso.

Giorgio sedeva tra il padre e la madre.

Il marito di Cristina, il barone di Palleaurea Don Bartolomeo Celaia, parlava d'intrichi municipali, con una voce irritante. Era un uomo di circa cinquant'anni, asciutto, calvo su la sommità della testa come un tonsurato, con una faccia tutta rasa. Una certa asprezza di gesti, una quasi arroganza di modi facevano un singolare contrasto con quel suo aspetto clericale.

Udendolo, osservandolo, Giorgio pensava: «Cristina può essere felice? può amare quell'uomo? Cristina, la cara creatura, affettuosa e malinconica, che io ho vista piangere tante volte in effusioni improvvise di tenerezza, Cristina legata per tutta la vita a quell'uomo arido, quasi vecchio, inasprito di continuo nelle stupide guerricciuole della politica paesana! Ed ella non può neanche trovare un conforto nella sua maternità; ella non può se non struggersi in ansie e in timori per quel suo figliuolo malaticcio, esangue, sempre pensieroso. Povera creatura!»

Guardò la sorella, con uno sguardo pieno di bontà compassionevole. Cristina gli sorrise, di sopra le rose, inclinando un po' la testa a sinistra, con un atto di grazia, com'ella soleva.

Egli pensò, vedendo accanto a lei Diego: «Sembrano forse dello stesso sangue? Cristina ha ereditata in gran parte la gentilezza materna; ha gli occhi di nostra madre, e specialmente le arie di lei, certi gesti. Ma Diego!» Egli l'osservava, provando contro di lui la ripulsione istintiva che ogni essere prova al conspetto dell'essere contrario, contraddicono, assolutamente opposto. Il fratello mangiava con voracità, senza levar mai la faccia di sul piatto, occupato nella bisogna. Non aveva ancóra vent'anni; ma era tarchiato, ingrossato già da un principio di pinguedine, acceso di colore. I suoi occhi piccoli e grigiastri, sotto la fronte bassa, non mostravano alcun lampo d'intelligenza; una lanugine fulva gli copriva le gote, le mascelle forti, gli ombrava la bocca tumida e sensuale; la stessa lanugine gli appariva su le mani dall'unghie poco nette che rivelavano il disdegno delle minute cure.

Giorgio pensò: «È un bruto. È singolare la ripugnanza che io debbo vincere per rivolgergli anche una parola insignificante, per rispondere anche al suo semplice buongiorno. Quando egli mi parla, non mi guarda mai negli occhi. Se per caso i nostri sguardi s'incontrano, egli sùbito sfugge, con una rapidità strana. Innanzi a me arrossisce quasi sempre, senza ragione. Che acuta curiosità ho io di sapere quel che egli prova per me! Certo, non mi ama.»

Il suo pensiero, la sua attenzione andarono al padre, con un passaggio spontaneo. Diego era il vero erede di quell'uomo.

Pingue, sanguigno, possente, quell'uomo pareva emanare dalle sue membra un perpetuo calore di vitalità carnale. Le mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena d'un soffio veemente; gli occhi torbidi e un po' biechi; il naso grande, palpitante, sparso di rossore; tutte le linee del volto portavano l'impronta della violenza e della durezza. Ogni gesto, ogni attitudine aveva l'impeto d'uno sforzo, come se la musculatura di quel gran corpo fosse in continua lotta con l'adipe ingombrante. La carne, la carne, questa cosa bruta, piena di vene, di nervi, di tendini, di glandule, d'ossa, piena di istinti e di bisogni; la carne che suda e che dà lezzo; la carne che si difforma, che s'ammala, che si piaga, che si copre di calli, di grinze, di pustole, di porri, di peli; questa cosa bruta, la carne, prosperava in quell'uomo con una specie di impudenza, dando al delicato vicino una impressione quasi di ribrezzo. «Non era, non era così, dieci, quindici anni fa; non era così» pensava Giorgio. «Io ricordo bene che non era. Sembra che questa espansione d'una brutalità latente, insospettata, si sia compiuta in lui a poco a poco. Io, io sono il figliuolo di quest'uomo!»

Egli guardò il padre. Notò che all'angolo di ciascun occhio, su la tempia, aveva un fascio di rughe e sotto ciascun occhio un gonfiore, una specie di borsa violacea. Notò il collo corto, gonfio, rossastro, apopletico. Si accorse che i baffi e i capelli portavano tracce di tintura. L'età, il principio della vecchiezza in un essere voluttuario, la implacabile opera del vizio e del tempo, il vano e mal riuscito artificio a nascondere la canizie senile, la minaccia d'una morte repentina, tutte queste cose misere e tristi, basse e tragiche, tutte queste cose umane diedero al cuore del figliuolo un turbamento profondo. L'invase, anche pel padre, una immensa pietà. «Biasimarlo? Anch'egli soffre. Tutta quella carne, che mi ispira un senso di ripugnanza così forte, tutta quella greve carne è abitata da un'anima. Chi sa quali angosce e quali stanchezze!—Egli, certo, ha della morte una paura folle...» Subitamente, gli si formò nello spirito l'imagine del padre agonizzante: stramazzava come fulminato, a terra, di schianto; sussultava, non anche morto, livido, muto, contraffatto, con l'occhio pieno dell'orrore di morire; rimaneva immobile, come sotto il secondo colpo d'un maglio invisibile, carne inerte. «Lo piangerebbe mia madre?»

La madre gli disse:

—Non mangi, non bevi. Non hai toccato quasi nulla. Ti senti male, forse?

Egli rispose:

—No, mamma. Questa mattina non ho fame.

Udendo presso la tavola uno strascicare, si volse. Vide la testuggine decrepita; ricordò le parole della zia Gioconda: «S'è azzoppata come me. Un calcio di tuo padre...»

Mentre egli la guardava, anche la madre disse, con un barlume di sorriso:

—Ha gli anni tuoi. Ero incinta di te, quando me la portarono.

Soggiunse, con lo stesso fievole sorriso:

—Era piccola piccola; aveva il guscio quasi trasparente. Pareva un giocattolo. È cresciuta a poco a poco, qui nella casa.

Ella prese la buccia di una mela e l'offerse alla testuggine. Rimase un istante a guardare la povera bestia che moveva con un tremolìo tardo la sua testa giallognola di vecchia serpe. Poi si mise a mondare un'arancia per Giorgio, con un'aria trasognata.

«Ella ricorda» pensò Giorgio, vedendo la madre così assorta. Indovinò l'ineffabile tristezza che doveva invadere quell'anima al ricordo del tempo felice, ora che tutto era ruinato, ora che tutto era finito, dopo tanti tradimenti, dopo tante infamie, irreparabilmente. «Ella era amata da lui, allora. Ella era giovine. Non aveva forse anche sofferto... Come deve sospirare il suo cuore! Che rimpianto disperato deve partirle dalle viscere!» Il figliuolo soffriva la sofferenza della madre, riproduceva in sé medesimo l'angoscia della madre. E tanto egli s'indugiò ad assaporare la suprema delicatezza della sua commozione, che gli occhi gli si velarono di lacrime. Le contenne, con uno sforzo. Le sentì cader dentro, assai dolci. «Oh mamma, se tu sapessi!»

Volgendosi, vide Cristina che gli sorrideva di sopra le rose.

Il fidanzato di Camilla stava dicendo:

—Questo significa non conoscere il codice. Quando uno ha la pretesa di...

Il barone approvava la dimostrazione del giovine laureato, ripetendo ad ogni frase di lui:

—Sicuro... sicuro...

Demolivano il sindaco.

Il giovine Alberto sedeva accanto a Camilla, alla sua sposa promessa. Era tutto lucido e roseo, come una figura di cera; portava una barbetta aguzza, i capelli spartiti da una scriminatura diritta, alcuni riccioli su la fronte bene composti, e sul naso un paio di lenti cerchiate d'oro. «È l'ideale di Camilla» pensò Giorgio. «Si amano da lungo tempo, d'un amore indomabile. Credono alla loro felicità futura. Hanno lungamente sospirato. Alberto deve aver condotta a braccio quella povera creatura per tutti i luoghi comuni dell'idillio. Camilla è guasta, soffre di mali fantastici; tutto il giorno non fa se non affaticare di Notturni il suo cembalo confidente. Si sposeranno. Quale sarà la loro sorte?—Un giovine vanitoso e vacuo, una fanciulla sentimentale, nella vita meschina della provincia...» Egli seguì per un poco, nella sua imaginazione, lo svolgersi di quelle due esistenze mediocri. Provò per la sorella un senso di pena. La guardò.

Ella aveva con lui qualche somiglianza fisica. Era alta e smilza, con capelli d'un bel castagno chiaro, con occhi chiari ma variabili: ora verdi, ora azzurri, ora grigi. Una velatura di cipria aumentava la sua pallidezza. Ed ella portava sul petto due rose.

«Ella somiglia a me non soltanto nel viso, forse. Anch'ella chiude forse nel suo spirito inconsapevole qualcuno dei germi funesti che in me consciente hanno con tanta potenza germogliato. Ella deve avere l'anima piena d'inquietudini e di malinconie mediocri. Ella è malata, senza conoscere il suo male.»

In quel punto, si levò la madre. Mentre gli altri la seguivano, il padre e Don Bartolomeo Celaia rimasero seduti a fumare. Parvero ambedue a Giorgio, in quel punto, più odiosi. Egli cinse con un braccio il fianco della madre, con l'altro il fianco di Cristina, affettuosamente; e passò così nella stanza attigua, quasi sospingendole. Si sentiva il cuore gonfio d'una tenerezza insolita, d'una compassione insolita. Udendo le prime note d'un Notturno che Camilla incominciava a suonare, disse a Cristina:

—Perché non scendiamo nell'orto?

La madre rimase coi fidanzati. Giorgio e Cristina, col bimbo taciturno, scesero.

Camminarono un tratto l'uno accanto all'altra, in silenzio. Giorgio aveva messo il suo braccio sotto il braccio della sorella, come soleva con Ippolita.

—Povero orto, nell'abbandono!—mormorò la sorella, soffermandosi.—Ti ricordi, quando eravamo piccoli, tutti i nostri giuochi?

Ella guardò Luca, il suo bimbo.

—Va, Luchino; corri, gioca un poco!

Il bimbo non le si mosse dal fianco; anzi la prese per mano. Ella sospirò, guardando il fratello.

—Vedi; è sempre così. Non corre, non gioca, non ride. Sta sempre attaccato a me. Non mi lascia mai. Tutto gli fa paura.

Giorgio non intendeva le parole, poiché era assorto nel pensiero dell'amica lontana.

L'orto giaceva metà al sole, metà all'ombra, circondato da un muro su cui scintillavano frantumi di vetro infissi nella calce. Una pergola correva lungo un lato. Lungo un altro lato, a distanze eguali, sorgevano certi cipressetti alti, sottili, diritti come candele, con una misera chioma al sommo del fusto, oscura, quasi nera, in forma del ferro d'una picca. Dalla parte di mezzogiorno, su un lembo solatìo, prosperavano alcuni filari d'aranci e di limoni, ora fioriti. Pel resto del terreno erano sparsi rosai, piante di lilla, ciuffi d'erbe aromatiche. Si vedevano ancóra qua e là certe piccole siepi di mirto, a disegno, che avevano orlato aiuole ora distrutte. In un angolo, era un buon ciliegio. Nel mezzo era una vasca rotonda, piena d'un'acqua cupa ove le borraccine verdeggiavano.

—Ma ti ricordi—diceva Cristina—quando cadesti nella vasca, che ti riprese il povero zio Demetrio? Che spavento, quel giorno! Fu un miracolo se ti riprese vivo.

Udendo il nome di Demetrio, Giorgio si scosse. Era il nome amato, il nome che gli metteva sempre nel cuore un gran palpito. Diede ascolto alla sorella. Guardò l'acqua su cui certi insetti dalle lunghe gambe correvano rapidamente. Gli venne una voglia inquieta di parlare del morto, di parlarne con abondanza, rievocando tutte le memorie. Ma si trattenne, col sentimento orgoglioso di chi vuol conservare un segreto per nutrirne lo spirito in solitudine; si trattenne con un sentimento quasi di gelosia, pensando che la sorella avrebbe potuto addolorarsi e intenerirsi su la memoria del morto. La memoria del morto apparteneva a lui solo. Egli la conservava nell'intimo dell'anima sua, con un culto triste e profondo, per sempre. Demetrio era stato il suo vero padre; era il suo vero unico parente.

E rivide l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

—Ti ricordi—diceva Cristina—quando una sera ti nascondesti e non ti facesti più vedere sino alla mattina, rimanendo fuori tutta la notte? Che spavento, anche quella volta! Come ti cercammo! E come ti piangemmo!

Giorgio sorrise. Egli si ricordava di non essersi nascosto per gioco, ma per una curiosità crudele, per farsi credere perduto, per farsi piangere dai suoi. Nella sera, in una sera umida e calma, egli aveva udito le voci che lo chiamavano, aveva ascoltato tutti i rumori che venivano dalla casa sconvolta, aveva trattenuto il respiro con terrore e con gioia vedendo passare accosto al suo nascondiglio le persone che lo cercavano. Poi l'orto alfine, essendo stato percorso inutilmente, era rimasto tranquillo. Ed egli, guardando la casa dove le finestre s'illuminavano e si rabbuiavano successivamente come per passaggi di gente agitata, aveva provato un sentimento straordinario, acuto sino alle lacrime: s'era impietosito per l'angoscia de' suoi e per sé medesimo, quasi che veramente egli fosse perduto, ma aveva intanto persistito nel tenersi nascosto. E poi era venuta l'alba; e quella lenta espansione della luce nel silenzio immenso gli aveva come fugato dal cervello un vapore di follia, gli aveva ridato la conscienza della realtà, gli aveva suscitato il rimorso. Egli aveva pensato al padre, al castigo, con terrore, con disperazione, rimirando la vasca, sentendosi attrarre da quell'acqua pallida e mite che rifletteva il cielo, da quell'acqua ove già alcuni mesi innanzi egli era stato per morire...

«Fu nell'assenza di Demetrio», anche si ricordò.

—Senti, Giorgio, che profumo?—diceva Cristina.—Vorrei cogliere qualche fiore.

L'aria, tutta pregna d'una calda umidità e carica di effluvii, disponeva alla mollezza. I grappoli di lilla, le zàgare, le rose, e il timo, la maggiorana, il basilico, il mirto, tutte le essenze, componevano una sola essenza, delicata e forte.

—Giorgio—chiese Cristina, d'improvviso—perché sei tanto pensieroso?

In quel minuto, aspirando il profumo, Giorgio aveva sentito dentro di sé un gran tumulto, tutta la sua passione insorgere a furia, il desiderio d'Ippolita sopraffare ogni altro sentimento, mille ricordi di sensuale delizia correre per le vene.

Soggiunse Cristina, sorridendo, esitando:

—Pensi... a lei?

—Ah, già, tu sai!—disse Giorgio, con un rossore subitaneo sotto lo sguardo mite della sorella, rammentandosi d'averle parlato d'Ippolita nell'autunno scorso, nel settembre, quando egli era ospitato alle Torrette di Sarsa, sul mare.

Sorridendo, esitando, Cristina chiese:

—Le vuoi ancóra... lo stesso bene?

—Ancóra.

Camminarono, senz'altre parole, verso i filari degli agrumi, ambedue diversamente turbati: Giorgio sentendo dalla consapevolezza della sorella aumentato il rammarico; Cristina sentendo rivivere in confuso le soffocate aspirazioni, al pensiero di quella donna sconosciuta che il fratello adorava. Si guardarono e si sorrisero, attenuando la loro pena.

Ella fece alcuni passi rapidi verso gli aranci, esclamando:

—Dio, quanti fiori!

E si mise a coglierli, colle braccia levate, agitando i rami per recidere i rametti. Le zàgare le cadevano sul capo, su le spalle, sul seno. Il suolo d'intorno era tutto cosparso di zàgare, come d'una neve fragrante. Ed ella era piacente, in quell'atto, con quel suo volto ovale, con quel suo collo lungo e bianco. Lo sforzo l'accendeva. D'improvviso lasciò ricadere le braccia, divenne pallida pallida, vacillò come presa da una vertigine.

—Cristina, che hai? che ti senti?—gridò Giorgio, sorreggendola, sbigottito.

Con la gola chiusa dalla nausea violenta, ella non poteva rispondere. Accennò di volersi allontanare dagli alberi; e mosse qualche passo malcerto, sorretta dal fratello, mentre Luca la guardava con occhi esterrefatti. Si soffermò, trasse un respiro; poi disse, con una voce ancóra debole, ricolorendosi a poco a poco:

—Non ti spaventare, Giorgio... Non è nulla. Sono incinta... M'ha fatto male il troppo odore... Ecco, mi passa. Sto già bene.

—Vuoi che torniamo su?

—No; restiamo. Mettiamoci a sedere. Sedettero su un vecchio sedile di pietra, sotto la pergola. Vedendo l'aria incantata e grave del bimbo, Giorgio lo chiamò come per scuoterlo:

—Luchino!

Il bimbo chinò la testa pesante in grembo alla madre. Egli aveva la fragilità d'uno stelo; pareva che portasse a fatica la testa sul collo. La sua cute era così tenue che tutte le vene trasparivano, sottili come fili di seta azzurrina. I capelli erano così biondi che quasi eran bianchi. Gli occhi erano dolci e umidi come quelli di un agnello, cerulei fra le lunghe ciglia chiare.

La madre lo accarezzò, stringendo le labbra per trattenere il pianto. Ma due lacrime sgorgarono, le rigarono le gote.

—Oh, Cristina!

L'accento affettuoso di Giorgio le accrebbe la commozione. Altre lacrime sgorgarono, le rigarono le gote.

—Vedi, Giorgio: io non ho mai chiesto nulla, ho sempre accettato tutto, mi sono sempre rassegnata a tutto; non mi sono mai lagnata, non mi sono mai ribellata... Tu lo sai, Giorgio. Ma anche questo, ma anche questo! Ma non avere neanche un po' di consolazione nel mio figliuolo!...

La sua voce tremava, di pianto, accorata.

—Tu vedi, Giorgio, tu lo vedi com'è. Non parla, non ride, non gioca, non si rallegra mai, non fa quello che fanno tutti gli altri bimbi... Io non so che abbia. E mi pare che mi voglia tanto bene, che mi adori! Non si stacca mai da me, mai mai. Mi pare che penda sempre dal mio respiro. Oh se ti dicessi, Giorgio, certe giornate lunghe, lunghe, senza fine... Io lavoro, accanto alla finestra; alzo gli occhi e incontro gli occhi suoi che mi guardano, che mi guardano ... È uno strazio lento, un supplizio ch'io non ti so dire. Mi pare come di sentirmi spremere a poco a poco il cuore.

Ella s'interruppe, soffocata dall'ambascia. Si asciugò le lacrime.

—Se almeno,—soggiunse—se almeno quello che ho dentro mi nascesse, non dico bello, ma sano! Se m'aiutasse una volta il Signore!

Ella tacque, intenta, come per cogliere un presagio dal palpito della nuova vita ch'ella portava dentro. Giorgio le prese una mano. E rimasero così sul sedile, muti, per qualche tempo, fratello e sorella, oppressi dall'esistenza.

Dinanzi, l'orto giaceva solingo nell'abbandono. I cipressetti alti e diritti sorgevano immobili al cielo, con santità, come ceri votivi. I soffii rari bastavano appena a sfogliare ne' rosai prossimi qualche rosa disfatta. Ora sì, ora no, il suono del cembalo giungeva dalla casa.

IV

«Quando? Quando? L'atto che costoro m'impongono diviene dunque inevitabile? Io dovrò dunque affrontare il bruto?» Giorgio vedeva approssimarsi l'ora con uno sgomento quasi folle. Una ripugnanza invincibile gli si levava dalle radici dell'essere, al solo pensiero ch'egli avrebbe dovuto trovarsi solo, in una stanza chiusa, di fronte a quell'uomo.

Come i giorni passavano, egli sentiva crescere la sua ansietà e la sua umiliazione nell'inerzia colpevole; sentiva che la madre, che la sorella, che tutti i sofferenti aspettavano da lui, dal primogenito, l'atto energico, la protesta, la difesa.—Infatti, perché era stato chiamato? Perché era venuto?—Non pareva omai più possibile partire senza aver compiuto quel dovere. Egli avrebbe potuto, in estremo, partire senza prender commiato, fuggirsene, poi scrivere una lettera giustificando la sua condotta con un qualche pretesto plausibile... Nel più forte dello sgomento egli pensò anche a questo scampo ignominioso; s'indugiò ad esaminare il disegno, a svolgerlo nelle più minute particolarità imaginandone gli effetti. Ma in quelle stesse figurazioni imaginarie il volto dolente e disfatto di sua madre gli suscitava un rimorso intollerabile. Considerando il suo egoismo e la sua debolezza, egli si rivoltava contro sé medesimo; e ricercava dentro, con una furia puerile, qualche piccola parte di sé più attiva ch'egli potesse eccitare o sollevare contro la maggior parte efficacemente ed averne ragione come d'una turba vigliacca. Questi tumulti fittizii non duravano, né giovavano a spingerlo verso la risoluzione virile. Egli allora si metteva ad esaminare con pacatezza lo stato delle cose, facendosi illudere dal rigore stesso del suo ragionamento. Pensava: «In che potrò io essere utile? A quali mali potrà porre rimedio l'opera mia? Questo sforzo penoso, che mia madre e gli altri esigono da me, porterà veramente qualche vantaggio? E quale?» Non avendo trovato in sé l'energia necessaria all'atto esteriore, non essendo riuscito a promuovere in sé una sollevazione profittevole, egli seguiva il metodo opposto: tendeva a dimostrare l'inutilità dello sforzo: «Questo colloquio a che approderà? Senza dubbio, a nulla. Secondo l'umore di mio padre e secondo la progressione delle parole, o sarà violento o sarà persuasivo. Nel primo caso, io non avrò nulla da opporre agli urli e alle ingiurie. Nel secondo caso, mio padre riuscirà facilmente a dimostrarmi l'inesistenza o la necessità delle sue colpe; e io non avrò nulla da opporre, del pari. I fatti sono incommutabili. Il vizio, quando è radicato nell'intima sostanza dell'uomo, diventa indistruttibile. E mio padre è nell'età in cui né vizii si sradicano né le abitudini si aboliscono. Egli ha quella femmina da molti anni, con quei figliuoli. È possibile che le mie rimostranze lo inducano a rinunziarci? È possibile che io lo persuada a rompere ogni legame? Vidi ieri quella femmina. Basta vederla per indovinare come profondamente ella abbia conficcato l'artiglio nella carne di quell'uomo. Ella lo terrà fino alla morte. Omai non c'è rimedio. E poi ci sono quei figli, i diritti di quei figli. Dopo quanto è accaduto, insomma, mia madre e mio padre potrebbero riconciliarsi? Mai. Ogni mio tentativo sarebbe dunque inutile. E allora? Rimane la questione del danno materiale, dello sperpero, del dissesto. Come posso provvedere io che vivo lontano? Ci vorrebbe una vigilanza assidua. Soltanto Diego potrebbe esercitarla. Parlerò con Diego, prenderò accordi con lui... In fondo, ora, tutto si riduce alla dote di Camilla. Infatti, Alberto si agita molto per questo, ed è il più fastidioso dei miei sollecitatori. Forse non mi sarà difficile riuscire a qualche cosa.» Egli si proponeva di favorire la sorella contribuendo alla costituzione della dote; poiché, avendo ereditata tutta la fortuna di suo zio Demetrio, egli era ricco e già in possesso dei suoi beni. Il proposito di compiere questo atto di generosità lo inalzò nella sua conscienza. Egli si credette sciolto da ogni altro dovere, da ogni altro atto increscioso, per questo sacrificio del suo denaro.

Andando verso le stanze della madre si sentiva meno inquieto, più leggero, più franco. Sapeva inoltre che fin dalla mattina il padre era tornato alla casa di campagna dove soleva ritirarsi per avere maggior libertà nelle sue pratiche. E gli era di gran sollievo il pensare che la sera, a cena, un posto sarebbe rimasto vuoto.

—Ah, Giorgio, tu vieni a tempo!—gli gridò la madre, vedendolo entrare.

Quella voce irosa lo ferì d'improvviso così acutamente ch'egli si arrestò; e guardò la madre stupito, tanto gli parve trasfigurata dalla collera che la scoteva. Guardò Diego, senza comprendere; guardò Camilla che stava in piedi muta e ostile.

—Che è accaduto?—balbettò volgendo di nuovo gli occhi sul fratello, attratto dall'espressione malvagia che per la prima volta gli vedeva nel viso così manifesta.

—Manca la cassa dell'argenteria—disse Diego, senza sollevare gli occhi, accigliato, mangiandosi le parole—e pretendono, qui, che sia stato io a farla sparire...

Un flutto di parole amare ruppe dalla bocca irriconoscibile della disgraziata.

—Sì, tu, tu, d'accordo con tuo padre... Tu hai tenuto mano a tuo padre... Ah, che infamia! Anche questo! Anche questo! Avere contro di me anche chi ha bevuto il latte mio! Ma tu solo gli somigli, tu solo... Per gli altri il Signore mi fece la grazia: il Signore Dio benedetto, che sia sempre benedetto per questa grazia che mi fece! Tu solo gli somigli, tu solo...

Ella si volse a Giorgio che era rimasto come paralizzato, senza moto, senza voce. Il mento le tremava forte. Ed ella era così convulsa che pareva dovesse da un attimo all'altro stramazzare sul pavimento.

—Ora vedi come si vive qui? Lo vedi? Tutti i giorni è un'infamia nuova. Bisogna stare qui a lottare tutti i giorni, a difendere questa povera casa dal saccheggio, tutti i giorni, senza riposo. Credi tu che, se potesse, tuo padre non ci ridurrebbe su la paglia, non ci leverebbe anche il pane? E così sarà, così finiremo. Tu vedrai, tu vedrai...

Ella seguitava, affannosamente, come ricacciando in gola un singhiozzo ad ogni pausa, mettendo a tratti una voce rauca che esprimeva un odio quasi selvaggio, incredibile in quella creatura d'apparenze così delicate. E tutte le accuse, di nuovo, ruppero dalla sua bocca.—Quell'uomo non aveva più nessun ritegno, nessun pudore. Non indietreggiava più davanti a nulla e a nessuno, per far denaro. Aveva perduta la ragione; pareva in preda a una pazzia furiosa. Aveva rovinate le terre, tagliato gli alberi, venduto il bestiame, così, alla cieca, alla prima occasione, al primo offerente. Ora incominciava a spogliare la casa, dove i suoi figli erano nati. Da molto tempo aveva messi gli occhi su quell'argenteria: argenteria di famiglia, antica, ereditaria, custodita sempre come una reliquia della grandezza di Casa Aurispa, conservata fino a quel giorno intera. A nulla era valso l'averla nascosta. Diego s'era accordato col padre. Tutt'e due, eludendo ogni vigilanza, l'avevano trafugata per gittarla chi sa in quali mani!

—Non ti vergogni?—ella seguitava, rivolta a Diego che conteneva a stento lo scoppio della sua violenza.—Non ti vergogni di metterti con tuo padre contro di me? Contro di me che non t'ho mai negato quel che m'hai chiesto, che ho fatto sempre quello che hai voluto! Eppure tu lo sai, tu lo sai dove va quel denaro; e non ti vergogni! Non dici nulla? Non rispondi? C'è tuo fratello, qui. Dimmi dov'è andata la cassa. Lo voglio sapere. Intendi?

—Ho detto che io non lo so, che io non l'ho vista, che io non l'ho presa—gridò Diego, senza più contenersi, con uno scoppio brutale, scrollando il capo, acceso in viso da una fiamma cupa che più lo faceva rassomigliare all'assente.—-Hai capito?

La madre, divenuta pallida come una morta, guardò Giorgio e quasi parve con quello sguardo comunicargli quel pallore.

—Diego!—disse il primogenito tremando d'un tremito innascondibile—esci di qui.

—Escirò quando mi piacerà—rispose Diego, alzando le spalle con alterigia ma senza guardare negli occhi il fratello.

Allora una esasperazione subitanea prese Giorgio: una di quelle esasperazioni estreme che, negli uomini deboli e obliqui, per l'eccesso della veemenza non si traducono in nessun atto esteriore ma fanno balenare d'innanzi alla volontà oppressa imagini criminose. Il triste odio fraterno che fin dalle origini cova nella natura umana occulto per prorompere alla prima discordia più fiero di qualunque altro odio; quella ostilità inesplicabile che è latente nei maschi dello stesso sangue anche quando li lega l'affetto consueto nella pace delle loro case natali; e quell'orrore che accompagna l'atto o il pensier criminoso e che è forse il risentimento della legge inscritta dall'eredità secolare nella conscienza cristiana: tutto si levò confusamente come in una vertigine che per un attimo abolì in lui ogni altro sentimento e gli diede l'impulso alla percossa. L'aspetto stesso di Diego—quel corpo tarchiato e sanguigno, quella testa rossastra su quel collo taurino—, il riconoscere la superiorità della forza fisica chiusa in quei muscoli, l'autorità di primogenito offesa gli aumentavano il furore. Egli avrebbe voluto avere pronto un mezzo per dominare, per soggiogare, per abbattere quel bruto, senza contrasto, senza lotta. Istintivamente gli guardò le mani: quelle mani larghe, robuste, coperte d'una lanugine fulva, che già a tavola, occupate al servizio della bocca vorace, gli avevano prodotto un senso di ripulsione così vivo.

—Esci ora, sùbito—egli ripeté con una voce più squillante e imperiosa—o chiedi sùbito perdono a mia madre.

E mosse un passo contro il fratello con la mano tesa come per afferrargli un braccio.

—Io non mi lascio comandare da te—gridò Diego guardando finalmente in viso il primogenito; e gli occhi piccoli e grigi sotto la fronte bassa rivelavano un rancore da lungo tempo covato.

—Ah, Diego, bada!

—Non ho paura di te.

—Bada!

—Ma chi sei tu? Ma che vuoi tu qui?—gridò Diego senza più freno.—Tu non hai il diritto di metter bocca in queste cose. Tu sei un forestiero. Io non ti voglio riconoscere. Che hai fatto tu fino a oggi? Tu non hai mai fatto nulla per nessuno; tu non hai fatto che il tuo comodo e il tuo vantaggio, sempre: accarezzato, preferito, tenuto su l'altare. E ora che vuoi? Stattene a Roma è mangiati la tua eredità come ti piace e non t'immischiare in quel che non ti riguarda...

Esalava alfine tutto il suo rancore e la sua gelosia e la sua invidia contro il fortunato che viveva lontano, in una grande città, fra piaceri sconosciuti, estraneo alla famiglia come un essere d'un'altra razza, distinto da mille privilegi.

—Taci! Taci!

E la madre, fuori di sé, interponendosi lo colpì sul viso.

—Vattene! Non dire più una parola! Vattene di qui, vattene da tuo padre. Non ti voglio più sentire, non ti voglio più vedere...

Diego esitava, scosso dal fremito della sua collera, aspettando forse un atto del fratello per scagliarsi.

—Vattene!—ripetè la madre con l'estremo soffio della sua energia, sentendosi venir meno su le braccia di Camilla che la tratteneva.

Egli allora uscì, livido di rabbia, mormorando tra i denti una parola che Giorgio non comprese. E si udì il suo passo pesante allontanarsi per la fuga delle stanze tristi dove già la luce del giorno incominciava a morire.

V

Era una sera piovigginosa. Disteso sul suo letto, Giorgio si sentiva così affranto e così triste corporalmente che quasi non pensava più. Il suo pensiero era vago e interrotto; ma le minime sensazioni modificavano e agitavano la sua tristezza: le voci rare dei passanti nella strada, il ticchettìo dell'orologio su la parete, i rintocchi d'una campana lontana, lo scalpitare d'un cavallo, un fischio, lo strepito d'una porta sbattuta. Egli si sentiva solo, separato da tutto il mondo, separato dalla sua stessa vita anteriore per un abisso di tempo incalcolabile. Gli riapparve nell'imaginazione, vagamente, il gesto dell'amante che calava il velo nero su l'ultimo bacio; gli riapparve il fanciullo dalla stampella, che raccoglieva le lacrime della cera. Pensò: «Bisogna morire.» Senza una causa definita, la sua ambascia crebbe d'improvviso e divenne insostenibile. I sobbalzi del cuore gli chiudevano la gola, come negli incubi notturni. Egli si gettò giù dal letto; diede qualche passo per la stanza, smarrito, sconvolto, non potendo contenere quell'ansia. E il suo passo risonava nel suo cervello.

«Chi è? Qualcuno mi chiama?» Aveva nell'orecchio una voce. Tese l'orecchio per coglierla. Non udì più nulla. Aprì'uscio; si spinse nel corridoio; origliò. Tutto era silenzio. La stanza della zia era aperta, illuminata. Egli fu assalito da uno strano terrore, da una specie di pànico, pensando che avrebbe potuto vedere a un tratto comparir su la soglia la vecchia dalla maschera cadaverica, che aveva l'alito fetido di chi muore per tifo. E gli balenò il dubbio ch'ella fosse morta, ch'ella fosse là seduta su la sua sedia, immobile, col mento sul petto, morta. L'imagine aveva il rilievo della realtà e l'agghiacciava di spavento vero. Rimase fermo, senza osare di muoversi, mentre un cerchio gli fasciava il capo dilatandosi e restringendosi con il palpito dell'arterie come fosse d'una materia elastica e fredda. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l'eccesso delle loro sensazioni. Udì tossire la vecchia, trasalendo. Si ritrasse allora pian piano, su la punta dei piedi, per non farsi sentire.

«Ma che mi accade stasera? Non posso più rimaner solo, qui. Ora scendo.» Egli sentiva però che non avrebbe potuto sopportare ancóra l'aspetto doloroso di sua madre, un séguito della scena atroce. «Uscirò. Andrò da Cristina.» Lo persuadeva a quella visita il ricordo dell'ora dolce e triste passata nell'orto con la buona sorella.

Era una sera piovigginosa. Nelle vie già quasi deserte i fanali rari si affiochivano. Da un forno chiuso venivano le voci dei panettieri all'opera e l'odore dei pani; da una cantina, i suoni d'una chitarra accordata in diapente e il ritornello d'una canzone del paese. Una frotta di cani randagi passò in corsa perdendosi nei vicoli bui. L'ora scoccò dal campanile.

Camminando, all'aria aperta, Giorgio perdeva a poco a poco la sua eccitazione, pareva come vuotarsi di quella vita fantastica che gli ingombrava la conscienza. Egli era attento alle cose che vedeva, che udiva. Si soffermò ad ascoltare i suoni della chitarra, ad aspirare l'odore del pane. In una persona che passò nell'ombra dalla parte opposta della via credette di riconoscere Diego. Si turbò; ma sentì che ogni rancore era caduto, che nulla di violento era rimasto in fondo alla sua tristezza. Gli ritornarono nella memoria certe parole del fratello. Pensava: «Non ha forse detto il vero? Io non ho mai fatto nulla per nessuno; ho sempre vissuto per me solo. Sono uno straniero, qui. Forse tutti, qui, mi giudicano nello stesso modo. Mia madre diceva:—Ora vedi come si vive qui? Lo vedi?—Io potrei vedere scorrere tutte le sue lacrime, e non avere la forza di salvarla...»

Giungeva alla porta del palazzo Celaia. Entrò, attraversò l'androne; passando nel cortile, alzò gli occhi. Non appariva lume a nessuna delle alte finestre; nell'aria era un odore come di paglia fradicia; una cannella d'acqua chioccolava in un angolo oscuro; una piccola lanterna ardeva sotto il portico d'innanzi a una imagine della Vergine coperta d'una grata, e a traverso la grata si scorgeva a piè della Vergine un mazzo di rose finte; i gradini della larga scala erano consunti nel mezzo dall'uso come quelli degli altari vetusti, e in ognuno di quei cavi la pietra liscia riluceva giallognola. Tutte le cose esprimevano la malinconia della vecchia casa ereditaria dove Don Bartolomeo Celaia, rimasto solo e sul limitare della vecchiezza, aveva condotto quella compagna e procreato quell'erede.

Nel salire, Giorgio vedeva con gli occhi dell'anima quella giovine donna pensierosa e quel bimbo esangue lontanissimi, in una lontananza chimerica, in fondo a una stanza remota dove non si poteva giungere. Ebbe per un momento il pensiero di tornare indietro; e si fermò perplesso, a mezzo della scala bianca alta e deserta, in una inquietudine indefinibile, avendo di nuovo smarrito il senso della realtà presente, sentendosi di nuovo turbato da un terrore vago come dianzi nel corridoio alla vista della porta aperta e vacua. Ma d'un tratto udì uno strepito e una voce come di chi scacciasse qualcuno; e un cane grigio, sfiancato, miserabile, un bastardo della strada, che era forse salito furtivamente spinto dalla fame, si precipitò giù per la scala passandogli rasente. Un domestico apparve sul pianerottolo in atto d'inseguire il fuggiasco strepitando.

—Che c'è?—chiese Giorgio in cui l'agitazione della sorpresa era visibile.

—Nulla, nulla, signore. Scacciavo un cane: un cane di piazza, che tutte le sere s'intromette nella casa, non si sa di dove, come uno spirito.

Il fatto insignificante e le parole del domestico gli aumentarono quella inesplicabile inquietudine che somigliava all'ansia confusa d'un presentimento superstizioso. Egli chiese, e la domanda fu suggerita da quell'ansia:

—Sta bene Luchino?

—Bene, signore: grazie al cielo.

—Dorme?

—No, signore: è ancóra sveglio.

Preceduto dal servo attraversava stanze ampie, che quasi parevano vuote, dove le suppellettili di forma antiquata erano disposte simmetricamente. Mancava ogni indizio degli abitanti, come se quelle stanze fossero rimaste chiuse fino allora. Ed egli pensò che Cristina non amava quella casa, già che non vi aveva diffusa la grazia della sua anima. In gran parte era rimasta intatta, nell'ordine in cui la sposa l'aveva trovata entrandovi il giorno delle nozze, nell'ordine in cui l'aveva lasciata l'ultima delle donne di Casa Celaia scomparse.

La visita inattesa rallegrò la sorella che era sola, in procinto di mettere a letto il suo bambino.

—Oh, Giorgio, come hai fatto bene a venire!—esclamò ella con una effusione di gioia sincera, abbracciandolo, baciandolo su la fronte, dilatando subitamente con la sua tenerezza quel cuore serrato.—Vedi, Luchino, lo zio Giorgio? Non gli dici nulla? Su, dagli un bacio!

Un sorriso tenue apparve su la bocca pallida del bimbo; e, come egli chinò la testa, le lunghe ciglia chiare s'illuminarono di sopra e gli misero la loro ombra palpitante su le gote smorte. Allora Giorgio lo sollevò tra le sue braccia, provando una pena profonda nel sentire sotto le dita la gracilità di quel petto infantile dove il cuore aveva un battito così debole. Egli n'ebbe un senso quasi di temenza come se per quel premere lieve quella vita esigua si dovesse spegnere: un senso di temenza e di pietà, un poco simile a quello già provato una volta nel tener prigioniero dentro la mano un uccelletto sbigottito.

—È come una piuma—disse; e la sua commozione tremò nelle sue parole, fu indovinata dalla sorella.

Lo fece sedere su le sue ginocchia, gli accarezzò il capo; gli domandò:

—Quanto bene mi vuoi?

Il cuore gli si riempiva d'una tenerezza insolita. Lo premeva un bisogno desolato di veder sorridere quel povero bimbo sofferente, di vedergli apparire su le gote almeno una volta un rossore fuggevole, il più lieve fiore del sangue sotto la pelle diafana.

—Che hai qui?—gli domandò, vedendogli un dito fasciato.

—Si tagliò, l'altro giorno—disse Cristina che seguiva con gli occhi intenti ogni gesto del fratello.—Un piccolo taglio; e non gli si vuol chiudere ancóra.

—Mi lasci vedere, Luchino?—fece Giorgio mosso da una curiosità penosa e pure sorridendo per richiamare un sorriso.—Con un soffio io ti guarirò.

Il bimbo, attonito, si lasciò sfasciare il dito malato. Giorgio metteva nell'atto un'infinita delicatezza, sotto lo sguardo inquieto della sorella. L'estremità della fascia s'era attaccata su la piaghetta; ed egli non ebbe cuore di staccarla, ma vide che una goccia bianchiccia, come di siero, si formava su l'orlo scoperto. Gli tremavano le labbra. Alzò gli occhi; s'accorse che la sorella pendeva dai suoi gesti, con il viso alterato da una contrazione dolorosa; sentì che l'anima di lei in quel momento s'era tutta raccolta nella palma di quella piccola mano.

—Non è nulla—disse.

Tentò di sorridere, mettendo un soffio per illudere il bimbo che aspettava il miracolo. Poi fasciò di nuovo il dito, pianamente. Ripensava a quella strana ansietà che l'aveva invaso su per la scala deserta, al cane scacciato, alle parole del servo, alle domande che gli aveva suggerite un timore superstizioso, a tutta quell'agitazione senza causa.

Vedendolo assorto, Cristina gli chiese:

—A che pensi?

—A nulla.

Poi, sùbito, senza riflettere, credendo di dire una cosa che potesse risvegliare l'attenzione del bimbo già sonnolento:

—Sai? Ho incontrato un cane per la scala...

Il bimbo spalancò gli occhi.

—Un cane che viene tutte le sere...

—Ah, già, me l'ha detto Giovanni—fece Cristina.

Ma si interruppe vedendo gli occhi aperti e sbigottiti del bimbo che stava per rompere in un pianto.

—No, no, non è vero—soggiunse, togliendolo di su le ginocchia di Giorgio e stringendoselo fra le braccia—non è vero, Luchino. Lo zio scherza.

—Non è vero, non è vero—ripeté Giorgio alzandosi, sconvolto da quel pianto che non somigliava a nessun altro pianto infantile perché pareva che la povera creatura vi si disfacesse.

—Andiamo, andiamo—diceva la madre, con la voce lusinghevole.—Ora Luchino va a letto.

Passò nella stanza attigua, così cullando tra le carezze il figliuolo lacrimoso.

—Vieni anche tu, Giorgio.

Egli la guardava mentre ella svestiva il bimbo. A poco a poco ella lo svestiva, con cautele infinite, come temendo d'infrangerlo; ed ogni gesto di lei rivelava dolentemente la miseria di quelle membra esili ove già incominciavano ad apparire le deformazioni della rachitide incurabile. Il collo era sottile e floscio come uno stelo appassito; lo sterno, le costole, le scapule sembravano trasparire a traverso la pelle rilevati anche più dall'ombra che empiva gli spazii cavi; le ginocchia ingrossate avevano la forma di due nodi; il ventre un po' gonfio dava risalto alla magrezza acuta delle anche, segnato da un ombelico sporgente. Come il bimbo sollevava le braccia perché la madre gli mutasse la camicia, Giorgio provò una pietà dolorosa fino allo spasimo scorgendo quelle piccole ascelle gracili che parevano rivelare pur in quel semplice atto la pena d'uno sforzo contro il languore letale ove la tenue vita stava per estinguersi.

—Bacialo—gli disse la sorella sollevando il bimbo verso di lui, prima di metterlo sotto le coperte.

Poi prese le mani del bimbo: gli mosse quella dal dito fasciato, nel segno della croce, dalla fronte al petto, dall'una all'altra spalla; gliele congiunse nell'Amen.

Una gravità funebre era in ogni cosa. Quel bimbo pareva già un morticino, nella sua lunga camicia bianca.

—Dormi ora, amor mio; dormi. Noi siamo qui.

Fratello e sorella, ancóra una volta confusi nella medesima tristezza, sedettero al capezzale, da una parte e dall'altra. E non parlarono. Si sentiva l'odore delle medicine accumulate su un tavolo accanto al letto. Una mosca si staccò dalla parete, volò verso la fiammella della candela con un ronzìo forte, si posò su la coperta. Un mobile scricchiolò, nel silenzio.

—S'addormenta—disse Giorgio a voce bassa.

Entrambi erano assorti nella contemplazione di quel sonno che ad entrambi dava imagine della morte: occupati da una specie di stupore affannoso, incapaci di distrarre il loro pensiero da quel punto.

Passò un tempo indefinito.

D'improvviso il bimbo gittò un grido di spavento, spalancò gli occhi sollevandosi dal guanciale, come atterrito da una visione truce.

—Mamma! Mamma!

—Che hai? Che hai, amor mio?

—Mamma!

—Che hai, amor mio? Sono qui.

—Scaccialo! Scaccialo!

VI

A cena (dove Diego non era comparso) Camilla non aveva ripetuto velatamente l'accusa quando con un sospiro aveva detto:—Occhio non vede, cuore non dole—? E nelle parole della madre (come presto aveva ella dimenticata la fine lacrimosa del colloquio alla finestra!), anche nelle parole della madre quell'accusa non era riapparsa più d'una volta?

Pensava Giorgio, non senza amarezza: «Tutti, qui, mi giudicano nello stesso modo. Nessuno, insomma, mi perdona questa mia rinunzia volontaria alla primogenitura, e l'eredità di mio zio Demetrio. Avrei dovuto rimanere nella casa a vigilare la condotta di mio padre e di mio fratello, a tutelare la felicità domestica! Nulla, secondo loro, sarebbe accaduto se io fossi rimasto qui! La colpa, dunque, è mia. Ed ecco l'espiazione.» Egli sentiva su di sé pesare una specie di sopruso, si sentiva come indignato da una violenza iniqua, avanzandosi per la strada che conduceva al luogo dove s'era ritirato il nemico, incontro al quale finalmente egli era stato spinto con mezzi estremi, quasi a colpi di frusta, senza misericordia. Gli pareva d'essere la vittima d'una gente feroce ed implacabile che non volesse risparmiargli nessuna tortura. E il ricordo di certe frasi della madre (proferite quel giorno dei funerali, nel vano della finestra, tra le lacrime) aumentava la sua amarezza, inaspriva la sua ironia.—No, no, Giorgio; tu non ti devi affliggere, tu non devi soffrire... Io dovevo tacere, non dovevo dirti nulla... Non piangere più. Io non posso vederti piangere!—Eppure da quel giorno non gli era stata risparmiata nessuna tortura. Quel piccolo episodio non aveva portato mutazione alcuna nel contegno della madre verso di lui. Nei giorni seguenti ella gli era sempre apparsa nell'ira e nella violenza; ella lo aveva condannato ad ascoltare di continuo accuse vecchie e nuove aggravate da mille particolarità ributtanti, lo aveva condannato quasi a numerarle nel volto a una a una le tracce della sofferenza patita; quasi gli aveva detto:—Guarda come il pianto mi ha bruciato gli occhi, come queste rughe sono profonde, come qui su le tempie i capelli sono canuti. E non posso mostrarti il cuore!—A che era valso dunque il grande affanno di quel giorno? Ella aveva bisogno di vedere scorrere le lacrime vive per commuoversi di pietà? Non sentiva tutta la crudeltà del supplizio ch'ella infliggeva al figliuolo inutilmente? «Ah come sono rare su la terra le creature che sanno soffrire in silenzio e accettare il sacrifizio sorridendo!» Ed egli così giungeva sino a disconoscerla, sino a dolersi di quella imperfezione nel soffrire: sconvolto ancóra ed esasperato dagli eccessi recenti di cui egli aveva dovuto essere testimonio e partecipe; tenuto già dall'orrore dell'atto definitivo ch'egli si accingeva a compiere.

Ma, come avanzava nella via (aveva rifiutata la vettura e s'era incamminato a piedi per esser libero di prolungare a suo arbitrio la durata del tragitto e forse anche per avere in estremo la possibilità di tornare indietro o di perdersi nella campagna), come avanzava nella via, sentiva crescere quell'orrore indomabile; che alfine sopraffece ogni altro sentimento e coperse ogni altro pensiero. L'imagine del padre, sola, gli occupò la conscienza prendendo il rilievo della figura reale; ed egli incominciò a fingere la scena che doveva accadere, studiò il proprio contegno, preparò le prime frasi, divagò in supposizioni inverosimili, rintracciò memorie lontanissime dell'infanzia, della puerizia, cercò di evocare le diverse attitudini della sua anima verso il padre nei diversi periodi della vita trascorsa. Non riusciva a determinare con precisione la linea ondeggiante del suo affetto filiale, poiché egli non aveva nessun punto stabile e certo su cui fondarsi. Egli non s'era mai indugiato ad esaminare con sincerità quella parte della sua conscienza, ma aveva preferito di lasciarla nell'ombra. Egli non aveva mai voluto approfondire quell'istinto di avversione che sempre, anche nei tempi più remoti e più felici, aveva formato il fondo di ogni sentimento in lui suscitato dai rapporti diretti con la persona del padre.

«Forse non l'ho mai amato» pensò. E in nessuno dei suoi ricordi più chiari trovò un atto spontaneo di confidenza, una espansione di calda tenerezza, una commozione intima e soave. E anche nei ricordi confusi dell'infanzia lontana trovò soverchiante ogni altro affetto un timore quasi continuo, il timore del castigo corporale, della parola aspra seguìta dalla percossa. «Non l'ho mai amato.» Demetrio era stato il suo vero padre; era il suo vero unico parente.

E rivide l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava una espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

Come sempre, l'imagine del morto gli diede una subitanea sollevazione e lo alienò d'un tratto dalle cose che fino a quel punto lo avevano occupato. Le inquietudini si placarono; l'amarezza si posò al fondo; la ripugnanza cedette a un senso nuovo di sicurtà tranquilla.—Che aveva egli da temere? Perché aveva egli così puerilmente accresciuta nella sua imaginazione la sofferenza che lo aspettava e che era omai necessaria?—E ancóra una volta egli ebbe profondo un senso di completo distacco dalla sua vita presente, dallo stato presente del suo essere, dalle contingenze che più lo turbavano. Ancóra una volta, sotto l'influsso che dal sepolcro esercitava su lui il consanguineo, egli si sentì avvolgere come da un'atmosfera isolante e smarrì la nozione precisa di ciò che era avvenuto e di ciò che doveva avvenire; e gli avvenimenti reali parvero perdere per lui ogni significato, non avere altro valore se non di tempo, quasi che egli rassegnato dovesse fatalmente passarvi a traverso per giungere a una liberazione prossima di cui fosse egli già consapevole e sicuro nel suo animo.

Interrotto così il travaglio interno, ottenuta senza sforzo quella pausa singolare di cui egli non si stupiva, parve che allora soltanto le sue pupille ricevessero lo spettacolo dei luoghi solitarii e grandiosi. Ma la sua attenzione fu calma ed eguale. Egli credeva riconoscere nell'aspetto della campagna il suo sentimento esternato e quasi le tracce visibili dei suoi pensieri.

L'ora era pomeridiana. Un cielo puro e liquido bagnava del suo colore tutte le apparenze terrestri e sembrava diminuirne la materialità penetrandole con infinita lentezza. Le varie forme vegetali, distinte da presso, perdevano a mano a mano nella digradazione i loro contorni come se vaporassero per il sommo, tendendo a comunicare in una sola immensa forma confusa e respirante d'un solo ritmico respiro. Così, a mano a mano, sotto il diluvio ceruleo, le minori alture si agguagliavano e la valle profonda assumeva l'aspetto di un golfo pacifico a specchio del cielo. Sola da quella eguaglianza si levava la montagna opponendo allo spazio liquido la solidità incrollabile del suo lineamento che il candore delle nevi illustrava d'una irradiazione sublime.

VII

La villa alfine apparve prossima tra gli alberi, con le due ampie terrazze laterali circondate di ringhiere che si appoggiavano a piccoli pilastri di pietra ornati da vasi di terracotta in forma di busti raffiguranti re e regine a cui gli aloè con le loro punte aguzze formavano sul capo vive corone.

La vista di quelle rozze figure rossastre, delle quali talune campeggiavano intiere nell'azzurro luminoso, risvegliò in Giorgio subitamente nuove memorie dell'infanzia lontana: memorie confuse di ricreazioni campestri, di giuochi, di corse, di favole imaginate intorno a quei re immobili e sordi nel cui cuore d'argilla si profondavano le radici di quelle piante tenaci. Egli si ricordò perfino d'aver prediletto per lungo tempo una regina a cui una pianta grassa e pendula componeva una folta capellatura prolissa che in primavera si constellava tutta d'innumerevoli fioretti d'oro. E la cercò con gli occhi curioso, riavendo già nella mente le imagini della vita oscura e intensa di cui la sua fantasia puerile l'aveva animata. La riconobbe sul pilastro di un angolo. Sorrise come se avesse riconosciuto un'amica; e tutta la sua anima per alcuni istanti restò protesa verso il passato irrevocabile, ma non senza qualche dolcezza. Il proposito finale, che gli s'era formato dentro pacatamente nella pausa improvvisa in mezzo alla campagna glauca e taciturna, pareva che ora gli facesse ritrovare nelle sensazioni un sapore dissueto e lo inducesse a risalire fin nei meandri più remoti il corso della sua esistenza prossimo al termine statuito. Quella curiosità per le manifestazioni anche più tenui che il suo essere aveva disperse nel tempo e quella simpatia commossa per le cose con cui egli aveva anteriormente comunicato tendevano a mutarsi in una tenerezza molle e lacrimosa, quasi feminile. Ma egli si scosse udendo alcune voci presso il cancello; riacquistò il senso della realtà presente, e provò di nuovo l'ansia primitiva guardando una finestra aperta dove tra le tende bianche pendeva una gabbia con un canarino. I dintorni erano tranquilli; e si udiva distinto il gorgheggio del prigioniero.

Egli pensò, con orgasmo: «La mia visita è inaspettata. Se quella femmina fosse ora là con lui?» Vide presso il cancello due bambini che giocavano con la ghiaia. Senza avere il tempo di esaminarli, indovinò che quelli erano i suoi fratelli illegittimi, i figli della concubina. Come egli s'avanzava, i due bambini si volsero e rimasero a guardarlo attoniti ma senza peritarsi. Erano sani, robusti, floridi, con le guance invermigliate dalla salute, con l'impronta manifesta della loro origine. Sconvolto, assalito da uno sgomento irresistibile, egli pensò di nascondersi, di tornare indietro, di fuggire; e alzò gli occhi alla finestra temendo di vedere affacciarsi fra le cortine il padre o quella femmina odiosa di cui egli aveva udito raccontar tante volte le perfidie e le cupidigie e tutte le vergogne.

—Oh, signorino, come qua?

Era la voce di un familiare che gli veniva incontro. Nel tempo medesimo, dalla finestra il padre diceva:

—Giorgio, sei tu? Che sorpresa!

Egli si ricompose, fece il viso ridente, cercò di prendere un'aria disinvolta. Sentì che già tra lui e il padre s'era stabilita quell'artificiale relazione di forme quasi cerimoniose con cui da alcuni anni entrambi dissimulavano il loro impaccio quando si trovavano in contatto immediato e inevitabile. E anche sentì che la sua volontà era di nuovo abolita totalmente e ch'egli non sarebbe stato capace di esporre con schiettezza il vero motivo di quella visita inattesa.

Gli diceva il padre dalla finestra:

—E non sali?

—Sì, sì, salgo.

Egli avrebbe voluto mostrare di non aver fatto attenzione ai due bambini. Si mise su per la scalinata scoperta che conduceva a una delle grandi terrazze. Il padre gli venne incontro. Si baciarono. Era palese nel padre una ostentazione di maniere affettuose.

—Come mai ti sei risoluto a venire?

—Ho voluto fare una passeggiata a piedi e sono arrivato sin qui. Da molto tempo non rivedevo questi luoghi. Non trovo nulla mutato...

Egli guardava intorno per la terrazza spalmata di asfalto, considerava i busti a uno a uno, esagerando la sua curiosità.

—Tu ora stai quasi sempre qui; è vero?—chiese, per dire qualche cosa, per sfuggire alla pena degli intervalli di silenzio che prevedeva lunghi e frequenti.

—Sì, ora spesso vengo a starmene qui—rispose il padre, con nella voce una certa tristezza che sorprese il figliuolo.—L'aria pare che mi giovi... dopo che m'è apparsa questa malattia di cuore...

—Sei malato di cuore!—esclamò Giorgio, volgendosi a lui, con un moto sincero, colpito dalla notizia improvvisa.—E come? da quando? Io non ho mai saputo nulla... Nessuno m'ha detto mai nulla...

E ora guardava bene il padre nel volto credendo di scoprire i segni dell'infermità mortale, a quella gran luce cruda riverberata dal muro su cui batteva il sole obliquo. E ancóra n'aveva una misericordia dolorosa vedendogli quelle rughe profonde, quegli occhi gonfii e intorbidati, quei peli bianchi che gli spuntavano su le guance e sul mento non rasi di fresco, e quei baffi e quei capelli a cui la tintura dava un colore tra verdastro e violaceo, quelle labbra grosse ove il respiro pareva un affanno, quel collo corto che pareva colorito da un sangue stravasato.

—Da quando?—ripeté, senza nascondere il suo turbamento, sentendo diminuire la sua ripugnanza verso quell'uomo che di nuovo egli vedeva sotto la minaccia della morte, agonizzante, contraffatto, in una successione d'imagini rapide evidentissime.

—Chi può dire da quando?—rispose il padre che davanti a quel turbamento sincero aggravava la sua sofferenza come per alimentare e per accrescere quella commiserazione che forse poteva giovargli.—Chi può dire da quando? Questi sono mali che rimangono nascosti per lungo tempo, fin che un bel giorno si rivelano all'improvviso. E non c'è più rimedio! Bisogna rassegnarsi, e aspettare di minuto in minuto il colpo...

Così parlando, con una voce alterata, egli pareva spogliarsi della sua durezza e della sua pesantezza brutale, divenire più vecchio, debole, affranto, come per un disfacimento subitaneo di tutta la persona, ma pur con qualche cosa di arteficiato, di eccessivo, di quasi istrionico, che non sfuggì alla perspicacia di Giorgio. Il quale spontaneamente ripensò quegli attori che sul palco scenico hanno la facoltà di trasmutarsi a un tratto come togliendosi e mettendosi una maschera. E anche ebbe una intuizione rapida di ciò che stava per seguire.—Certamente il padre, avendo indovinato il motivo di quella visita inattesa, cercava ora un qualche effetto utile con l'ostentazione della sua sofferenza; e certamente aveva uno scopo ben definito da raggiungere. Quale scopo?—Giorgio non si sdegnò, dentro di sé, non s'irritò, né si preparò a difendersi dal raggiro ch'egli prevedeva con tanta certezza; anzi la sua inerzia crebbe insieme con la sua lucidità. Il disgusto consueto si mescolò alla sua commozione. Ed egli aspettò che la scena si svolgesse per piegarsi a qualunque vicenda, triste e rassegnato.

—Vuoi entrare?—disse il padre.

—Come vuoi.

—Entriamo. Ti debbo mostrare certe carte...

Il padre andava innanzi dirigendosi verso una stanza: verso quella dalla finestra aperta, d'onde si spandevano per tutta la casa i gorgheggi del canarino. Giorgio lo seguiva senza guardarsi intorno. S'accorse che il padre alterava anche il passo per affettare la stanchezza; e provò una pena acuta al pensiero delle degradanti finzioni di cui fra poco sarebbe stato spettatore e vittima. Egli sentiva nella casa la presenza della concubina; era certo ch'ella stava nascosta in qualche stanza e che origliava e spiava. Pensò: «Quali carte mi mostrerà? Che vorrà da me, ora? Vorrà denaro. Coglie l'occasione improvvisa...» E gli sonarono nell'orecchio alcune invettive della madre, gli tornarono alla memoria alcune particolarità quasi incredibili narrate da lei. «E io che farò? Che risponderò?»

Il canarino cantava nella sua gabbia variando i suoi modi con una voce liquida e forte; mentre le cortine bianche si gonfiavano come due vele lasciando intravedere la lontananza cerulea. Il vento agitava qualcuna delle carte che ingombravano un tavolo; dove Giorgio scorse in un disco di cristallo, che premeva un mucchio di fogli, una vignetta oscena.

—Ah che cattiva giornata, oggi!—mormorò il padre mostrando d'essere tormentato dal cardiopalmo, lasciandosi cadere su una seggiola pesantemente, socchiudendo le palpebre, respirando con affanno.

—Soffri?—disse Giorgio, quasi timido, non sapendo se quella sofferenza fosse vera o simulata, non sapendo come contenersi.

—Sì... ma ora passerà... Appena ho qualche agitazione, qualche inquietudine, mi sento peggio. Avrei bisogno d'un po' di calma, d'un po' di riposo. Invece...

Egli parlava di nuovo con quel suono di lagno interrotto, accorante; che per la vaga somiglianza di qualche accento destò in Giorgio il ricordo della zia Gioconda, della povera ebete nell'atto d'impietosirlo per avere le confetture. Omai la finzione era così palese e così grossolana e così ignobile, e pur nondimeno era così umanamente miserevole lo stato di quell'uomo che si riduceva a quella bassezza per servire il suo vizio implacabile, e nelle espressioni di quel volto v'era pur tanta parte di sofferenza reale, che a Giorgio parve di non poter eguagliare nessun'altra angoscia della sua vita all'orribile angoscia di quell'ora.

—Invece?...—egli domandò, come per incuorare il padre a proseguire, come per affrettare il termine delle sue torture.

—Invece, da qualche tempo, tutto mi va a rovescio, tutto; le disgrazie piombano una dopo l'altra; ho avuto perdite gravissime: tre cattive annate, di séguito: la malattia delle viti, il bestiame decimato; le rendite sono diminuite di più della metà; le imposte sono cresciute, enormemente... Vedi, vedi: queste sono le carte che ti volevo mostrare...

E prese di sul tavolo un fascio di carte, lo svolse sotto gli occhi del figlio, incominciò ad esporre in confuso una quantità di casi complicatissimi riguardanti un'accumulazione d'imposte fondiarie non pagate da parecchi mesi.—Bisognava mettersi in regola sùbito per evitare danni incalcolabili. Era già avvenuto un sequestro e il bando di vendita era imminente. Come fare, nelle angustie temporanee in cui egli si trovava senza sua colpa? Si trattava d'una somma abbastanza forte. Come fare?

Giorgio taceva, tenendo gli occhi fissi su le carte che il padre sfogliava con quella sua mano gonfia, quasi mostruosa, dai pori visibilissimi, singolarmente pallida a contrasto della faccia sanguigna. A intervalli non intendeva le parole ma aveva nell'orecchio la monotonia della voce su cui si distinguevano i gorgheggi acuti del canarino e talvolta i gridi che giungevano dal viale dove forse i due piccoli bastardi seguitavano a giocare nella ghiaia. Le cortine della finestra anche, a tratti, sbattevano investite da un soffio più vivo. E tutte le voci e tutti i romori avevano un senso di tristezza inesplicabile per lui silenzioso che fissava con una specie di stupefazione quelle dense scritture degli uscieri, su cui passava quella mano gonfia e pallida dove apparivano le minute cicatrici dei salassi. Un'imagine gli sorse dalla memoria, stranamente precisa, in un ricordo della fanciullezza:—il padre seduto accanto a una finestra, serio in viso, con la camicia rimboccata su un braccio ch'egli teneva immerso in un catino pieno d'acqua; e l'acqua che s'arrossava pel sangue fluente dalla vena aperta; e accanto, in piedi, il flebotomo che sorvegliava il flusso tenendo pronto l'occorrente per la legatura.—Un'imagine si associava all'altra; ed egli rivedeva le lancette luccicanti nell'astuccio di pelle verde, rivedeva la donna che portava via dalla stanza il catino pieno di sangue, rivedeva la mano legata da un nastro nero che s'incrociava sul dorso pieno e molle affondandovisi un poco...

—Mi stai a sentire?—gli domandò il padre vedendolo così trasognato.

—Sì, sì; t'ascolto.

Ma il padre si aspettava forse, in quel punto, un'offerta spontanea. Deluso, dopo una pausa, vincendo l'imbarazzo, disse:

—Bartolomeo mi salverebbe, dandomi la somma...

Esitò, con nel volto un'espressione indefinibile in cui il figlio scorse come un ultimo guizzo del pudore sopraffatto dal bisogno quasi disperato di giungere allo scopo.

—Mi darebbe la somma, con una cambiale; ma... credo che pretenda la tua firma.

Alla fine, il laccio era teso.

—Ah, la mia firma...—balbettò Giorgio, non turbato dalla richiesta ma dal nome odioso del cognato che già la madre nelle sue accuse gli aveva fatto apparire come un corvo di malaugurio, avido d'ingoiare gli avanzi di Casa Aurispa.

E, com'egli restava perplesso e oscurato senza soggiungere altro, il padre si mise a supplicarlo, vinto ogni ritegno, temendo il rifiuto.—Aveva soltanto quel mezzo: unico mezzo di sfuggire a una vendita giudiziaria disastrosa, che senza dubbio avrebbe determinato tutti gli altri creditori a piombargli addosso. Il crollo sarebbe stato inevitabile. Voleva dunque il figlio assistere a quella rovina? O non vedeva che, adoperandosi in quella circostanza, faceva anche il suo proprio vantaggio, difendeva un'eredità che presto doveva passare a lui e al fratello? Oh presto, assai presto, da un giorno all'altro, forse domani!—E ancóra una volta egli parlò del morbo immedicabile che portava dentro, del pericolo continuo da cui era minacciato, di quelle agitazioni e di quei dolori che gli affrettavano la morte.

Esausto, non potendo più tollerare quella voce e quella vista, ma pure trattenuto dal pensiero di quegli altri carnefici che lo avevano cacciato là facendogli violenza e ora lo aspettavano per chiedergli conto della sua azione, Giorgio balbettò:

—Ma veramente questo denaro ti serve per quel che dici?

—Ah, anche tu! Anche tu!—proruppe il padre, mal frenando sotto un'apparenza di dolore esasperato uno de' suoi impeti di collera.—Hanno ripetuto anche a te quel che vanno ripetendo a tutti, sempre, dovunque: che sono un mostro, che ho commesso tutti i delitti, che sono capace di tutte le infamie! E tu ci hai creduto!... Ma perché, ma perché mi odiano così laggiù, in quella casa? Perché mi vogliono veder morto? Ah tu non sai come mi odia tua madre... Se tu ora tornassi da lei e le raccontassi che m'hai lasciato qua agonizzante, ti abbraccerebbe e direbbe:—Dio sia benedetto!—Ah tu non sai...

Riappariva, mal suo grado, nella crudezza della voce, nell'apertura della bocca che inaspriva le parole, nel respiro veemente che gli dilatava le narici, nel rossore bieco degli occhi, l'uomo vero; contro di cui il figlio ebbe un moto dell'avversione primitiva, subitaneo, così forte che senza riflettere, per il bisogno di acquetarlo e di liberarsene, l'interruppe dicendo convulsamente:

—No, no, non so... Dimmi che debbo fare, dove debbo firmare.

E si levò, spinto dall'orgasmo; andò verso la finestra; tornò verso il padre. Lo vide che cercava qualche cosa in un cassetto, con una specie di impazienza ansante; lo vide che metteva sul tavolo una cambiale vergine.

—Ecco, qui: basta che tu metta la tua firma qui...

E l'indice enorme, dall'unghia piatta intorno a cui la carne faceva rilievo, segnò il punto.

Senza sedersi, senza avere la chiara conscienza di quel che faceva, Giorgio prese la penna e firmò rapidamente. Avrebbe voluto già esser libero, uscire da quella stanza, correre all'aria aperta, allontanarsi, trovarsi solo. Ma quando guardò il padre che prendeva la cambiale, esaminava la firma, la spargeva d'un pizzico d'arena per asciugarla, poi la riponeva nel cassetto e chiudeva; quando scorse in ciascuno di quegli atti l'ignobile gioia mal dissimulata dell'uomo che è riuscito in un tiro; quando nel suo animo ebbe la certezza d'essersi lasciato prendere a una frode vergognosa e pensò alle inquisizioni di quell'altra gente che lo aspettava in quell'altra casa, allora il pentimento inutile lo agitò così forte ch'egli fu sul punto di dare sfogo alla sua indignazione estrema, d'insorgere finalmente contro il malfattore con tutte le sue forze per difendere sé stesso, la sua casa, i diritti della madre e della sorella calpestati. Ah, era vero, dunque, era vero tutto quel che la madre gli aveva detto! Tutto era vero. Quell'uomo non aveva più nessun ritegno, nessun pudore. Non indietreggiava più davanti a nulla e a nessuno, per far denaro...—E di nuovo sentì nella casa la presenza della concubina, della femmina avida e insaziabile che certo era nascosta in qualche stanza e origliava e spiava e aspettava la sua parte della preda.

Disse, senza poter frenare il tremito che lo scoteva:

—Mi prometti... mi prometti che quel denaro non ti servirà... per altro?

—Ma sì, ma sì—-rispose il padre mostrandosi ora quasi insofferente di quella insistenza, con una mutazione manifesta in tutto il suo contegno, ora che non doveva più supplicare e fingere per ottenere.

—Bada che io lo saprò—soggiunse Giorgio, divenuto pallidissimo, con la voce un po' soffocata, trattenendo a fatica lo scoppio del suo risentimento che cresceva come più egli rivedeva ora l'uomo nel suo aspetto odioso, come più chiare gli apparivano le conseguenze dell'atto inconsiderato.—Bada: io non voglio essere il tuo complice, contro mia madre...

—Che intendi di dire?—esclamò allora colui, mostrandosi ferito dal sospetto, alzando la voce d'un tratto, come per sopraffare il figlio che con un orribile sforzo lo fissava negli occhi.—Che intendi di dire? Quando finirà di vomitare veleno quella vipera di tua madre? quando finirà? quando finirà? Vuole dunque che io le chiuda la bocca per sempre? Così sarà, uno di questi giorni. Ah che femmina! Da quindici anni, da quindici anni non mi dà un minuto di requie. M'ha avvelenata la vita, m'ha distrutto. La colpa della mia rovina è sua, capisci?, è sua...

—Taci!—gridò Giorgio, fuori di sé, irriconoscibile, pallido come un morto, tremando in tutta la persona, invasato da un furore simile a quello che già l'aveva sconvolto contro Diego.—Taci! Non la nominare. Tu non sei degno di baciarle i piedi. Ero venuto qui per ricordartelo. E mi son lasciato ingannare dalla tua commedia! Mi son lasciato prendere nel tuo laccio! Tu volevi guadagnare qualche cosa oggi, per la tua baldracca; e ci sei riuscito... Ah, che vergogna!... E hai il coraggio d'ingiuriare mia madre!

La voce gli mancava, nella soffocazione; un velo gli copriva gli occhi; e le ginocchia gli si piegavano come se le forze stessero per abbandonarlo.

—Ora, addio. Esco di qui. Fa quello che vuoi. Non sono più tuo figlio. Non voglio più vederti; non voglio più sapere nulla di te. Mi prenderò mia madre. Me la porterò lontano. Addio.

Uscì barcollando, avendo ancóra gli occhi oscurati. Mentre attraversava le stanze per giungere alla terrazza, udì un fruscìo di vesti e una porta sbattere come dietro una persona che si ritirasse in fretta per non essere sorpresa. Appena fu all'aria aperta, oltre il cancello, ebbe un impeto folle di piangere, di gridare, di correre a traverso la campagna, di battere la fronte contro un macigno, di cercare un precipizio dove finire. Tutti i nervi gli vibravano dolorosamente nella testa e gli davano fitte crudeli come se l'uno dopo l'altro gli si rompessero. Ed egli pensava, con uno sgomento che la morte del giorno rendeva più atroce: «Ora dove andrò? Tornerò laggiù, stasera?» La casa gli pareva retrocessa in una lontananza indefinita e il cammino gli pareva insuperabile; e gli pareva inammissibile tutto ciò che non fosse la cessazione immediata e assoluta del suo spasimo estremo.

VIII

La mattina seguente, svegliandosi dopo un sonno torbidissimo, di quelle ore non conservava se non un ricordo confuso. La discesa tragica della sera su la campagna deserta; il suono grave dell'Angelus, ch'eragli parso non aver mai fine, prolungato in lui da un'allucinazione dell'udito; l'ansietà che lo aveva incalzato in vicinanza della sua casa alla vista delle finestre luminose attraversate da qualche ombra mobile; la sovreccitazione quasi febrile da cui era stato preso, alle domande della madre e della sorella, raccontando l'accaduto, esagerando la violenza della sua invettiva e la terribilità dell'alterco; il bisogno quasi delirante di parlare, di parlare molto, di mescolare al racconto dei fatti reali le sue imaginazioni incoerenti; gli impeti di sdegno o di tenerezza con cui l'aveva interrotto la madre, a mano a mano ch'egli le aveva descritto il contegno del bruto e la sua propria sofferenza e la sua propria energia nell'affrontarlo; e poi la raucedine repentina, il crescere rapido del dolore pulsante alle tempie, gli sforzi spasmodici del vomito amaro e infrenabile, il gran freddo che lo aveva assalito nel letto, i fantasmi truci che lo avevano fatto balzare di soprassalto nel primo sopore dei suoi nervi estenuati,—tutto gli tornava in confuso alla memoria aumentandogli quella corporale stupefazione che era penosa e da cui pur tuttavia egli non avrebbe voluto togliersi se non per entrare in una oscurità completa, nella insensibilità del cadavere.

La necessità della morte gli stava sopra pur sempre con la stessa imminenza; ma gli era grave il pensare che per mettere in esecuzione il suo proposito egli avrebbe dovuto escire dall'inerzia, compiere una serie di atti faticosi, superare la ripulsione fisica allo sforzo.—Dove si sarebbe ucciso? Con qual mezzo? Nella casa? In quello stesso giorno? Con un'arma da fuoco? Con un veleno?—Ancóra non si presentava al suo spirito un'idea precisa e definitiva. Lo stesso torpore che lo occupava e l'amarezza della bocca gli suggerirono l'idea di un narcotico. E, vagamente, senza fermarsi a considerare i mezzi pratici con cui avrebbe potuto procurarsi la dose efficace, imaginò gli effetti. Poi, a poco a poco, le imagini si moltiplicarono e divennero più particolari, più distinte; si associarono componendo una scena visibile. Piuttosto che le sensazioni del suo lento perire egli cercava di imaginare le circostanze che avrebbero condotto la madre, la sorella, il fratello a conoscere la sciagura; cercava d'imaginare le manifestazioni del loro dolore, le attitudini, le parole, i gesti. E questa curiosità comprendeva via via tutti i superstiti: non soltanto i congiunti prossimi, ma tutti i parenti, gli amici; e Ippolita, quella Ippolita così lontana, così lontana, divenuta a lui quasi estranea...

—Giorgio!

Era la voce della madre che batteva all'uscio della stanza.

—Oh, mamma, sei tu? Entra.

Ella entrò, si avvicinò al letto con una tenera sollecitudine; gli chiese, chinandosi su di lui, mettendogli una mano su la fronte:

—Come stai? Come ti senti?

—Così... un poco stordito... Ho la bocca amara; vorrei prendere qualche cosa...

—Ora sale Camilla con una tazza di latte. Vuoi che ti apra le imposte, un poco più?

—Come vuoi, mamma.

La sua voce era alterata. La presenza della madre gli acuiva quel sentimento della pietà di sé mosso dalle imagini del compianto funebre ch'egli credeva prossimo. Egli avvicinava quell'atto reale, della madre che apriva le imposte, all'atto prima imaginato in corrispondenza della scoperta terribile; e gli s'inumidivano gli occhi nella commiserazione di sé e della povera donna a cui egli serbava quel colpo; e la scena tragica gli appariva più evidente.—La madre si volgeva nella luce, lo chiamava ancóra per nome un poco sbigottita, si avvicinava di nuovo tremando, lo toccava, lo scoteva, lo sentiva inerte, lo sentiva gelato e rigido; cadeva bocconi sopra di lui svenuta...—«Forse morta? Ella potrebbe rimaner fulminata, sotto il colpo.» E il turbamento gli crebbe; e allora quegli istanti gli parvero solenni perché finali; e l'aspetto e gli atti e le parole della madre assunsero per lui un significato e un valore così insoliti che egli li seguì con un'attenzione quasi ansiosa, uscendo a un tratto dalla sua inerzia interiore e riacquistando a un tratto un senso della vita straordinariamente attivo. Si riproduceva in lui un fenomeno già noto, che più d'una volta lo aveva colpito e reso curioso per la singolarità del processo. Era un passaggio istantaneo da uno stato della conscienza a un altro; il quale aveva con lo stato anteriore la stessa dissimiglianza che è tra la veglia e il sonno, e quasi gli dava imagine della mutazione istantanea che avviene su un palco scenico quando in un attimo i lumi della ribalta si alzano proiettando il massimo chiarore. Nello stato abituale, la sua conscienza era come ricoperta da una superficie opaca che pareva mettere tra quella e la realità una specie di diaframma; il quale anche talvolta si spessiva così da divenire completamente isolante impedendo le percezioni del mondo esteriore. Era, secondo un'imagine visibile, come una sfera di cui non fosse oscuro soltanto il nucleo ma ben anche, in un grado assai minore, un leggero strato periferico. Ma avveniva talvolta, d'improvviso, che quella opacità superficiale scomparisse e che la conscienza si trovasse in contatto immediato con la realità presente; e allora le percezioni sembravano portare qualche cosa di nuovo, sembravano rivelare un nuovo aspetto e una nuova essenza della vita reale e in ispecie di quegli esseri che per la prossimità e per la consuetudine erano fin allora apparsi sotto un aspetto particolarmente determinato.

Così il figliuolo, come già era accaduto il giorno delle esequie, guardò la madre per altri occhi e la vide, quale l'aveva veduta allora, con una strana chiarezza; sentì la vita di lei avvicinata alla sua propria vita, quasi aderente, e le rispondenze misteriose del sangue comune, e la tristizia del destino che sovrastava a entrambi. E, quando la madre tornò verso di lui e sedette accanto, egli si volse, si sollevò un poco dai guanciali; le prese una mano, tentò di coprire il turbamento con un sorriso. Fingendo di guardare la pietra lavorata d'un anello, egli esaminava quella mano lunga e scarna che aveva dal complesso di tutte le particolarità una espressione straordinariamente viva e che dava a lui col contatto dell'epidermide una sensazione non somigliante ad alcun'altra. Pensava, con l'anima pur sempre avvolta dalle ombre delle imagini prima evocate: «Quando ella mi toccherà morto e sentirà quel gelo...» E rabbrividì istintivamente al ricordo del ribrezzo da lui medesimo provato nel palpare un cadavere.

—Che hai?—chiese la madre.

—Nulla... un sussulto nervoso...

—Ah, tu non stai bene!—soggiunse ella scotendo il capo.—Che ti senti?

—Nulla, mamma... Naturalmente, ancóra scosso, un poco...

Ma non sfuggiva allo sguardo materno quel che c'era di forzato e di convulso nel volto del figliuolo.

—Ah come mi pento—ella esclamò—come mi pento d'averti mandato laggiù! Come ho fatto male a mandarti!

—No, mamma. Perché? O prima o poi, era necessario.

Ed egli, non più in confuso, rivisse d'un tratto l'ora tristissima; rivide i gesti, riudì la voce del padre; riudì la sua propria voce, così mutata, che aveva proferito parole tanto gravi, incredibilmente. Gli pareva d'essere estraneo a quel fatto, a quelle parole proferite; e pur non di meno sentiva in fondo all'anima una specie di rimorso oscuro che era quasi una istintiva consapevolezza d'aver ecceduto, d'aver commesso una trasgressione irreparabile, d'aver calpestato qualche cosa d'umano e di sacro.—Perché era egli escito con quell'impeto su dalla grande rassegnazione calma che l'imagine funebre di Demetrio gli aveva infusa apparendo in mezzo alla campagna muta? Perché non aveva egli seguitato a considerare con la stessa pietà dolorosa e veggente la bassezza e l'ignominia di quell'uomo su cui pesava, come su tutti gli altri, un invincibile destino? Egli, egli, che portava nelle vene quel medesimo sangue, non portava anche forse addormentati nella sua propria sostanza tutti i germi di quei mali abominevoli? Egli medesimo, se avesse proseguito a vivere, non avrebbe potuto anche cadere in una simile abiezione?—E tutte le ire, tutti gli odii, tutte le violenze, tutti i castighi gli parvero ingiusti e vani. La vita gli parve un cieco fermento di materie impure. Gli parve di avere nella sua sostanza una quantità di forze occulte inconoscibili e indistruttibili, del cui successivo espandersi fatale s'era composta la sua esistenza fin allora e si sarebbe composta quella a venire s'egli non avesse dovuto obedire appunto a una di quelle forze, che ora gli imponeva l'atto estremo. «E, infine, perché provo rammarico dell'atto di ieri? Avrei potuto io forse non compierlo?»

—Era necessario—egli ripeté, come a sé medesimo, con un diverso significato.

E assisteva, lucido e attento, allo svolgersi della restante vita.

IX

Quando la madre e la sorella l'ebbero lasciato solo, egli rimase ancóra qualche minuto nel letto provando una ripugnanza fisica a qualunque azione. Lo sforzo dell'alzarsi gli pareva enorme. Troppo gli pareva faticoso abbandonare quella positura orizzontale in cui fra qualche ora egli avrebbe trovata la requie eterna. Ed egli ripensò al narcotico. «Chiudere gli occhi ed aspettare il sonno!» La vergine chiarità della mattina di maggio, l'azzurro che si specchiava nella vetrata, la zona di sole che s'allungava sul pavimento, le voci e gli strepiti che salivano dalla strada, tutte quelle vivaci apparenze, che sembravano quasi fare impeto al balcone per giungere sino a lui e conquistarlo, gli davano una specie di sbigottimento misto di rancore. E gli ripassava nello spirito l'imagine della madre nell'atto d'aprire. Vedeva ancóra Camilla a piè del letto; riudiva le parole dell'una e dell'altra, che si riferivano pur sempre al medesimo uomo. Una esclamazione crudele della madre, proferita con labbra amarissime, gli era rimasta più impressa; ed a quella s'accomunava la visione del volto paterno in cui egli aveva creduto di scoprire i segni dell'infermità mortale: là su la loggia, alla violenta luce riverberata dal muro bianco. «Fosse vero!» La madre aveva detto, con acredine, d'innanzi a lui e a Camilla: «Volesse il cielo! Fosse vero!» Ed era quella dunque, per lui prossimo a scomparire dal mondo, era quella l'ultima impressione lasciatagli in cuore dalla creatura ch'era stata un tempo nella sua casa la fonte d'ogni tenerezza ...

Ebbe un moto repentino di volontà: balzò dal letto, risoluto finalmente a operare. «Sarà prima di sera. Dove?» Pensò alle stanze chiuse di Demetrio. Prima di formare un disegno preciso, notò in fondo a sé la certezza che il modo gli si sarebbe offerto spontaneamente, nel corso delle ore, per una qualche suggestione improvvisa a cui egli avrebbe dovuto obedire.

Nell'attendere alle cure della persona, era preoccupato dall'idea di preparare il suo corpo per il sepolcro. Appariva in lui quella specie di vanità funeraria che è singolare in certi condannati e in certi suicidi. Osservando in sé stesso questo sentimento, egli lo rendeva più intenso. E gli venne il rammarico di morire in quella piccola città oscura, in fondo a quella provincia incolta, lontano dagli amici che forse per lungo tempo avrebbero ignorata quella fine. Invece, se il fatto fosse accaduto a Roma, nella grande città dov'egli era noto, gli amici lo avrebbero compianto, avrebbero forse ornato di poesia il mistero tragico. E di nuovo egli cercava d'imaginare gli effetti postumi:—la sua attitudine sul letto, nella stanza dei suoi amori; il profondo turbamento delle anime giovenili, delle anime fraterne, al conspetto del cadavere composto in una severa pace; i dialoghi della veglia funebre, al lume dei ceri; il feretro coperto di corone, seguìto da una turba di giovani silenziosi; le parole d'addio pronunziate da un poeta, da Stefano Gondi («Ha voluto morire per non aver potuto rendere la sua vita conforme al suo sogno»); e poi il dolore, la disperazione, la follia d'Ippolita...

Ippolita! Dov'era, che sentiva, che faceva ella?

«Come il presentimento non m'ingannava!» egli pensò. Gli riapparve nell'imaginazione il gesto dell'amante che calava il velo nero su l'ultimo bacio; gli ripassarono nella memoria i piccoli fatti finali. Ma rimaneva per lui inesplicabile quella quasi completa acquiescenza del suo animo nella necessaria definitiva rinunzia al possesso della donna tanto sognata e tanto adorata. Perché, dopo i tumulti e le soffocazioni dei primi giorni, a poco a poco la speranza lo aveva abbandonato ed egli era caduto nella desolante certezza della inutilità d'ogni tentativo inteso a risuscitare quella grande cosa morta e incredibilmente remota: il loro amore? Perché tutto quel passato s'era disgiunto da lui così che, in quei giorni, in mezzo alle nuove torture, egli di rado n'aveva sentito ripercuotere nella conscienza qualche chiara vibrazione?

Ippolita! Dov'era, che sentiva, che faceva ella? A quali spettacoli si aprivano i suoi occhi? Da quali parole, da quali contatti ella era turbata? Come mai, in due settimane circa, ella non aveva saputo trovare il modo di mandargli notizie meno vaghe e meno brevi di quelle contenute in quattro o cinque telegrammi spediti da luoghi sempre diversi?

«Forse già è vinta dal desiderio di un altro uomo. Quel cognato di cui ella mi parlava così spesso...» E il tristo pensiero, mosso dall'abitudine inveterata del sospetto e dell'accusa, si impadronì di lui a un tratto e lo agitò come nelle più cupe ore lontane. Tutti i suoi ricordi amari si risvegliarono in tumulto. Egli riassunse in un sol minuto le sue miserie di due anni, chino allo stesso balcone dove la prima sera tra il profumo dei bergamotti aveva invocato il nome nell'ambascia del primo rimpianto. E gli sembrò che nello splendore del mattino di maggio si dilatasse e arrivasse fino a lui la nuova felicità del rivale sconosciuto.

X

Come per iniziarsi al mistero profondo in cui stava per entrare, Giorgio volle rivedere le stanze solitarie dove Demetrio aveva trascorsi i suoi scorni estremi.

Egli aveva ereditato il possesso di quelle stanze, insieme con tutta la fortuna dello zio. Le aveva conservate intatte, religiosamente, come reliquiarii. Occupavano l'ultimo piano; guardavano su l'orto, a mezzodì.

Prese la chiave, e salì le scale con cautela perché nessuno lo interrogasse. Ma, attraversando il corridoio, egli doveva per necessità passare innanzi alla porta della zia Gioconda. Sperando di passare inosservato, camminava piano, su la punta dei piedi; tratteneva il respiro. Udì tossire la vecchia; fece qualche passo più rapido, credendo d'esser coperto dallo strepito della tosse.

—Chi è?—domandò, di dentro, la voce roca.

—Sono io, zia Gioconda.

—Ah sei tu, Giorgio? Vieni, vieni...

Ella comparve su la soglia, con una maschera giallognola, quasi cadaverica nell'ombra, lanciando al nipote un suo sguardo particolare che andava alle mani prima che al volto, come per veder sùbito se le mani portassero qualche cosa.

—Vado nelle stanze di là—disse Giorgio, assalito dal disgusto di quel basso odore umano, mostrando di non volersi fermare.—Addio, zia. Vado a dare un poco d'aria alle stanze.

Egli seguitò pel corridoio, giunse all'altra porta; ma, mentre stava per mettere la chiave nella serratura, udì lo zoppicare della vecchia che lo seguiva.

Quella vecchia beghina, quasi idiota, che aveva l'alito fetido di chi muore per tifo, disfatta dai dolciumi, mezzo imputridita fra i suoi santi, quella vecchia era dunque come la custode del luogo. Quella vecchia era la sorella del suicida, la sorella carnale di Demetrio Aurispa!

Giorgio si sentì cadere il cuore, pensando che forse non avrebbe potuto liberarsene, pensando che forse avrebbe dovuto ascoltarne il balbettìo nel silenzio quasi sacro del luogo, tra le memorie care e tremende. Non disse nulla, non si rivolse; aprì la porta, entrò.

La prima stanza era buia, piena d'un'aria tiepida e un poco affogante, sparsa di quel sentor singolare che hanno le biblioteche vetuste. Un filo di luce fioca tradiva la finestra. Giorgio esitò prima di aprire le imposte; tese l'orecchio per cogliere lo stridìo dei tarli. La zia Gioconda si mise a tossire, in quel buio, invisibile. Allora, brancolando su le imposte per trovare il ferro, egli ebbe qualche brivido, un leggero sbigottimento. Aprì; si rivolse: vide le forme vaghe delle suppellettili nella penombra verdognola prodotta dalle persiane; vide nel mezzo la vecchia, curva da un lato, tutta ciondolante, floscia, che biasciava. Spalancò le persiane che cigolarono su i cardini. Un'ondata di sole si diffuse nell'interno. Le tende scolorite diedero un palpito.

Egli restò indeciso, senza potersi abbandonare al suo sentimento, provando fastidio ed inquietudine per la presenza della vecchia. L'irritazione gli crebbe così ch'egli non le disse nulla per tema d'aver la voce irosa e dura. Passò nella stanza contigua, aprì la finestra. La luce si diffuse, le tende palpitarono. Passò nella terza stanza, aprì la finestra. La luce si diffuse, le tende palpitarono.

Non andò oltre. La stanza seguente, nell'angolo, era quella del letto. Egli voleva entrarci solo. Udì, scorato, lo zoppicare della vecchia molesta che lo raggiungeva; si mise a sedere, chiudendosi in un silenzio ostinato, aspettando.

Lentamente, la vecchia passò la soglia. Vide Giorgio seduto, che non parlava; e restò perplessa. Non sapeva che dire. Forse il vento fresco che soffiava per la finestra le provocò di nuovo la tosse; ed ella, in piedi nel mezzo della stanza, tossì. Il suo corpo ad ogni sussulto pareva gonfiarsi e sgonfiarsi come l'otro d'una zampogna a un fiato incostante. Ella si teneva le mani sul petto: certe mani grasse, di sego, con l'unghie orlate di nero. E in bocca, tra le gengive vuote, le tremolava la lingua bianchiccia.

Appena la tosse si calmò, ella trasse di tasca un cartoccio sudicio e prese una pasticca. Stando ancóra in piedi, biasciava e guardava Giorgio con uno sguardo incantato, come una mentecatta. Quello sguardo da Giorgio andò alla porta chiusa della quarta stanza. La divota si fece il segno della croce, poi si mise anch'ella a sedere su la sedia più vicina. Tenendo le mani sul ventre, le palpebre abbassate, recitava una requie.

«Ella prega per l'anima del fratello, per l'anima del dannato!» pensò Giorgio. E ch'ella fosse la germana di Demetrio Aurispa gli pareva una cosa inconcepibile. Il fiero e gentile sangue che aveva rigato il letto nella stanza contigua, votando un cervello già roso dalle più alte cure dell'intelligenza; tal sangue aveva comuni le origini con quello che scorreva impoverito nelle vene della pinzòchera! «In lei l'ingordigia, l'ingordigia soltanto, rimpiange la generosità del donatore. È singolare questa preghiera riconoscente che parte da un vecchio stomaco guasto, verso il più nobile dei suicidi. Com'è bizzarra la vita!»

D'un tratto, la zia Gioconda ricominciò a tossire.

—Zia, è meglio che tu te ne vada di qui—le disse Giorgio, non potendo più contenere la sua impazienza.—Quest'aria ti fa male. È meglio che tu te ne vada. Àlzati, via. Ti riaccompagno.

La zia lo guardò, sorpresa dalla voce brusca, dal tono insolito. Si alzò; traversò le stanze, claudicando. Come fu nel corridoio, si fece di nuovo il segno della croce, per esorcismo. Giorgio chiuse dietro di lei la porta, con due giri di chiave; si trovò alfine solo, libero, nella casa del defunto, in compagnia invisibile.

Rimase fermo, qualche minuto, come sotto un'influenza magnetica. Profondissimo gli divenne il sentimento del fascino soprannaturale che dal sepolcro esercitava su lui quell'uomo esistente fuor della vita.

E gli apparve l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

«Per me, esiste» egli pensò. «Dal giorno della sua morte fisica, io sento la sua presenza in ogni ora. Non mai come dopo la sua morte io ho sentita la nostra consanguinità. Non mai come dopo la sua morte io ho avuta la percezione della intensità di quell'essere. Tutto ciò che in lui si disperdeva al contatto de' suoi simili; tutti i suoi atti e i suoi gesti e i suoi detti, nel corso del tempo; tutte le manifestazioni varie che formavano lo special carattere del suo essere in rapporto con gli altri esseri; tutte le forme costanti e variabili che distinguevano la sua persona tra le altre persone, e tra la moltitudine umana particolarizzavano la sua umanità; tutti insomma i segni della sua vita tra le altre vite ora mi sembrano raccolti, circonscritti, concentrati nella sola attenenza ideale che lo lega a me. Egli ora esiste per me solo, immune da ogni altro contatto, comunicando con me solo. Egli esiste, puro ed intenso come non mai.»

Fece qualche passo, pianamente. Il silenzio era animato di piccoli romori occulti, appena percettibili. L'aria viva, il calore del giorno movevano le fibre delle suppellettili inerti, abituate all'oscurità della clausura. Il soffio del cielo penetrava i pori del legno, agitava i granelli della polvere, gonfiava le pieghe dei tessuti. In una riga di sole turbinavano mille atomi. L'odore dei libri a poco a poco era vinto dall'odore dei fiori.

Le cose suggerivano al superstite le memorie. Una moltitudine leggera e mormorante si levava dalle cose, veniva a circondarlo. Le emanazioni del passato sorgevano da ogni punto. Le cose parevano rendere qualche parte d'una sostanza spirituale onde fossero impregnate. «Mi esalto?» egli si domandò, guardando entro di sé le imagini che si succedevano con una straordinaria rapidità, evidentissime, non offuscate da ombra di morte ma viventi d'una vita superiore. «Questa rappresentazione che la mia anima fa a sé stessa è libera d'ogni elemento soprannaturale? Queste imagini si formano in me per la medesima operazione per cui si formano i sogni? Della medesima essenza? Io sono soltanto in preda all'eccitabilità de' miei nervi malati?» Restò perplesso, affascinato dal mistero, provando una terribile ansietà nell'arrischiarsi ai confini di quel mondo sconosciuto.

Le tende ondeggiavano come gonfiate in misura da un respiro, con mollezza, lasciando intravedere un paesaggio nobile e calmo. I lievi romori dei legni, delle carte, delle pareti continuavano. Nella terza stanza, severa e semplice, le memorie erano musicali, venivano dai muti istrumenti. Sopra un lungo cembalo levigato, di palissandro, ove le cose si riflettevano come in una spera, riposava un violino nella sua custodia. Sopra un leggìo una pagina di musica si sollevava e si abbassava ai soffii dell'aria, quasi in ritmo con le tende.

Giorgio si avvicinò. Era una pagina d'un mottetto di Felix Mendelssohn:—Domenica II post Pascha: Andante quasi Allegretto: Surrexit pastor bonus...—Più in là, sopra un tavolo, giacevano ammonticchiate le partiture per pianoforte e violino, edizioni di Lipsia: Beethoven, Bach, Schubert, Rode, Tartini, Viotti. Giorgio aprì la custodia, guardò il delicato istrumento che dormiva in un velluto color d'uliva, con le sue quattro corde intatte. Preso come da una curiosità di svegliarlo, egli toccò il cantino che diede un gemito acuto facendo vibrare tutta la cassa. Era un violino di Andrea Guarneri, con la data del 1680.

La figura di Demetrio, alta, smilza, un po' curva, con un collo lungo e pallido, con i capelli rigettati indietro, con la ciocca bianca sul mezzo della fronte, riapparve. Teneva il violino. Si passò una mano su i capelli, alla tempia, sopra l'orecchio, con un atto che gli era familiare. Accordò l'istrumento, diede la pece all'archetto; incominciò la sonata. La sua mano sinistra scorreva su le corde, lungo il manico, premendole con la punta delle dita scarne, convulsa e fiera, mentre di sotto la pelle il gioco de' muscoli era così palese che faceva quasi pena. La sua mano destra eseguiva la cavata con un gesto largo e impeccabile. Talvolta, egli appoggiava più forte il mento, reclinava il capo, socchiudeva le palpebre, raccogliendosi tutto nella delizia interiore. Talvolta, egli ergeva il busto, guardava innanzi a sé con occhi splendidi, sorrideva d'un sorriso leggero; e mostrava una fronte straordinariamente pura.

Riapparve così, a Giorgio, il violinista. Ed egli rivisse ore di vita già vissute; le rivisse non soltanto in ispirito ma in sensazione reale e profonda. Rivisse quelle lunghe ore di calda intimità e di oblìo, quando egli e Demetrio, soli, nella stanza tiepida ove non giungeva un romore, eseguivano la musica dei prediletti maestri.—Come si obliavano! In che rapimenti singolari ed alti li traeva, dopo qualche tempo, l'udizione della musica ch'essi medesimi eseguivano! Non di rado, cadevano sotto il fascino di una sola melodia, per tutto un pomeriggio; e non sapevano escire dal circolo magico che li serrava. Quante volte avevano ripetuta una romanza senza parole di Felix Mendelssohn, che aveva rivelato a loro stessi, nel fondo della loro anima, nella parte più intima della loro sostanza, una specie d'inconsolabile disperazione! Quante volte avevano ripetuta una sonata di Ludwig Beethoven, che pareva afferrare la loro anima e trascinarla con vertiginosa rapidità a traverso spazii illimitati inchinandola al passaggio su tutti gli abissi!

Il superstite risaliva all'autunno del 188*, a quell'indimenticabile autunno di malinconia e di poesia, quando Demetrio esciva appena da una convalescenza. Doveva essere l'ultimo autunno!—Demetrio, dopo quel lungo periodo di forzato silenzio, riprendeva il violino con una strana trepidazione, come temendo di aver perduta ogni attitudine e ogni destrezza, di non saper più sonare. Oh, il tremito delle sue dita ancóra deboli su le corde e l'incertezza dell'archetto, quando volle tentare le prime note! E quelle due lacrime che gli si formarono lentamente nel cavo degli occhi e gli rigarono le guance, gli si arrestarono tra i fili della barba un poco allungata, incolta ancóra!

Il superstite rivide il violinista nell'atto d'improvvisare, mentre egli lo accompagnava al pianoforte con un'ansietà quasi insostenibile, cercando di seguirlo, d'indovinarlo, temendo sempre di rompere il tempo, di sbagliare il tono, di prendere un accordo falso, di mancare una nota.

Gli Improvvisi di Demetrio Aurispa erano quasi sempre inspirati da una poesia. Giorgio si ricordò del meraviglioso Improvviso che il violinista aveva tessuto, un giorno di ottobre, su una lirica di Alfredo Tennyson nella Principessa. Egli medesimo, Giorgio, aveva tradotto i versi, perché Demetrio li potesse intendere, e glie li aveva proposti per tema.—Dov'era quel foglio?

Invaso dalla curiosità d'una nuova sensazione triste, Giorgio si mise a cercarlo in un albo che stava tra il fascio delle partiture. Egli sapeva che l'avrebbe trovato; ne aveva la memoria certa e precisa. Infatti lo trovò.

Era un solo foglio, scritto con inchiostro violetto. I caratteri erano impalliditi e il foglio era gualcito, giallognolo, senza più alcuna rigidità, molle come un ragnatelo. Aveva in sé quasi la tristezza delle pagine vergate in tempi remoti da una mano cara, già per sempre scomparsa.

«Io ho scritto questo foglio! Questa è scrittura di mia mano!» diceva Giorgio a sé medesimo, appena appena riconoscendo i caratteri. Era una scrittura un po' timida, ineguale, quasi feminina; una scrittura che portava in sé ancóra un ricordo della scuola, un'ambiguità dell'adolescenza recente, una gentilezza esitante di anima che non osa ancóra tutto sapere. «Che mutamento anche in questo!» Ed egli lesse i pensieri del poeta, sciolti dalla loro melodia natale.—Lacrime, vane lacrime, io non so che vogliano dire,—lacrime dal profondo di una qualche divina disperazione—sgorgano in cuore e s'adunano negli occhi—alla vista dei felici campi d'autunno,—al pensiero dei giorni che non sono più.—Freschi come il primo raggio, fulgente su una vela—che ci riconduce gli amici dal mondo sottomarino;—tristi come l'ultimo, rosseggiante su la tela—che naufraga con tutto quel che amiamo;—così tristi e freschi i giorni che non sono più.—Ah tristi, strani, come in un'alba oscura—il cinguettìo degli uccelli a pena a pena desti—per orecchi morenti, quando a occhi morenti—la finestra, lentamente, diviene un quadrato pallido;—così tristi, così strani, i giorni che non sono più.—Cari come i baci ricordati dopo la morte;—dolci come quelli imaginati da una fantasia senza speranza—su labbra che sono per altri; profondi come l'amore,—come il primo amore, e selvaggi, di rimpianto;—o Morte nella Vita, i giorni che non sono più.

Demetrio improvvisava in piedi accanto al cembalo, un po' più bianco, un po' più curvo; ma di tratto in tratto ergendosi al soffio dell'inspirazione, come una canna reclinata si erge al soffio del vento. Egli teneva gli occhi fissi alla finestra: dove appariva inquadrato un paese di autunno, rossastro e nubiloso. Una luce mutevole, per le vicende del cielo esterno, a intervalli gli inondava la persona; gli brillava nell'umidità degli occhi; gli dorava la fronte straordinariamente pura. E il violino diceva:—Tristi come l'ultimo raggio rosseggiante su la vela che naufraga con tutto quel che amiamo, così tristi i giorni che non sono più.—E il violino diceva piangendo:—O Morte nella Vita, i giorni che non sono più!—

Un'angoscia estrema assalì il superstite, a questo ricordo, a questa visione. Dopo il passaggio delle imagini, il silenzio gli parve più grave, più vacuo. Il delicato istrumento, dove l'anima di Demetrio aveva cantato i suoi più alti canti, ora dormiva nel velluto della custodia, con le quattro corde intatte.

Egli abbassò il coperchio come sopra un cadavere. Il silenzio gli si fece intorno lugubre. Ma pur sempre gli rimaneva in fondo al cuore il sospiro, simile a una cadenza indefinitamente prolungata:—O Morte nella Vita, i giorni che non sono più!—

Stette, qualche minuto, innanzi alla porta che chiudeva la stanza tragica. Egli sentiva omai di non esser più padrone di sé. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l'eccesso delle loro sensazioni. Un cerchio gli fasciava il capo, dilatandosi e restringendosi con il palpito delle arterie, come fosse d'una materia elastica e fredda. Quel freddo medesimo gli correva per la midolla della spina.

Con una energia subitanea, quasi con veemenza, aprì; entrò. Senza guardarsi intorno, per la striscia di luce che si stendeva sul pavimento gettata dall'apertura della porta, andò diritto a uno de' due balconi; lo spalancò. Spalancò anche l'altro. Si rivolse, un poco sconvolto e affannato da quell'azione rapida ch'egli aveva compiuta sotto l'urgenza d'una specie di orrore. Si accorse che la radice de' capelli gli era divenuta sensibile.

Vide, prima d'ogni altra cosa, il letto; che gli stava di contro, coperto d'una coltre verde, tutto di noce ma semplice, senza intagli, senza parato, senza cortinaggio. Non vide, per qualche istante, altra cosa se non il letto; come allora che, nel giorno terribile, passò quella soglia e stette impietrito innanzi al cadavere.

Evocato dall'imaginazione del superstite, il cadavere, con la testa avvolta in un velo nero, con le braccia non incrociate sul petto ma posate lungo i fianchi, rioccupò il suo posto su la coltre. La gran luce cruda, che irrompeva dai balconi spalancati, non bastava a disperdere il fantasma. La visione non era continua ma intermittente, come veduta tra uno spesso battere di palpebre se bene le palpebre del testimonio rimanessero immote.

Questi udì, nel silenzio dell'aria e dell'anima, distinto, lo stridìo d'un tarlo. E il piccolo fatto bastò a disperdere momentaneamente l'estrema violenza della tension nervosa, come basta la puntura d'un ago a vuotare una vescica gonfia.

Tutte le particolarità del giorno terribile gli tornarono alla memoria:—l'annunzio improvviso portato alle Torrette di Sarsa, verso le tre del pomeriggio, da un corriere ansante che balbettava e piagnucolava; il viaggio fulmineo, a cavallo, sotto la gran canicola, su per le coste infiammate, e nella corsa i sùbiti mancamenti di forza che lo facevano pericolare; e poi la casa tutta piena di singhiozzi, piena d'uno strepito di porte sbattute dalla raffica, piena del rombo ch'egli aveva nelle arterie; e in fine l'entrata impetuosa nella stanza, la vista del cadavere, le tende che si gonfiavano e garrivano, il tintinno dell'acquasantiera su la parete...—

Il fatto era avvenuto nella mattina del 4 agosto, senza alcuna preparazione sospetta. Il suicida non aveva lasciata nessuna lettera, neppure per il nipote. Il testamento, nel quale constituiva erede suo unico Giorgio Aurispa, era già pronto da tempo. Appariva manifesta la cura di Demetrio nell'occultare le cause del suo proposito e anche nel togliere qualunque appiglio ai supposti; e perfino nel distruggere qualunque traccia degli atti che avevano preceduto quello estremo. Tutto nelle stanze era stato trovato in ordine, in un ordine quasi eccessivo. Nessuna carta era rimasta sullo scrittoio; nessun libro era rimasto fuor degli scaffali. Sul tavolino, accanto al letto, la custodia delle pistole, aperta; niente altro.

«Perché si uccise?» L'interrogazione risorse per la millesima volta nello spirito del superstite. «Aveva egli un segreto che gli divorava il cuore? O la crudele sagacità della sua mente gli rendeva insostenibile la vita? Egli portava dentro di sé il suo fato, come io lo porto dentro di me.»

Guardò la piccola pila d'argento che pendeva ancóra a capo del letto, su la parete, segno di religione, pio ricordo materno. Era un'opera elegante dell'antico maestro orafo smaltista di Guardiagrele, Andrea Gallucci; era come un gioiello ereditario. «Egli amava gli emblemi della religione, la musica sacra, l'odore dell'incenso, i crocifissi, gli inni della chiesa latina. Era un mistico, un ascetico, il più appassionato contemplatore della vita interna. Ma non credeva in Dio.»

Guardò la custodia delle pistole. Un pensiero, latente in fondo al suo cervello, gli si palesò nel guizzo d'un lampo. «Con una di quelle, con la stessa, io mi ucciderò; su lo stesso letto.» L'eccitazione, per un momento decaduta, gli risorse; la radice dei capelli gli ridivenne sensibile. Egli riebbe, in sensazione reale e profonda, il brivido già provato nel giorno tragico, quando con le sue proprie mani aveva voluto sollevare il velo nero di su la faccia del morto ed aveva creduto scorgere a traverso le bende il guasto della ferita, l'orribile guasto prodotto dallo scoppio dell'arma, dall'urto della palla di piombo contro le ossa del cranio, contro quella fronte così delicata e così pura. In realtà, egli non aveva veduto se non una parte del naso, la bocca e il mento. Le fasce a più doppi nascondevano il resto, perché gli occhi forse erano esciti fuori dall'orbite. Ma la bocca intatta, che la barba rada e fina lasciava scoperta, quella bocca appassita e pallida che in vita si apriva così dolce al sorriso imprevisto, aveva assunto dal suggello della morte un'espressione di calma non terrena, resa più straordinaria dallo sfacelo sanguinoso che le fasce nascondevano.

L'imagine, come fermata in una impronta incorruttibile, era rimasta nell'anima dell'erede, nel centro dell'anima; e dopo cinque anni conservava ancóra la medesima evidenza, mantenuta da un potere fatale.

Pensando ch'egli si sarebbe disteso sul medesimo letto e si sarebbe ucciso con la medesima arma, Giorgio Aurispa non aveva quel sentimento agitato e vibrato che dànno i propositi repentini, ma più tosto un sentimento indefinibile come d'una cosa da lungo tempo conosciuta ed ammessa un po' in confuso, la quale ora si chiarisse e dovesse compiersi. Aprì la custodia; esaminò le pistole.

Erano armi fini, rigate, da duello: non molto lunghe, di vecchia fabbrica inglese, con un calcio perfettamente maneggevole. Riposavano nel panno verdechiaro, un po' logoro su gli orli degli incavi; alcuni de' quali contenevano tutto l'occorrente per le cariche. Essendo le canne di bocca alquanto larga, le palle erano grosse: di quelle che, se arrivano, hanno un effetto decisivo immancabile.

Giorgio ne prese una, la pesò nella palma della mano. «Fra cinque minuti potrei già essere morto. Demetrio ha lasciato il solco dove io dovrò coricarmi.» Per una trasposizione fantastica, vide sé stesso coricato su la coltre. Ma quel tarlo, quel tarlo! Egli ne udiva il rodìo chiaro e raccapricciante come se l'avesse dentro il cervello. Si accorse che proveniva dal legno del letto, il rodìo implacabile. Comprese tutta la tristezza dell'uomo che, prima di morire, ode stridere il tarlo sotto di sé. Contemplandosi nell'atto di far partire il colpo, provò in tutti i suoi nervi una tensione angosciosa e repulsiva. Accertando ch'egli poteva non uccidersi, ch'egli poteva indugiare, provò nella parte più profonda della sua sostanza un moto spontaneo di sollievo. Mille fili invisibili lo legavano ancóra alla vita. «Ippolita!»

Andò verso i balconi, verso la luce, quasi con impeto. Una lontananza di paese ampia turchiniccia e misteriosa dileguava alla vista, nel languore del giorno. Il sole s'inchinava su la montagna, aspergendola d'oro, dolcemente, come su un'amante supina che l'aspettasse. La Maiella, imbevuta di quel liquido oro, s'arrotondava nel cielo come l'arco d'un seno gonfio.

LIBRO TERZO

L'EREMO


I

Diceva la lettera d'Ippolita, con la data del 10 maggio: «Finalmente ho un'ora libera per poterti scrivere a lungo! Son dieci giorni che mio cognato va trascinando il suo dolore di albergo in albergo, intorno a questo lago; e noi due lo seguiamo come due anime in pena. Tu non imaginerai mai tutta la malinconia di questo pellegrinaggio. Io non ci reggo più. Aspetto la prima occasione opportuna e prendo congedo. Hai tu già trovato l'Eremo?» Diceva: «Le tue lettere aumentano le mie torture, indicibilmente. Io so il tuo male; indovino che soffri più di quanto puoi esprimere. Darei metà del sangue per giungere una volta a convincerti che io sono tua tua tua, sempre, fino alla morte. Penso a te, soltanto a te, di continuo, in ogni attimo della mia vita. Lontana da te, non trovo un minuto di benessere e di calma. Tutto m'infastidisce e mi irrita....Oh quando potrò starti vicina in tutte le ore del giorno, quando vivrò della tua vita! Tu mi vedrai un'altra. Sarò buona, tenera, dolce. Procurerò di essere sempre eguale, sempre discreta. Io ti dirò tutti i miei pensieri e tu mi dirai tutti i tuoi. Sarò la tua amante, la tua amica, la tua sorella; e, se mi crederai degna, anche la tua consigliera. Io ho una lucida intuizione delle cose; e questa intuizione l'ho sperimentata cento volte e non mi ha mai ingannata. Non mi curerò d'altro che di piacerti sempre, di non essere mai un peso nella tua vita. Tu non dovrai avere da me che dolcezza e riposo... Io ho molti difetti, amico mio. Ma tu mi aiuterai a superarli. Tu mi farai perfetta per te. Da te attendo il primo aiuto. Poi, quando sarò sicura di me stessa, ti dirò:—Ora sono degna; ora mi sento come tu mi vuoi.—E in te sarà anche l'orgoglio di sapere ch'io ti debbo tutto, che io sono in tutto una tua creatura; e ti parrà allora che io sia più intimamente tua; e mi amerai di più, sempre di più. Sarà una vita d'amore come non si è mai veduta....»

In un poscritto: «Ti mando un fiore di rododendro, còlto nel parco dell'Isola Madre.—Ieri, nella tasca di quell'abito grigio che tu conosci, trovai la nota del Grand Hôtel d'Europe à la Poste, la nota d'Albano, che ti chiesi per memoria. È datata: 9 aprile. Ci son segnate molte canestre di legna. Ricordi tu i nostri grandi fuochi d'amore?—Coraggio! Coraggio! La nuova felicità è prossima. Fra una settimana, al più fra dieci giorni, sarò dove tu vorrai. Con te, dovunque!»

II

E Giorgio Aurispa, assai poco credulo in fondo ma acceso da un sùbito ardore smanioso, tentò l'ultimo esperimento.

Da Guardiagrele partì pel litorale, alla ricerca. La campagna, il mare, il moto, l'attività fisica, la varietà dei casi nella esplorazione dei luoghi, la singolarità del suo stato, tutte le novità lo riscossero, lo risollevarono, gli diedero un'illusione di confidenza. Gli parve come d'escir salvo per miracolo dall'assalto d'una malattia letale, dopo aver veduta la faccia della morte. La vita ebbe per lui in quei primi giorni il sapore dolce e profondo che ha soltanto per il convalescente. Il sogno romantico d'Ippolita gli pendeva su l'anima.

«S'ella mi guarisse! Un amore sano e forte mi potrebbe guarire.» Egli evitava di guardarsi bene a dentro, sfuggiva al sarcasmo interiore che quei due epiteti movevano. «C'è su la terra una sola ebrezza durevole: la sicurtà nel possesso di un'altra creatura, la sicurtà assoluta, incrollabile. Io cerco questa ebrezza. Io vorrei poter dire:—la mia amante, vicina o lontana, non vive se non del pensiero di me; ella è sottomessa con gioia ad ogni mio desiderio, ha la mia volontà per unica legge; s'io cessassi d'amarla, ella morirebbe; spirando, ella non rimpiangerà se non il mio amore.» Egli persisteva ad agognare l'amore nelle forme del godimento, invece di rassegnarsi a gustarlo nelle forme del patimento. Egli dava al suo spirito un'attitudine irreparabile. Egli colpiva e difformava ancóra una volta la sua umanità.

Trovò l'Eremo a San Vito, nel paese delle ginestre, su l'Adriatico. Trovò l'Eremo ideale: una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii.

Era una casa d'una architettura primitiva. Una scala scoperta saliva a una loggia su cui si aprivano le quattro porte delle quattro uniche stanze. Ciascuna stanza aveva quella porta e una finestra dalla parte opposta, a riscontro, guardante su l'oliveto. Alla loggia superiore corrispondeva una loggia inferiore; ma le stanze terrene, tranne una, erano inservibili.

La casa confinava da un lato con un abituro basso dove stavano i contadini proprietarii. Due querci enormi, che la perseveranza del grecale aveva piegate verso il colle, ombreggiavano lo spiazzo, proteggevano certe mense di pietra adatte alle cene estive. Limitava lo spiazzo un parapetto anche di pietra, che superavano le robinie cariche di grappoli odorosi, delicate ed eleganti su lo sfondo del mare.

La casa non ad altro serviva che ad albergare forestieri nella stagione dei bagni, secondo l'industria comune del contado di San Vito, lungo la costa. Distava circa due miglia dal borgo, all'estremo confine d'una contrada detta delle Portelle, in una solitudine raccolta e benigna come un grembo. Ciascuno dei due promontorii era traforato; e si scorgevano dalla casa le aperture delle due gallerie. La strada ferrata correva dall'una all'altra, in prossimità del lido, per una lunghezza di cinque o sei cento metri, in linea retta. Dall'estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale.

L'ospite fuor di stagione fu accolto come una buona ventura, insperata, straordinaria.

Il capo della famiglia, un vecchio, disse:

—La casa è tua.

Ricusò di pattovire. Disse:

—Ci darai quel che vorrai, quando ti piacerà, se sarai contento.

Nel proferire le parole cordiali, egli guardava il forestiero con un occhio così penetrante che questi n'ebbe quasi un senso di fastidio e si stupì di tanta acuità. Il vecchio era monocolo. Calvo sul cranio, con due ciuffi leggeri di canizie su le tempie, con la barba rasa, egli teneva tutto il corpo in avanti su le gambe inarcate. Le sue membra erano deformate dalle rudi fatiche: dall'opera dell'arare che fa sorgere la spalla sinistra e torcere il busto, dall'opera del falciare che fa tenere le ginocchia discoste, dall'opera del potare che curva in due la persona, da tutte le opere lente e pazienti della coltivazione.

—Ci darai quel che vorrai.

Egli aveva già fiutato in quel giovine affabile, dall'aria un po' distratta e quasi smarrita, il signore generoso, inesperto, incurante del denaro. Sapeva che da quella generosità avrebbe ottenuto assai più che da qualunque richiesta.

Giorgio domandò:

—È un luogo tranquillo, senza traffico, senza rumori?

Il vecchio sorrise, indicando il mare.

—Ecco, sentirai quello solo.

Poi soggiunse:

—Anche, qualche volta, il telaio. Ma già, Candia ora non può più tessere.

Sorrise indicando su la soglia la nuora, che arrossì.

Era una femmina incinta, con un ventre già molto grosso, bionda, di carnagione chiara, sparsa di lentiggini. Aveva gli occhi grigi e larghi e nell'iride variegati come agate. Portava agli orecchi due grevi cerchi d'oro e sul petto la presentosa: una grande stella di filigrana con in mezzo due cuori.

Accanto a lei, su la soglia, stava una bambina di dieci anni, anche bionda, con un'espressione mite.

Quelle po',—disse il vecchio,—è 'na bardàsce che se pò vev'a nu bbecchjìere d'acque: quella poi è una bambina che si può bere in un bicchier d'acqua. Ecco, siamo noi tre e Albadora.

Rivolgendosi verso l'oliveto, si mise a chiamare:

—Albadò! Albadora!

E alla nipote:

—Dà tu una voce, Ènele.

Elena corse. Il vecchio esclamò:

—Ventidue figliuoli! M'ha partorito Albadora ventidue figliuoli! Sei maschi e sedici femmine. Mi son morti tre maschi e sette femmine. Nove femmine ho maritate. Un maschio s'è imbarcato per l'America; un altro s'è accasato a Tocco e lavora nelle miniere di petrolio; l'ultimo, il marito di Candia, lavora alla ferrovia; torna ogni quindici giorni. Siamo rimasti soli! Eh, signò, nu pàtre cámbe cènde fijje, e ccende fijje nen cámbe nu pàtre: eh, signore, un padre campa cento figli, e cento figli non càmpano un padre.

La Cibele settuagenaria apparve, portando nel grembo un mucchio di grosse chiocciole terrestri, un mucchio bavoso e molle da cui emergevano lunghi tentacoli. Ella era una femmina d'alta statura ma curva, macilenta, disfatta dalla fatica e dalla fecondità, sfiancata dai parti, con una piccola testa grinzosa come un pomo appassito, su un collo pieno di cavi e di corde. Le chiocciole nel suo grembo si agglomeravano, si avvoltolavano, si appiccicavano l'una su l'altra, verdastre, giallastre, biancastre, spumando, tingendosi d'iridi pallide. Una le strisciava sul dorso della mano.

Il vecchio le annunziò:

—Questo signore prende la casa, da oggi.

Ella esclamò:

—Sii benedetto!

E si avvicinò a Giorgio, con un'aria un po' melensa ma benigna, sbirciandolo con que' suoi occhi ritirati in fondo alle orbite, quasi spenti, che mostravano il segno rossiccio della palpebra inferiore rivolta. Soggiunse:

Arevá' Criste pe' lu munne: Cristo va di nuovo pel mondo. Sii benedetto! Pùezza cambà' quande dure lu pán'e lu vine: possa tu vivere quanto dura il pane e il vino! Pùozz'èsse aute quand'é lu sole: possa tu essere alto quanto il sole!

Ed ella rientrò, con un passo lieto, nella porta d'onde le erano usciti al battesimo ventidue figli.

Il vecchio disse a Giorgio:

—Io mi chiamo Cola di Cinzio; ma, come mio padre era soprannominato Sciampagna, tutti mi chiamano Cola di Sciampagna. Vieni a vedere l'orto.

Giorgio seguì l'agricoltore.

St'anne la cambágna dice: quest'anno la campagna promette.

Camminando innanzi, il vecchio lodava le verzure e faceva pronostici, per consuetudine di agricoltore invecchiato tra le cose della terra.

L'orto era opulento. Pareva contenere nella sua chiostra tutti i doni dell'Abondanza. Gli aranci versavano tali flutti di profumo che l'aria a intervalli assumeva un sapore dolce e possente come quel d'un vino prelibato. Gli altri alberi fruttiferi non avevano più fiori. Ma una genitura innumerevole pendeva dai rami materni, cullata dall'alito del cielo.

Giorgio pensò: «Forse, ecco la vita superiore: una libertà senza confini; una solitudine fertile e nobile che mi avvolga nelle sue emanazioni più calde; camminare tra le creature vegetali come tra una moltitudine di intelligenze: sorprenderne il pensiero occulto e indovinare il sentimento muto che regna sotto le scorze; rendere successivamente il mio essere conforme a ciascuno di quegli esseri e sostituire successivamente alla mia anima gracile e obliqua ciascuna di quelle anime semplici e forti; contemplare con tal continuità la natura da giungere a riprodurre in me solo il palpito concorde di tutto ciò che è creato; mutarmi infine, per una laboriosa metamorfosi ideale, nell'albero eretto che assorbe con le radici gli invisibili fermenti sotterranei ed imita con l'agitazione delle sue cime il verbo del mare. Non è questa forse una vita superiore?» Egli si lasciava sopravvincere da una specie di ebrietà pànica, al conspetto della esuberante primavera che transfigurava i luoghi intorno. Ma la funesta abitudine della contraddizione gli interruppe il gaudio, gli suggerì l'antico pensiero, gli oppose la realità al sogno. «Noi non abbiamo contatto con la natura. Noi non abbiamo se non la percezione imperfetta delle forme esterne. È impossibile all'uomo comunicare con le cose. L'uomo potrà infondere nelle apparenze create tutta la sua sostanza, ma non riceverà mai nulla in cambio. Il mare non gli dirà mai una parola intelligibile. La terra non gli svelerà mai il suo segreto. L'uomo potrà sentire tutto il suo sangue correre nelle fibre dell'albero, ma l'albero non gli darà mai una goccia della sua linfa vitale.»

Diceva il vecchio agricoltore monocolo, additando qualche prodigio di rigoglio:

Fa cchiù mmeràcule 'na stàlle de letáme, che 'na cchjìese de sánde: fa più miracoli una stalla di letame che una chiesa di santi.

Diceva, additando su i confini dell'orto un campo di fave fiorite:

La fàf é la spìje de l'annàte: la fava è la spia dell'annata.

Il campo ondeggiava appena appena. Le foglioline d'un color verde grigiastro agitavano le loro minute punte sotto i fiori bianchi o turchinicci. Ciascun fiore, simile a una bocca socchiusa, portava due macchie nere come due occhi. In taluno, non anche bene aperto, i petali superiori coprivano alquanto le macchie, come palpebre pallide su pupille che sogguardassero. Il tremolìo di tutti quei fiori occhiuti e boccuti aveva una strana espressione animale, attirante, indescrivibile.

Giorgio pensò: «Come sarà felice Ippolita, qui! Ella ha un gusto delicato e appassionato per tutte le bellezze umili della terra. Io ricordo i piccoli gridi di meraviglia e di piacere, ch'ella metteva scoprendo una pianta di forma a lei ignota, un fiore nuovo, una foglia, una bacca, un insetto singolari, un'ombra, un riflesso.» La imaginò, alta ed agile, in alcune attitudini di grazia tra il verde. Un'ansietà subitanea lo sconvolse, un'ansietà di ripossederla tutta quanta, di rioccuparla tutta quanta, di farsi da lei immensamente amare, di darle ad ogni attimo una nuova gioia. «I suoi occhi saranno sempre pieni di me. Tutti i suoi sensi rimarranno ottusi ad ogni altra sensazione che non le verrà da me. Le mie parole le parranno più dolci di qualunque suono.» D'un tratto, il potere dell'amore gli parve sconfinato. La sua vita interna ebbe un'accelerazione vertiginosa.

Salendo la scala dell'Eremo, egli credé che il cuore gli si rompesse all'urto dell'ansietà crescente. Come fu su la loggia, abbracciò lo spettacolo con uno sguardo ebro. Ed egli sentì, tra mezzo ad una agitazione profonda, che in quell'attimo veramente il Sole era dentro il suo cuore.

Il mare mosso da un tremolìo sempre eguale e continuo, rispecchiando la felicità diffusa del cielo pareva come frangerla in miriadi di sorrisi inestinguibili. A traverso il cristallo dell'aria tutte le lontananze apparivano distinte: la Penna del Vasto, il monte Gargano, le isole Trèmiti, a destra; la punta del Moro, la Nicchiòla, la punta di Ortona, a sinistra. Ortona biancheggiava come un'ignea città asiatica su un colle della Palestina, intagliata nell'azzurro, tutta in linee parallele, senza i minareti. Quella catena di promontorii e di golfi lunati dava imagine d'un proseguimento di offerte, poiché ciascun seno recava un tesoro cereale. Le ginestre spandevano per tutta la costa un manto aureo. Da ogni cespo saliva una nube densa di effluvio, come da un turibolo. L'aria respirata deliziava come un sorso di elisìre.

III

In quei primi giorni egli diede tutte le sue cure alla piccola casa che doveva accogliere nella grande pace la Vita Nuova; ed era aiutato nei preparativi da Cola di Sciampagna, il quale pareva esperto in ogni mestiere. Su una striscia d'intonaco fresco egli scrisse con la punta di una canna un vecchio motto suggerito dall'illusione:—parva domvs, magna qvies. E vide un buon presagio perfino in tre pianticelle di violacciocche, seminate dal vento negli interstizii di un davanzale.

Ma, quando tutto fu pronto e quell'ardore ingannevole decadde, egli ritrovò in fondo a sé stesso l'inquietudine e lo scontento e quella implacabile ansietà di cui non conosceva la cagione vera. Sentì in confuso ch'egli non aveva trovata la via della salute, la via piana e diritta: sentì in confuso che il suo fato l'aveva spinto ancóra una volta per un sentiero obliquo e mal sicuro. Gli parve che da un'altra casa, da un'altra gente arrivasse ora fino a lui una voce di richiamo e di rimprovero. Si ravvivava nella sua anima l'ambascia di un commiato senza lacrime e pure amarissimo, in cui egli aveva mentito per pudore leggendo negli stanchi occhi della madre delusa una domanda troppo triste: «Per chi mi abbandoni?»

Non gli venivano ora da quella muta domanda, e dal ricordo di quel rossore e di quella menzogna, l'inquietudine, lo scontento e l'ansietà mentre incominciava la vita nuova? E come avrebbe egli potuto soffocare quella voce? in quale ebrezza?

Egli non osava rispondere. Pur nel suo turbamento profondo, voleva ancóra credere alla promessa di colei ch'era per giungere; sperava di poter dare al suo amore un alto significato morale. Non aveva egli una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le sue forze, di sentirsi completo e armonioso? L'amore finalmente avrebbe operato il prodigio; nell'amore finalmente egli avrebbe ritrovata intera la sua umanità già difformata e menomata da tante miserie.

Egli cercava d'ingannare il rimorso con queste speranze e queste tendenze vaghe; ma lo dominava, davanti all'imagine della donna, il desiderio sensuale. E, contro ogni aspirazione platonica, egli non poteva considerare l'amore se non come opera di senso; egli non vedeva i giorni futuri se non come una successione di voluttà già conosciute. In quella solitudine benigna, in compagnia di quella donna appassionata, quale vita avrebbe egli potuto vivere se non una vita oziosa e voluttuosa?

E tutte le tristezze passate gli ritornarono nello spirito, e tutte le dolenti imagini:—il volto estenuato della madre, le palpebre di lei gonfie rosse arse dalle lacrime, il sorriso dolce e straziante di Cristina, il bimbo malaticcio dalla grossa testa sempre china sul petto quasi esanime, la maschera cadaverica della povera mentecatta ingorda...

E gli occhi stanchi della madre chiedevano: «Per chi mi abbandoni?»

IV

Era il pomeriggio. Egli esplorava il sentiero tortuoso che ora saliva ora scendeva andando verso la punta della Penna, lungo il mare. Guardava davanti a sé, intorno a sé, con una curiosità sempre vigile, quasi con uno sforzo d'attenzione, come se volesse comprendere un qualche oscuro pensiero espresso dalle semplici apparenze o impadronirsi d'un qualche inafferrabile segreto.

In un seno del colle litoraneo l'acqua d'un ruscello, derivata in una specie di esiguo acquedotto composto di tronchi scavati e sorretto da altri tronchi morti, attraversava la cavità dall'uno all'altro ciglio. Altri rigagnoli erano guidati da tegole concave nel terreno fertile ove prosperavano le verzure; e qua e là, su i rigagnoli luccicanti e mormoranti, certe piante di bei fiori violetti s'inchinavano con una grazia leggera. Tutte quelle cose umili parevano avere una vita profonda.

E l'acqua soverchia scorreva, discendeva per la china verso la spiaggia ghiaiosa; passava sotto un piccolo ponte. All'ombra dell'arco alcune donne lavavano le tele; e i loro gesti si vedevano riflessi nell'acqua come in uno specchio mobile. Su la ghiaia le tele erano spiegate al sole, candidissime. Lungo il binario camminava un uomo scalzo, portando le sue scarpe in mano penzoloni. Una donna esciva dalla casa del guardiano e gettava con un atto rapido qualche avanzo da un canestro. Due fanciulle, cariche di tele, correvano ridendo a gara. Una vecchia sospendeva a una canna una matassa tinta di turchino.

Andando, nella terra tagliata, che faceva da argine al sentiero, minute conchiglie biancheggiavano, esili radici agitate dall'aura palpitavano. Era ancóra visibile il segno della zappa che aveva tagliato la terra fulva. Da un dirupo pendeva un gruppo di radici morte, con una leggerezza di spoglie serpentine.

Più in là sorgeva una grande casa colonica portando alla sommità del tetto un fiore d'argilla. Una scala esterna saliva a una loggia coperta. Due donne in cima della scala filavano; e le rócche splendevano al sole come d'oro. S'udiva strepitare il telaio. Si scorgeva per una finestra una tessitrice, e il suo gesto ritmico nel lanciare le spole. Nell'aia contigua stava coricato un bove grigio, enorme; che scoteva le orecchie e la coda placidamente ma incessantemente contro gli insetti molesti. Le galline intorno razzolavano.

Poco oltre, un altro ruscello attraversava il cammino. Rideva: tutto crespo, ilare, vivido, limpido.

Poco oltre, presso un'altra casa, un orto folto di allori taceva recinto. I fusti sottili e diritti sorgevano immobili, coronati dalla fronda lucente. E uno di quegli allori, il più robusto, era tutto avviluppato da una gran vitalba amorosa che vinceva il fogliame severo con la mollezza dei suoi fiori nivei, con la freschezza del suo profumo nuziale. Sotto, la terra pareva smossa di fresco. Da un angolo una croce nera spandeva sul chiuso, nel silenzio, quasi la rassegnata tristezza che regna in un campo santo. In fondo alla viottola si scorgeva una scala, metà nel sole, metà nell'ombra, saliente a una porta socchiusa che proteggevano due rami d'ulivo benedetto sospesi su l'architrave rustico. Su l'ultimo gradino inferiore un vecchio seduto dormiva, a capo scoperto, col mento sul petto, con le mani posate su le ginocchia; e il sole stava per toccare la fronte venerabile. Giù per la porta socchiusa scendevano, a conciliare quel sonno senile, il rumore eguale d'una culla agitata, la cadenza eguale d'una cantilena sommessa.

Tutte quelle cose umili parevano avere una vita profonda.

V

Ippolita annunziò che sarebbe giunta a San Vito, secondo la promessa, il 20, martedì, col treno diretto, nella prima ora del pomeriggio.

Mancavano due giorni. L'amante le scrisse: «Vieni, vieni! Sono qui ad aspettarti; e mai aspettazione è stata più furiosa. Ogni minuto che passa è perduto irremissibilmente per la felicità. Vieni. Tutto è pronto. Ossia no, non è pronto nulla; fuor che il mio desiderio. Bisogna che tu ti provveda di pazienza e d'indulgenza inesauribili, o amica mia, perché ogni comodo della vita mancherà in questa solitudine selvaggia e impervia: oh quanto impervia! Figùrati, amica mia, che dalla stazione di San Vito all'Eremo c'è un cammino di circa tre quarti d'ora; e non è possibile percorrere altrimenti che a piedi il sentiero tagliato nell'arenaria a picco sul mare. Bisogna che tu venga con calzature molto solide e con ombrelli giganteschi. È inutile che tu porti molti vestiti. Basta qualche vestito gaio e resistente per le nostre gite mattutine. Non dimenticare l'abito da bagno...—Questa è l'ultima lettera ch'io ti scrivo. Tu l'avrai poche ore prima di partire. Te la scrivo dalla biblioteca, da una stanza dove sono ammonticchiati tutti i libri che non leggeremo. È un pomeriggio bianco, ove si spande l'interminabile monotonia del mare. È un'ora molle, discreta, propizia alle sensualità delicate. Oh, se tu fossi già qui!...—Stasera dormirò per la seconda volta nell'Eremo; dormirò solo. Se tu vedessi il letto! È un letto rustico, un monumentale altare d'Imeneo, largo quanto un'aia, profondo come il sonno del giusto. È il Talamo dei Talami. Le materasse contengono la lana d'un intero gregge e il pagliericcio contiene le foglie d'un intero campo di granturco. Possono avere tutte queste cose caste il presentimento della tua nudità!...—Addio, addio. Come sono lente le ore! Chi dice che il tempo ha le ali? Io non so che darei per addormentarmi in questa mollezza snervante e risvegliarmi all'alba di martedì. Ma non dormirò. Anch'io ho ucciso il sonno. Ho la visione continua della tua bocca... »

VI

Egli da alcuni giorni aveva continue visioni voluttuose. Gli appetiti si risvegliavano nel suo sangue con una straordinaria violenza. Bastava un soffio trepido, un profumo, un fruscìo, una qualunque mutazione dell'aria per alterargli tutto l'essere, per comunicargli un languore, per suscitargli al viso una fiamma, per accelerargli il battito dei polsi, per gittarlo in un turbamento quasi folle. La facoltà intensa ch'egli aveva, di evocare le imagini fisiche, gli aumentava l'orgasmo. La memoria delle sensazioni era in lui così vivace ed esatta che i suoi nervi ricevevano dal fantasma interno un impulso quasi pari di forza a quello già ricevuto dall'oggetto reale.

Egli portava nel suo organismo i germi ereditati dal padre. Egli, essere d'intelligenza e di sentimento, portava nella carne la fatale eredità di quell'essere bruto. Ma in lui l'istinto diveniva passione; la sensualità assumeva quasi le forme d'un morbo. Ed egli n'era appunto afflitto come d'un morbo vergognoso. Egli aveva orrore di quelle febbri che lo assalivano d'improvviso e lo ardevano miseramente e lo lasciavano avvilito, arido, debole di pensiero. Soffriva di certi suoi bassi impeti come d'una degradazione. Certi passaggi repentini di brutalità, come uragani su un cólto, gli devastavano lo spirito, gli chiudevano tutte le fonti interiori, gli aprivano solchi dolorosi che per lungo tempo egli non riesciva a colmare.

Nell'attimo in cui sopravveniva l'accesso, egli aveva la chiara percezione del sopravvenire d'un'altra personalità nel luogo della sua propria. Qualcuno, estraneo, penetrava in lui e s'impadroniva di tutta la sostanza, come un usurpatore irresistibile, contro il quale ogni difesa era vana. Ed egli era di continuo perseguitato dal fatale pensiero di questa vanità d'ogni suo sforzo.

Spirito contemplativo e sagace, essendosi messo assai presto in conspetto della sua propria vita, aveva compreso che qualunque allettamento esteriore era trascurabile al paragone del fascino emanato dagli abissi ch'egli in sé medesimo scrutava. Aveva incominciato per ciò assai presto a nutrire l'ambizione segreta che esalta e forvia tutti i veri uomini intellettuali, disdegnosi della vita comune, curiosi soltanto di conoscere le leggi che governano lo svolgersi delle passioni. Anch'egli, a similitudine di alcuni singolari artefici e filosofi contemporanei con i quali aveva comunicato, ambiva di comporsi un mondo interno dove poter vivere con metodo, in perpetuo equilibrio e in perpetua curiosità, indifferente ai tumulti e alle contingenze volgari.

Ma le mille fatalità ereditarie, ch'egli portava nel più profondo della sua sostanza come suggelli indelebili delle generazioni da cui discendeva, gli impedivano di avvicinarsi all'Ideale agognato dal suo intelletto; gli chiudevano ogni via di salute. I suoi nervi, il suo sangue, la sua midolla gli imponevano i loro bisogni oscuri.

L'organismo di Giorgio Aurispa si distingueva per uno sviluppo di sensibilità straordinario. Le fibre sensitive destinate a condurre verso il centro gli stimoli esterni avendo acquisita una eccitabilità che avanzava di gran lunga quella normale rappresentata dalle mediocri percezioni dell'uomo sano, avveniva che per eccesso si cangiassero quasi sempre in sensazioni dolorose anche le sensazioni più comunemente piacevoli. Avveniva inoltre che, dopo una serie di stati della conscienza dolorosi cagionati dall'eccitazione anòmala dei nervi, uno stato piacevole fosse ricevuto con ardore da tutto l'organismo e mantenuto quindi con una esagerata persistenza nell'esercizio che lo produceva. Lo sviluppo ereditario del centro preposto a ricevere gli stimoli che ricerca l'appetito sessuale, appunto, teneva tutto l'organismo sotto il predominio d'una tendenza particolare.

Un'altra singolarità organica di Giorgio Aurispa era la frequenza delle congestioni, di varia durata, nei plessi cerebrali. In lui, soggetto estremamente nervoso, i vasi sanguigni encefalici perdendo spesso la loro contrattilità, avveniva che un pensiero e un'imagine occupassero la conscienza per un tempo indefinito, ad onta di tutti gli sforzi fatti per cacciarli. Tali pensieri, tali imagini, dominanti contro ogni virtù della volontà, davano a qualche stato della conscienza la forma d'una follia temporanea parziale. Allora a qualunque moto molecolare anche leggerissimo corrispondeva la natività d'una idea o d'un gruppo d'idee così vive che potevano appena appena distinguersi dalle percezioni reali. Ed era un effetto simile a quello di certe sostanze che, come l'oppio e l'haschich, portano l'intensità dei sentimenti e delle idee al grado delle allucinazioni.

Così complessa, l'intelligenza di Giorgio Aurispa si distingueva per una incalcolabile abondanza di pensieri e d'imagini, per una rapidità fulminea nell'associare gli uni e le altre, per una facilità estrema nel construire stati nuovi della sensazione organica, stati nuovi del sentimento. Eccelleva nel metodo di far servire il noto a comporre l'ignoto.

Essendo per solito molto forte la pressione ed essendo i più alti plessi infinitamente intricati, l'onda nervosa potentissima invadendoli diffondevasi non soltanto nei canali più permeabili, ma anche in un gran numero di canali meno permeabili, in un gran numero di ramificazioni lontane; ciò è a dire: l'onda percorreva non soltanto le vie già battute dalle esperienze d'una serie di avi ma anche le vie di recente aperte dalle esperienze individuali e quelle fino allora chiuse. Così lungo i lidi un flutto più gagliardo non pure bagna quel lembo di sabbia già tocco dal flutto precedente ma l'oltrepassa e invade la sabbia vergine; e un terzo flutto, più gagliardo ancóra, oltrepassando le tracce del primo e del secondo, fa una conquista più larga.

Da una tal diffusione risultavano stati intellettuali amplissimi e complicatissimi: tanto più nuovi quanto più lungi dal centro era giunta l'energia della scarica. La conscienza diveniva un immenso fiume di pensieri. Un pensiero diveniva ardente come una passione e sconvolgeva l'anima aperta a ogni turbine. Un sentimento ideale si faceva distinto come un sentimento reale. Una relazione di sensazioni dava a un ricordo opaco un chiarore improvviso. Le più strane e le più rare complessità di associazioni davano alla facoltà imaginativa lunghe e meravigliose ebrezze.

Così materiato, Giorgio Aurispa non poteva né seguire un metodo né trovare un equilibrio. Non gli apparteneva il governo dei suoi pensieri, come non gli apparteneva il governo dei suoi istinti e dei suoi sentimenti. Egli era, nella vita, «simile a una nave che abbia spiegate tutte le vele nell'uragano».

E pure la sua sagacità, penetrando talvolta un po' più oltre delle apparenze per quanto è possibile alla sagacità umana, gli aveva composto della vita un concetto forse giusto.

Anzi tutto, egli aveva profondissimi il senso dell'isolamento e il senso della temporalità. Questi due sensi appunto concorrevano a formare il metodo di alcuni ideologi contemporanei ch'egli prediligeva. «Essendo vano ogni sforzo per escire dalla solitudine del proprio io, bisogna a poco a poco rompere tutti quei vincoli che ancóra ci legano alla vita comune ed evitare così l'inutile dispersione d'una quantità di energia preziosa. Ristretto per tal modo il cerchio della propria esistenza materiale, bisogna adoperarsi con tutte le forze a rendere, quanto più è possibile, vasto ed intenso il mondo interiore moltiplicandone all'infinito i fenomeni e conservandone l'equilibrio. Quando noi avremo conosciute e comprese tutte le leggi che governano i fenomeni, nessuna cosa della vita comune ci ferirà, ci turberà, ci stupirà. Noi vivremo in noi. Nessuno spettacolo più notevole, nessun piacere più durevole ci offre la terra.»

Ma l'anima di Giorgio Aurispa, invece, si affliggeva e si disperava del suo isolamento; e si dibatteva con mille furie cieche, come un prigioniero in un carcere chiuso per sempre, finché cadeva estenuata. E allora si raccoglieva, si restringeva, si ripiegava su sé stessa come una gracile foglia. Nel cerchio angusto le inquietudini sopravvivevano egualmente acri e fermentavano, cagionando una irritazione sorda e profonda, un malessere incomprensibile, una sofferenza continua, ostinata, sottile. D'improvviso, una calda inondazione di pensieri rompeva il cerchio e fecondava l'aridità. L'anima entrava in un nuovo stato, di pienezza espansiva, propizio ai sogni, agli errori, ai propositi. I vani sogni erano permanenti e i propositi sempre mutevoli; e la felicità era sempre lontana.

Quest'uomo intellettuale, chi sa per quale influsso di conscienze ataviche, non poteva rinunziare ai sogni romantici di felicità. Quest'uomo sagace, pur avendo la certezza che tutto è precario, non poteva sottrarsi al bisogno di cercare la felicità nel possesso di un'altra creatura. Egli sapeva bene che l'amore è la più grande fra le tristezze umane, perché è il supremo sforzo che l'uomo tenta per uscire dalla solitudine del suo essere interno: sforzo come tutti gli altri inutile. Ma egli tendeva all'amore con invincibile trasporto. Sapeva bene che l'amore, essendo un fenomeno, è la figura passeggera, è ciò che si trasforma perennemente. Ma egli aspirava alla perpetuità dell'amore, a un amore che riempisse una intera esistenza. Sapeva bene che la fragilità della donna è incurabile. Ma egli non poteva rinunziare alla speranza che la sua donna fosse costante e fedele sino alla morte.

Questo contrasto bizzarro fra la lucidità del pensiero e la cecità del sentimento, tra la debolezza della volontà e la forza degli istinti, tra la realtà e il sogno, produceva su lui disordini funesti. Il suo cervello, ingombrato da un ammasso di osservazioni psicologiche personali e apprese da altri analisti, spesso confondeva e scomponeva ogni cosa, fuori e dentro. L'abitudine letteraria dei soliloquii, ne' quali la considerazione mentale formulata esagera ed àltera lo stato dell'animo a cui si riferisce, spesso lo traeva in errore su la vera entità de' suoi mali e aggravava le sue sofferenze. Il miscuglio dei sentimenti ideali e reali lo metteva in condizioni così complicate e così irregolari ch'egli quasi vi smarriva l'istinto della sua umanità. Anch'egli pensava: «Noi siamo fatti della sostanza medesima di cui son fatti i nostri sogni.» E vedeva salire dai fondi del suo essere più occulti qualche cosa come un vapore, continua e vacua, a cui il soffio del caso dava indescrivibili forme.

Tutte le sue capacità essendo assorbite dai suoi mali, qualunque specie di lavoro gli era impossibile. Avendo acquistata molto per tempo la indipendenza materiale con l'ereditar la fortuna di Demetrio, egli non poteva conoscere le constrizioni della necessità, talvolta salutari. Quando con uno sforzo penoso di volontà egli alfine si costringeva al lavoro, dopo poco era assalito non dal tedio ma da un disgusto fisico, da una irritazione dei nervi così aspra che gli rendeva odioso perfino il luogo di studio e lo spingeva fuori della casa, su le vie e su le piazze, dovunque, lontano.

Avendo molte attitudini, egli rimaneva disutile e ozioso. Non altro faceva se non nutrirsi voluttuosamente di musica e di letture, convinto della propria inutilità. A forza di sarcasmi interiori distruggeva ogni proposito. Avendo incominciato a dubitare di sé medesimo, a poco a poco era giunto a dubitare di tutto. Avendo incominciato a soffrire in sé medesimo, a poco a poco era giunto a soffrire in tutto. Egli si sentiva schiacciare dalla universale stupidezza; e lo spettacolo della folla gli moveva il fiele.

Talvolta, dopo una qualche accelerazione straordinaria della sua vita passionale, egli cadeva in una specie di paralisia psichica il cui sintomo primo era una incuranza profonda di ogni cosa, una indifferenza peggiore della più acuta sensibilità; che durava molti giorni, intere settimane. Talvolta, un pensiero l'occupava, unico, assiduo: il pensiero della morte. E allora tutte le impressioni passavano sul suo spirito come gocce d'acqua su una lastra rovente, o rimbalzando o dissolvendosi.

Era il caro e terribile pensiero dominante, il pensiero della morte. Pareva che Demetrio Aurispa, il dolce suicida, chiamasse l'erede. E l'erede era consapevole della fatalità ch'egli portava nell'intimo della sua sostanza. Il presentimento gli dava talvolta un orrore istintivo ch'era prossimo a uno stato di follia; ma più spesso gli produceva una tristezza pacata, mista d'una pietà di sé, d'una specie di voluttà della compassione: una misteriosa tristezza in cui egli s'indugiava.

Ora, dopo l'ultima crisi da cui era uscito a gran pena salvo, egli pativa un ricorso di illusioni sentimentali. Avendo potuto sfuggire al fascino della morte, egli guardava la vita con occhi un po' velati. Mentre appunto la ripugnanza a guardar bene in faccia la realtà e ad affrontare la vita vera lo aveva ridotto su l'orlo del sepolcro, egli ora traeva da un'illusione un barlume di confidenza nell'avvenire. «C'è su la terra una sola ebrezza durevole:—la sicurtà assoluta nel possesso di un'altra creatura. Io cerco questa ebrezza.» Egli cercava l'introvabile. Penetrato dal dubbio fin nelle più intime fibre, egli voleva acquistare la cosa più contraria alla sua natura: la sicurtà; la sicurtà nell'amore! Ma non l'aveva egli veduta distruggersi tante volte sotto l'assidua corrosione delle analisi? Non l'aveva forse in due lunghi anni cercata in vano?

Egli doveva così volere.

VII

All'alba del gran giorno, destandosi dopo alcune ore d'un dormiveglia inquieto, Giorgio Aurispa pensò, con un orgasmo di tutti i suoi nervi: «Oggi ella verrà! Oggi, nella luce di oggi io la vedrò. Io la terrò fra le mie braccia, su questo letto. Mi pare quasi che io la possederò oggi per la prima volta; mi pare che io ne debba morire.» La visione dell'amplesso gli diede un urto così violento che il corpo fu attraversato per tutta la sua lunghezza da un sussulto simile a quello prodotto da una scarica di elettricità. Avveniva in lui quel terribile fenomeno fisico delle cui tirannie egli era vittima senza difesa. Tutta la sua conscienza era sotto il dominio assoluto del desiderio; poiché tutte le ripercussioni che invadevano i suoi nervi, di attimo in attimo, valevano a muovere quel punto del centro cerebrale che il periodo di riposo anteriore aveva portato a un grado estremo d'instabilità molecolare. La libidine ereditaria scoppiava ancóra una volta, con invincibile furia, in quel delicato amante che si piaceva di chiamar sorella la sua amata, avido di comunioni spirituali.

Egli considerò a una a una, mentalmente, le nudità della sua amata. Ciascuna forma, vista a traverso la fiamma della brama, assumeva uno splendore specioso, chimerico, quasi sovrumano. Egli considerò a una a una, mentalmente, le carezze della sua amata. Ciascuna attitudine assumeva un fascino voluttuoso d'una intensità quasi inconcepibile. In lei tutto era luce, aroma, ritmo.

La stupenda creatura, egli, ben egli la possedeva, egli solo! Ma un pensiero di gelosia gli nacque spontaneo dal desiderio, come un fumo da un fuoco torbido. Poiché cresceva l'orgasmo, per distrarre lo spasimo balzò dal letto.

Alla finestra, nell'alba, i rami dell'ulivo ondeggiavano appena appena, pallidi, tra grigi e bianchi. Su la fioca monotonia del mare le passere mettevano un cinguettio ancóra discreto, un agnello dal chiuso metteva un belato timido.

Quando egli uscì su la loggia, rinfrancato dalla virtù tonica del bagno, bevve a larghi sorsi l'aria del mattino sapida di mille effluvii. I polmoni gli si dilatarono; i pensieri gli si sollevarono, agili, ciascuno portando l'imagine dell'aspettata; un risentimento di giovinezza gli scosse i precordii.

D'innanzi, era la natività del sole, pura, semplice, senza pompa di nuvoli, senza mistero. Da un mare quasi niveo sorgeva una faccia vermiglia, con un contorno schietto, quasi tagliente, come quel d'un disco metallico escito da una fucina.

Cola di Sciampagna, ch'era intento a nettare lo spiazzo, esclamò:

—Oggi è festa grande. Viene la signora. Uojje lu grane se pàrte da la tèrre; n'aspette l'Ascènze: oggi il grano spiga; non aspetta l'Ascensione.

Giorgio domandò, sorridendo al gentile motto del vecchio:

—Avete pensato alle donne, per cogliere il fiore delle ginestre? Bisogna giuncare tutta la via.

Il vecchio fece un gesto d'insofferenza, come per significare di non aver bisogno d'ammonimento.

—Cinque ne ho chiamate!

E, nominandole, indicava i luoghi ove le fanciulle avevano la casa.

La fijje de la Scimmie, la fijje de lu Sguaste, Favette, Sblendore, la fijje de lu Jarbine: la figlia della Scimmia, la figlia dello Sguasto, Favetta, Splendore, la figlia del Garbino.

Udendo i nomi, Giorgio provò una sùbita allegrezza. Gli parve che tutti gli spiriti della primavera entrassero nel suo cuore. Un'onda fresca di poesia lo invase. Uscivano dalle favole quelle verginelle per giuncar la via alla Bella Romana?

Egli si abbandonò al godimento ansioso che gli offrivano le ore dell'aspettazione. Discese. Chiese:

—Dove saranno, a cogliere?

—Lassù—rispose Cola di Sciampagna, indicando il poggio—a le Cerquètte: alle Quercette. Le troverai al cantare.

Veniva infatti, ora sì ora no, un canto feminile dal poggio. Giorgio si mise per l'erta, in cerca delle maggiaiuole. La viottola tortuosa girava in una macchia di giovani querci. A un certo punto si diramava in una quantità d'altre viottole, di cui non si scorgeva la fine. Tutti quei solchi angusti, scavati tra i massi, attraversati da radici innumerevoli a fior di terra, componevano una sorta di laberinto alpestre dove le passere cinguettavano, dove i merli chioccolavano. Giorgio non si smarriva, seguendo la duplice traccia del canto e del profumo. Trovò il ginestreto.

Era un pianòro dove le ginestre fiorivano con tal densità da formare alla vista un sol manto giallo, d'un colore sulfureo, splendidissimo. Le cinque fanciulle coglievano il fiore per riempirne le ceste, e cantavano. Cantavano un canto spiegato, con accordi di terza e di quinta perfetti. Quando giungevano ad una cadenza, sollevavano la persona di sul cespuglio perché la nota sgorgasse più libera dal petto aperto; e tenevano la nota, a lungo, a lungo, guardandosi negli occhi, protendendo le mani piene di fiori.

Come videro il forestiero, s'interruppero, si chinarono fra i cespugli. Risa mal frenate corsero per quel giallo. Giorgio domandò:

—Chi è di voi Favetta?

Una fanciulla, bruna come un'oliva, si levò a rispondere, attonita, quasi sbigottita:

—Sono io, signore.

—Non sei tu la prima cantatrice di San Vito?

—No, signore. Non è vero.

—È vero, è vero—esclamarono le compagne.—Signore, falla cantare.

—Non è vero, signore. Io non so cantare.

Ella si schermiva, ridendo, tutt'accesa nel volto; e torceva il grembiule, mentre le compagne la incitavano. Era di piccola statura; ma aveva le forme gagliarde, il petto largo e florido, esercitato dalle canzoni. Aveva i capelli crespi, le sopracciglia folte, il naso aquilino; certe arie della testa un po' selvagge.

Dopo le prime riluttanze, consentì. Le compagne, allacciandosi per le braccia, la strinsero in un loro cerchio. Emergevano, dalla cintola in su, fuor de' cespi fioriti, mentre d'intorno ronzavano le api diligenti.

Favetta intonò, sul principio mal sicura, ma di nota in nota rassicurandosi. La sua voce era limpida, fluida, cristallina come una polla. Cantava un distico; e le compagne cantavano in coro un ritornello. Prolungavano la cadenza, concordi, riavvicinando le bocche per formare un sol flutto vocale; che si svolgeva nella luce con la lentezza delle cadenze liturgiche.

Favetta diceva: «Tutte le fontane sono secche. Povero Amor mio! Muore di sete.—O Amore, ho sete, ho sete. Dov'è l'acqua che m'hai portata?—Ti ho portata una giara di creta, incatenata con una catena d'oro.» Le compagne dicevano: «Viva l'amore!»

Tutte le funtanelle se sò sseccàte.

Pover'Amore mi'! More de séte.

    Tromma larì lirà llarì llallerà

    Tromma larì, lirà, vvivà ll'amóre!

 

Amóre mi té' sét'e mmi té' sète.

Dovèlle l'acque che mme si purtàte?

    Tromma larì lirà...

 

T'àjje purtàte 'na ggiàrre de créte,

Nghe ddu' catène d'óre 'ngatenate.

    Tromma larì lirà...

Quella salutazione di maggio all'amore, sgorgante da quei petti che forse non ne conoscevano ancóra e non ne avrebbero forse mai conosciuta la vera tristezza, sonò a Giorgio come un augurio. Le donne, i fiori, il bosco, il mare, tutte quelle cose libere e inconsapevoli che respiravano la voluttà della vita intorno a lui, gli blandivano la superficie dell'anima; gli ammorzavano, gli sopivano il sentimento abituale ch'egli aveva del proprio essere; gli davano un sentimento progressivo, armonico, quasi ritmico d'una facoltà nuova che gli si svolgesse a poco a poco dall'intimo della sostanza e gli si rivelasse in una maniera assai vaga, come in una specie di vision confusa d'un segreto divino.

Fu un incanto fuggevole, uno stato della conscienza così insolito e incomprensibile ch'egli non poté neppure trattenerne il fantasma. Le cantatrici gli mostravano le ceste colme della raccolta, una massa di fiori umida di rugiada. Favetta gli domandò:

—Basta?

—No, non basta. Bisogna tornare a cogliere. Bisogna giuncare tutta la via dal Trabocco alla casa. Bisogna coprire la scala, la loggia...

E pe' l'Ascènze? Nen vuò lassà manghe nu fiore Jèse Criste? E per l'Ascensione? Non vuoi lasciare neppure un fiore a Gesù Cristo?

VIII

Ella era giunta. Ella era passata su i fiori, come la Madonna che va a compiere il miracolo; era passata su un tappeto di fiori. Ella era giunta, alfine; aveva alfine varcata la soglia!

Ora, stanca e felice, offriva alle labbra dell'amante la faccia tutta bagnata di lacrime, senza parlare, con un atto d'ineffabile abbandono. Stanca e felice, piangeva e sorrideva sotto i baci innumerevoli dell'adorato.—Che divenivano tutti i ricordi del tempo in cui egli non era? Che divenivano le sciagure, le angustie, le inquietudini, le lotte affannose contro la inesorabile brutalità della vita? Che divenivano tutti gli sconforti e tutte le disperazioni al confronto di quella suprema dolcezza? Ella viveva, ella respirava tra le braccia dell'amante, ella si sentiva immensamente amata. Non altro sapeva che d'essere immensamente amata. Tutto il resto si dileguava, rientrava nella inesistenza, pareva che non fosse stato mai.

—Oh Ippolita, Ippolita! Oh anima mia! Come, come ti desideravo! Tu sei venuta. Ora non mi lascerai più, per molti giorni, per molti giorni; è vero? Prima di lasciarmi, tu mi farai morire...

Egli la baciava su la bocca, su le gote, sul collo, su gli occhi, insaziabile, provando un profondo brivido ogni volta che incontrava una lacrima tiepida e salsa. Quel pianto, quel sorriso, quell'espressione di felicità su quel volto abbattuto dalla stanchezza, il pensiero che quella donna non aveva esitato un attimo a consentire, il pensiero che gli era venuta di lontano con un viaggio estenuante e che ora gli piangeva sotto i baci senza poter parlare per la piena interna, tutte quelle cose appassionate e soavi affinavano le sue sensazioni, toglievano al suo desiderio l'impurità, gli davano un sentimento d'amore quasi casto, gli esaltavano l'anima. Egli le disse togliendole il lungo spillo che fermava il cappello e il velo:

—Devi essere tanto stanca, povera Ippolita! Sei pallida pallida.

Ella aveva il velo rialzato su la fronte, aveva ancóra il mantello da viaggio, aveva ancóra i guanti. Egli le tolse il velo e il cappello, con un atto che gli era familiare. Apparve libera la bella testa bruna, che i capelli semplici coprivano a guisa d'un casco aderente senza turbare la linea svelta ed elegante dell'occipite, senza nascondere la nuca.

Di nuovo Giorgio la coperse di baci; le cercò sul collo, sotto l'orecchio sinistro, i gemelli, i due nèi, i due vivi acini d'oro. Ella portava un collaretto di pizzo bianco e un piccolo nastro di velluto nero che tagliava con squisita violenza il pallore della cute. Dall'apertura del mantello appariva l'abito di panno a minutissime righe bianche e nere che formavano un color grigio: l'abito di Albano, memorabile. Ella emanava un odore fievole di violette, l'odore noto.

Le labbra di Giorgio divenivano più ardenti e, com'ella soleva dire, voraci7. Egli s'interruppe; le tolse il mantello; l'aiutò a togliersi i guanti; le prese le mani nude per premersele alle tempie, smanioso d'essere accarezzato. Ella, tenendolo così alle tempie, lo trasse a sé, lo avviluppò in una lunga carezza, gli percorse tutta la faccia con la bocca che strisciava languida e calda in un bacio molteplice. Giorgio riconosceva la divina, la incomparabile bocca, quella bocca che tante volte egli aveva creduto sentire quasi appoggiata su la superficie dell'anima, come per un gaudio che oltrepassasse la sensibilità carnale e si comunicasse a un elemento oltrasensibile dell'essere interno.

—Tu mi farai morire—egli mormorò, vibrando come un fascio di corde, provando alla radice dei capelli un freddo acuto che gli si propagava di vertebra in vertebra per la midolla. Ed avvertì in fondo a sé un vago moto istintivo di terrore, già avvertito altra volta.

Ippolita disse, distaccandosi:

—Ora, addio. Dov'è... la mia stanza? Oh, Giorgio, come staremo bene qui!

Ella si guardava intorno, sorridendo. Fece alcuni passi verso la soglia; si chinò a raccogliere un pugno di ginestre; ne aspirò il profumo con delizia visibile. Ella si sentiva ancóra tutta commossa, quasi ebra, di quell'omaggio sovrano, di quella fresca e gentile gloria diffusa sul suo cammino.—Non sognava? Ella era, ella proprio, Ippolita Sanzio, in quel luogo ignoto, in quel paese magico, circondata e glorificata da tutta quella poesia?—Disse d'improvviso, con nuove lacrime negli occhi, gittando le braccia al collo dell'amante:

—Come ti sono grata!

Di nulla il cuore di lei s'inebriava più che di quella poesia. Ella si sentiva sollevare fuor del proprio essere umile dall'idealità di cui l'avvolgeva l'amante; si sentiva vivere d'un'altra vita, d'una vita superiore che talvolta le dava all'anima quella specie di soffocazione che l'ossigeno soverchio provoca in un petto abituato a respirare un'aria impoverita.

—Come sono fiera di appartenerti! Tu sei il mio orgoglio. Basta ch'io stia accanto a te un minuto solo per sentirmi un'altra donna, infinitamente diversa. D'un tratto, tu mi comunichi un altro sangue e un altro spirito. Io non sono più Ippolita, quella di ieri. Chiamami con un altro nome.

Egli la chiamò:

—Anima!

Si strinsero; si baciarono con forza, come per isvellere dalle radici i baci che si schiudevano su le loro labbra. Ippolita ripeté, distaccandosi:

—Ora, addio. Dov'è la mia stanza? Vediamo...

Giorgio, cingendole il busto con un braccio, la condusse nella stanza del letto, contigua. Ella levò un'esclamazione di meraviglia vedendo il «Talamo dei Talami», ammantato d'una gran coperta nuziale di damasco giallo.

—Ma qui ci smarriremo...

Ella rideva, facendo il giro del monumento.

—La difficoltà più grave sarà nel salire.

—Tu metterai prima il piede sul mio ginocchio, all'uso antico del paese.

—Quanti santi!—ella esclamò, guardando su la parete, a capo del letto, la lunga fila delle imagini sacre.

—Bisognerà velarli.

—Già; è vero...

Ambedue trovavano a stento le parole; ambedue avevano la voce un poco alterata; ambedue tremavano, scossi da un desiderio irresistibile, sentendosi quasi mancare al pensiero della prossima voluttà. Udirono qualcuno battere al cancello della scala. Giorgio uscì su la loggia.

Era Elena, la figlia di Candia. Veniva ad annunziare la colazione pronta.

—Che vuoi fare?—domandò Giorgio, volgendosi a Ippolita, irresoluto, quasi convulso.

—Veramente, Giorgio, io non ho fame; non ho nessuna voglia di mangiare. Pranzerò, verso sera, se ti piace...

Ambedue avevano il pensiero medesimo; ambedue sapevano che oramai qualunque altra cosa era impossibile.

Giorgio disse con una specie di furia:

—Vieni nella tua stanza. Troverai tutto pronto per il tuo bagno. Vieni.

E la condusse in una stanza ch'egli aveva intieramente tappezzata di larghe stuoie rustiche.

—Vedi, i tuoi bauli e le tue valigie sono già qui. Addio. Non t'indugiare. Pensa che io ti aspetto. Ogni minuto di più sarà una tortura di più. Pensaci.

Egli la lasciò sola. Gli giunse, dopo qualche tempo, lo scroscio dell'acqua che grondava dalla spugna enorme ricadendo nella tinozza. Egli conosceva il gelo di quell'acqua sorgiva; ed imaginava i sussulti del corpo d'Ippolita lungo ed agile sotto l'onda refrigerante. Di nuovo, egli non era capace d'altro pensiero che non fosse di fiamma. Tutto intorno a lui scompariva. Egli non aveva più altra percezione che di quel romore d'acqua su la nudità agognata. E quando gli scrosci cessarono, egli fu preso da un tremito così fiero che incominciò a battere i denti come nel ribrezzo di una febbre micidiale. Vedeva con i terribili occhi del desiderio la donna disvilupparsi dall'accappatoio già asciutta e monda e tutta delicata come un alabastro color d'oro.

—Ippolita, Ippolita—egli gridò, perdutamente—vieni così! Vieni! Vieni!

IX

Ora, più stanca, quasi esanime, dopo le furiose carezze, Ippolita si lasciava prendere a poco a poco dal sonno. A poco a poco su la sua bocca il sorriso divenne inconscio; poi disparve. Le labbra un istante si ricongiunsero; poi con infinita lentezza si riaprirono e dal fondo sorse un candore di gelsomini. Di nuovo, le labbra un istante si ricongiunsero; e ancóra, lentamente, lentamente, le labbra si dischiusero: risorse dal fondo il candore, inumidito.

Giorgio, sollevato sul gomito, la guardava. La vedeva bella bella bella, somigliante alla donna ch'egli aveva veduta la prima volta nell'Oratorio segreto, innanzi l'orchestra del filosofo Alessandro Memmi, tra il profumo vanito dell'incenso e delle violette. Era pallida pallida, come allora.

Era pallida ma di quella singolare pallidezza che Giorgio non aveva ritrovata in nessuna altra donna mai: d'una pallidezza quasi mortale, profonda, cupa, che un poco pendeva nel livido quando s'empiva di ombra. Una lunga ombra segnavano i cigli in sommo delle gote; un'ombra virile, a pena visibile, velava il labbro superiore. La bocca, piuttosto grande, aveva una linea sinuosa, assai molle ma pur triste, intensamente espressiva nel silenzio perfetto.

«Come la sua bellezza si spiritualizza nella malattia e nel languore!» pensava Giorgio. «Così affranta, mi piace di più. Io riconosco la donna sconosciuta che mi passò d'innanzi in quella sera di febbraio: la donna che non aveva una goccia di sangue. Io penso che morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua bellezza. Morta!—E s'ella morisse? Ella diventerebbe materia di pensiero, una pura idealità. Io l'amerei oltre la vita, senza gelosia, con un dolore pacato ed eguale.»

Si ricordò che già qualche altra volta egli l'aveva imaginata bella nella pace della morte.—Ah, quella volta delle rose! Nei vasi languivano larghi mazzi di rose bianche: in un giugno, nel principio degli amori. Ella s'era assopita sul divano, immobile, quasi senza respiro. Egli l'aveva contemplata a lungo. Poi, per una improvvisa fantasia, l'aveva coperta di rose, piano piano, cercando di non destarla; le aveva composto su i capelli alcune rose. Ma così infiorata, inghirlandata, ella gli era parsa un corpo esanime, un cadavere. Atterrito dalla parvenza, egli l'aveva scossa per destarla; ed ella era rimasta inerte, tenuta da una di quelle sincopi a cui in quel tempo andava soggetta. Ah il terrore e l'ansia, prima ch'ella avesse ricuperati i sensi, e misto al terrore l'entusiasmo per la sovrana bellezza di quel volto straordinariamente annobilito da quel riflesso di morte!—Egli si risovvenne dell'episodio; ma poiché si indugiava nei pensieri strani, fu preso da un subitaneo moto di rimorso e di pietà. Si chinò a baciare la fronte della dormiente; che non s'accorse del bacio. A stento allora egli si trattenne dal baciarla più forte su la bocca perch'ella se n'accorgesse e rispondesse. Allora sentì tutta la vanità d'una carezza che non fosse per l'oggetto amato una rapida comunicazione di gaudio; sentì tutta la vanità di un amore che non fosse una continua immediata corrispondenza di sensazioni acute. Sentì allora l'impossibilità d'inebriarsi senza che alla sua ebrezza corrispondesse una ebrezza d'intensità eguale.

«Proprio» egli pensò «proprio, tutte le volte che io ho goduto di lei ella ha goduto di me? Quante volte ella ha assistito, con occhi lucidi, alle mie demenze? Quante volte le è parso incomprensibile il mio ardore?» Un flutto grave d'inquietudini l'inondò, in conspetto della dormiente. «Anche la vera profonda comunione sensuale è una chimera. I sensi della mia amante sono oscuri come la sua anima. Io non potrò mai sorprendere nelle sue fibre un disgusto segreto, un appetito mal soddisfatto, una irritazione non placata. Io non potrò mai conoscere le sensazioni diverse che una medesima carezza le dà ripetuta in momenti diversi. La sua sensualità è variabile, poiché ella è isterica; e il suo isterismo ha raggiunto, in altri tempi, il sommo dell'acuzie. Un organismo infermo come il suo passa, nel corso d'un sol giorno, per una gran quantità di stati fisici tra loro discordi e talvolta anche interamente opposti. Qualunque più sagace intuizione si confonde innanzi a una tale instabilità. Quella carezza che all'alba l'ha fatta gemere di delizia, quella carezza medesima può più tardi esserle importuna. I suoi nervi dunque possono diventarmi ostili, contro ogni sua volontà. Sotto un mio bacio troppo prolungato, dal quale io tragga il supremo dei gaudii, può levarsi nella carne di lei una insofferenza. Ma la simulazione e la dissimulazione, in materia di sensi, sono comuni a tutte le donne che amano e che non amano. La donna, anzi, che ama, la donna appassionata è più inchina a simulare e a dissimulare, fisicamente, poiché teme di affliggere l'amato mostrandosi di non parteggiarne il gaudio, di essere poco sensibile alle carezze, poco disposta ad abbandonarglisi intera. Inoltre, la donna appassionata si compiace spesso di esagerare la mimica della voluttà, poiché sa appunto di aumentare così l'ebrezza dell'uomo, adulandone l'orgoglio virile. Infatti, una inesprimibile gioia orgogliosa mi gonfia il cuore quando io vedo costei languire e delirare nell'accesso del gaudio ch'io posso darle. Ella è felice (io sento) di mostrarsi così vinta e oppressa dal mio potere; ed ella anche sa che la mia vana ambizione di amante giovine sta appunto nel giungere a farle chieder tregua, a strapparle un grido di spasimo, a ridurla quasi esanime sul guanciale. Quanto dunque ne' suoi segni v'è di sincerità fisica e quanto di esagerazione appassionata? Se il suo ardore fosse un'abitudine tutta esterna per piacermi? S'ella molte volte si sacrificasse al mio desiderio, senza desiderarmi? S'ella qualche volta dovesse soffocare un principio di disgusto?—La preoccupazione di piacermi, di soddisfarmi, di piegarsi volentieri ad ogni mio capriccio, è in lei palese. In questi due anni d'amore, ella è giunta a poco a poco a limitare la mia attività materiale nelle cose dei sensi; è giunta ad acquistare quasi il privilegio delle carezze. Ella par felice quando può da sola in me inerte provocare una voluttà intensa. A poco a poco, infatti, ella mi ha effeminato. Ella si compiace di impormi la sua opera voluttuosa. È come una rivincita ch'ella si prende su la sua inesperienza dei primi mesi. Conoscendo tutte le predilezioni del suo maestro, ella par felice di coltivarle e di appagarle. Ma le mie predilezioni sono le sue? Quale ripercussione ha il mio brivido profondo nella compiacenza di lei? Ella par felice; si confessa felicissima. Un giorno mi confessò che a qualunque più acuta voluttà diretta ella preferisce quella riflessa, indefinibile, che le viene dall'accorgersi di aver suscitato per sola virtù sua in me inerte un brivido di supremo godimento. Fu sincera? Sì, io credo, ella fu sincera. Questa continua smania di abnegazione, questa soppressione quasi continua dell'egoismo non sono forse i più alti e i più singolari fenomeni del suo amore? Ella è una preziosa amante; è la mia creatura

Il suo pensiero tortuoso lo ricondusse alla contemplazione quieta della bellezza, del possesso; lo ricondusse alla considerazione del nuovo stato.—Da quel giorno di maggio incominciava dunque una vita nuova.

Per un minuto egli intese l'orecchio e l'animo a raccogliere la gran pace del luogo. Non si udiva se non la piana monotonia della bonaccia, in un silenzio favorevole. Ai vetri della finestra i rami dell'ulivo ondeggiavano appena appena, argentei nel sole, movendo ombre leggerissime su le cortine bianche di bucato. Giungeva di tratto in tratto, rara, qualche voce umana inintelligibile.

Di nuovo, dopo la percezione della calma circostante, egli si rivolse a riguardare l'adorata. Una concordia palese era tra il respiro di lei e il respiro del mare. La rispondenza dei due ritmi diede un fascino di più alla dormiente.

Giorgio sollevò il lembo delle coperte per vederla tutta intera, dal capo ai piedi.

Ella posava il fianco destro sul lenzuolo, in un'attitudine composta. La sua forma era snella e lunga, d'una lunghezza forse soverchia ma piena di serpentine eleganze. L'esiguità dell'anca la faceva somigliare un giovinetto. Il ventre sterile aveva conservata la primitiva purità virginale. Il seno era piccolo e rigido, come scolpito in un alabastro delicatissimo, soffuso d'una tinta tra rosea e violacea su le punte straordinariamente erèttili. Tutta la parte posteriore del corpo, dalla nuca al pòplite, richiamava di nuovo la similitudine del giovinetto; era uno di quei frammenti dell'ideal tipo umano, che la Natura qualche volta getta per caso tra le innumerevoli impronte mediocri nelle quali si perpetua la specie. Ma la più preziosa singolarità di quel corpo sembrava a Giorgio il colorito. La pelle aveva un colorito indescrivibile, rarissimo, assai lontano da quello usuale delle donne brune. L'imagine dell'alabastro, che a un lume interno s'indori, bastava a rendere soltanto una minima parte della divina finezza. Pareva che una soffusione d'oro e d'ambra impalpabili arricchisse il tessuto variandolo d'una varietà di pallori, armoniosa come una musica, divenendo più cupa nel solco delle reni e là dove le reni s'insertavano ai lombi, divenendo più chiara sul seno e su gli inguini là dove risedeva la suprema soavità dell'epidermide. I nèi sparsi qua e là, simili a granelli fulvi, parevano ancor meglio affinare il pregio di quel tesoro tangibile a cui Giorgio Aurispa aveva consacrato tutte le sottilità del più intellettuale fra i cinque sensi umani.

Giorgio ripensò il detto di Othello: «Vorrei più tosto essere un rospo e nutrirmi dei vapori d'un antro buio, che lasciare nella creatura ch'io amo un punto per uso d'altri!»

Ippolita si mosse, nel sonno, con un'aria vaga di sofferenza che sùbito disparve. Ella arrovesciò indietro il capo, sul guanciale, mostrando la gola tesa ove si disegnavano lievi le arterie. Aveva la mandibola inferiore un poco risentita, il mento un poco lungo di profilo, le narici larghe. Nello scorcio i difetti di quella testa emersero; ma non dispiacquero a Giorgio, poiché egli non avrebbe potuto imaginarli corretti senza togliere alla fisonomia un vivace elemento di espressione. L'espressione, questa cosa immateriale che s'irraggia nella materia, questa forza mutabile e incalcolabile che invade la maschera corporea e la transfigura, quest'anima esterna significativa che sovrappone alla precisa realtà delle linee una bellezza simbolica d'un ordine assai più alto e più complesso, l'espressione era il gran fascino d'Ippolita Sanzio, essendo un motivo perpetuo di affetti e di sogni pel passionato pensatore.

«Una tale donna» egli pensava «è stata d'altri prima che mia! Ha giaciuto con un altro uomo; ha dormito con un altro uomo nel medesimo letto, sul medesimo guanciale. In tutte le donne è singolarmente viva una specie di memoria fisica, la memoria delle sensazioni. Si ricorda ella delle sensazioni avute da colui? Può ella aver dimenticato l'uomo che primo la violò? Che provava sotto la carezza del marito?» Un'angoscia ben nota lo strinse, a quelle interrogazioni ch'egli ripeteva in sé stesso per la millesima volta. «Ah perché non possiamo noi far morire la creatura che amiamo e risuscitarla con un corpo vergine, con un'anima nuova?»

Si risovvenne di talune parole che Ippolita gli aveva dette in un'ora suprema di ebrezza:—Tu mi prendi vergine. Io non conosco nessuna voluttà dell'amore.

Ippolita era andata a nozze nella primavera avanti quella dell'amore. Dopo alcune settimane le era incominciata la malattia della matrice, lenta e crudele, che, riducendola in fondo a un letto, l'aveva tenuta per molti giorni sospesa tra la vita e la morte. Ma la malattia per fortuna l'aveva salvata da qualunque altro contatto odioso con l'uomo che s'era impadronito di lei come d'una preda inerte. Uscendo dalla lunga convalescenza, ella era entrata nella passione come in un sogno; d'improvviso, ciecamente, perdutamente, ella s'era abbandonata al giovine sconosciuto che con una voce strana e dolce le aveva rivolto parole non udite mai. Ella non aveva mentito dicendogli:—Tu mi prendi vergine. Io non conosco nessuna voluttà.

Tutti gli episodii di quel principio tornarono nella memoria di Giorgio, a uno a uno, chiarissimi. Egli ricompose in sé gli straordinarii sentimenti e le straordinarie sensazioni d'allora.—Egli era stato conosciuto da Ippolita il 2 di aprile, nell'Oratorio; e il 10 di aprile Ippolita aveva consentito a venirgli nella casa. Oh indimenticabile giorno! Ella non aveva potuto concedersi al desiderio di lui, perché non era ancóra in tutto guarita; e per una lunga serie di convegni, quasi per due settimane, ella non aveva potuto concedersi. A tutte le carezze che può osare un uomo in cui il desiderio sia folle di esasperazione, a tutte le più temerarie carezze ella si era piegata con uno smarrimento profondo, inesperta, ignara, talvolta sbigottita, dando all'amante quell'acre e divino spettacolo che è l'agonia del pudore dilaniato dalla passione soverchiatrice. Spesso in quei giorni ella aveva perduto i sensi, ella era caduta in qualcuna di quelle sincopi gelide che la facevano sembrare morta o in qualcuna di quelle convulsioni raccolte i cui soli sintomi esterni erano il pallore livido, lo stridore dei denti, la contrattura delle dita, lo sparire dell'iride nel bianco sotto la palpebra. E in fine ella aveva potuto concedersi intera! La sua attitudine in quel primo amplesso era stata d'inerzia e quasi di freddezza e quasi di ripugnanza contenuta. Due o tre volte un'espressione di dolore le era passata pel volto. Ma a poco a poco, di giorno in giorno, una sensibilità latente aveva incominciato a risvegliarsi nelle fibre di lei intorpidite dal morbo, ancóra addolorate dagli spasimi dell'isteralgia, ancóra forse dominate da un istinto ostile contro un atto già parso odioso nelle orribili notti nuziali. E un giorno di maggio, sotto il divorante ardore del giovine che le ripeteva sul volto una parola incitante, ella aveva avuta alfine la rivelazione improvvisa della suprema voluttà. Aveva gittato un grido; poi era rimasta quasi senza anima, supina, con due lacrime nel cavo degli occhi ferme come due perle, transfigurata.

Rievocando quella vista, Giorgio si sentì attraversare da un soffio di quella ebrezza. Aveva provato allora il fremito di un creatore.

Da quel giorno, nella donna, che mutazione profonda! Qualche cosa di nuovo, indefinibile ma reale, le era venuta nella voce, nel gesto, nello sguardo, in ogni accento, in ogni movenza, in ogni segno esterno. Giorgio aveva assistito al più inebriante spettacolo che possa mai sognare un uomo d'intelletto. Egli aveva veduto la donna amata trasformarsi a imitazione di lui, prendere da lui i pensieri, i giudizii, i gusti, i dispregi, le predilezioni, le malinconie, tutto ciò che dà a uno spirito una speciale impronta, un carattere. Parlando, Ippolita adoperava i modi da lui preferiti, pronunziava certe parole con l'inflessione a lui particolare. Scrivendo, imitava perfino la scrittura di lui. Non mai l'influenza di un essere sopra un altro era stata così rapida e così forte. Ippolita aveva meritato dall'amante il motto: gravis dum suavis.

Ma la creatura grave e soave, quella a cui egli aveva saputo infondere con tanta arte il disdegno della vita comune, tra quali umilianti contatti aveva trascorso le ore lontane?

Giorgio ripensò le angosce di quel tempo quando la vedeva allontanarsi, tornare nella casa del marito, nella casa di un uomo a lui interamente ignoto, in un mondo a lui interamente ignoto, nelle volgarità e nelle meschinità della vita borghese in mezzo alle quali ella era nata ed era cresciuta come una pianta rara in mezzo alle ortaglie. Non gli aveva ella mai nascosto nulla, in quel tempo? Non l'aveva mai ingannato? Sempre aveva potuto ella sottrarsi al desiderio del marito, col pretesto della malattia perdurante? Sempre?

Giorgio si ricordò dell'orribile dolore provato una volta ch'ella era venuta in ritardo, affannosa, con le gote insolitamente colorite e calde, portando nei capelli un odor tenace di tabacco, quel cattivo odore di cui s'impregna chi rimane a lungo in una camera dove sieno molti uomini a fumare. Ella aveva detto:—Perdonami se ho tardato; ma avevo a colazione certi amici di mio marito che si sono trattenuti fino a dianzi.—Così aveva detto, dandogli la visione di quella mensa grossolana intorno a cui uomini dozzinali esalavano la loro bestialità.

Di tanti altri piccoli fatti simili Giorgio si ricordava, e d'infinite altre sofferenze crudeli; e di sofferenze anche recenti, che si riferivano al nuovo stato d'Ippolita, alla vita di lei nella casa della madre, in una casa egualmente a lui ignota, egualmente sospetta. «Ora ella è con me, alfine! Ogni giorno, in tutti gli attimi, di continuo, io la vedrò, io la godrò. Di continuo, io saprò occuparla di me, de' miei pensieri, de' miei sogni, delle mie tristezze. Io le dedicherò tutti gli attimi senza intervalli, imaginando mille nuove maniere di piacerle, di turbarla, di addolorarla, di esaltarla, penetrandola di me così ch'ella giunga a credermi un elemento essenziale della sua vita.»

Si chinò verso di lei, piano; e la baciò piano su la spalla, all'appiccatura del braccio, in quella piccola rotondità di squisita forma e di squisito colore, ove l'epidermide aveva la morbidezza di un raso che fosse così fine da sembrar quasi impalpabile. Egli sentì il profumo di lei stridulo e pur molle, il profumo cutaneo che nell'ora del gaudio diveniva inebriante come quello dei tuberosi ed era pel desiderio una terribile sferza. Guardando così da presso dormire la creatura delicata e complicata, chiusa nel mistero del sonno, strana, che pareva raggiasse da tutti i pori verso di lui una fascinazione occulta, d'una incredibile intensità, egli avvertì in fondo a sé anche una volta un vago moto istintivo di terrore.

Ippolita di nuovo mutò attitudine, senza svegliarsi, ma con un fievole gemito. Si mise supina. Un sudor lieve le inumidiva le tempie; dalla bocca socchiusa esciva un respiro più celere, un po' irregolare; di tratto in tratto i sopraccigli si contraevano. Ella sognava.—Che sognava?

Giorgio, invaso da una inquietudine che crebbe rapidamente sino a un'agitazione irragionevole, stette a spiare su quel volto i minimi accenni, credendo di sorprendere un qualche indizio rivelatore.—Rivelatore di che cosa?—Egli non poteva riflettere; non poteva reprimere quella folle insurrezione di paure, di sospetti, di dubbii.

Ippolita ebbe un sussulto nel sonno; si contorse tutta, come sotto la violenza di una persona invisibile che la tenesse afferrata pe' fianchi; si rovesciò da un lato, verso Giorgio, gemendo, gridando:—No! No!—Poi trasse due o tre respiri, forti come singhiozzi; ebbe nuovi sussulti.

Giorgio, in preda a un'ansietà folle, la guardava fiso, ascoltando, temendo di udire altre parole, forse un nome: un nome d'uomo! Aspettava con una sospensione suprema, come sotto la minaccia di una folgore che dovesse in un attimo annientarlo.

Ippolita si svegliò; lo vide in confuso, smarrita, insonnita; gli si strinse addosso, con un moto quasi inconsciente.

—Che sognavi? Di': che sognavi?—le chiese egli con una voce alterata in cui parevano ripercuotersi i battiti del cuore.

—Non so—ella rispose, languida, profondandosi ancóra nel sonno, premendo la guancia sul petto di lui.—Non mi ricordo più...

Si riaddormentava.

Ma Giorgio rimase immobile sotto la tenera pressione di quella guancia, provando una specie di sordo rancore in fondo all'anima, sentendosi pur sempre separato dalla creatura che gli dormiva sul petto, sentendosi estraneo, solo, inutilmente curioso. Tutti i suoi ricordi amari si risvegliarono in tumulto. Egli riassunse in un sol minuto le sue miserie di due anni. Nulla egli poteva opporre ai dubbii enormi che gli piombavano su l'anima e gli facevano parer greve come un macigno il capo dell'amata.

Ancóra, d'improvviso, Ippolita trasalì, si lamentò, si torse, come sotto una nuova violenza. Aprì gli occhi, sbigottita, gemendo:

—Oh mio Dio!

—Che hai? Che sognavi?

—Non so...

Ella aveva sul volto contrazioni di spasimo. Soggiunse:

—Tu mi premevi? Mi pareva che tu mi urtassi e mi facessi male.

Ella soffriva, visibilmente.

—Oh mio Dio! I soliti dolori...

Ella soffriva, a intervalli, d'un residuo d'isteralgia. Talvolta erano accessi brevissimi, passaggi rapidi d'uno spasimo, che le strappavano un gemito o un grido.

Si rivolse a Giorgio, fissandolo nelle pupille con sicuro intuito, sorprendendo i vestigi della tempesta.

—Tu mi facevi tanto male!—ella ripeté, con un tono di rimprovero carezzevole.

Giorgio, tutt'a un tratto, se la prese tra le braccia, l'allacciò, la serrò, perdutamente, soffocandola di carezze.

X

Poiché l'aria era quasi estiva, Giorgio propose:—Vuoi che pranziamo all'aperto?

Ippolita consentì. Discesero.

Giù per la scala si tenevano per mano, posando il piede di gradino in gradino con lentezza, soffermandosi a guardare i fiori premuti, volgendo simultaneamente il viso l'un verso l'altra, come se si vedessero per la prima volta. Gli occhi sembravan loro più larghi, più profondi, quasi più lontani, cerchiati d'un'ombra quasi innaturale. Si sorridevano senza parlare, tenuti ambedue da quella sensazione indefinibile che pareva indefinitamente disperdere nell'aria la loro sostanza resa leggera come un vapore. Camminarono così verso il parapetto, si arrestarono; guardarono il mare, ascoltarono il mare.

Quel che vedevano era insolito, straordinariamente grande, e pure illuminato da una luce intima, come da una irradiazione dei loro cuori. Quel che udivano era insolito, straordinariamente alto, e pur raccolto come un segreto rivelato a loro soli.

Pochi attimi, già trascorsi! Non li riscosse un soffio del vento, non il tuono di un'onda, non un muggito, non un latrato, non una voce umana ma l'ansia medesima che sorgeva dalla loro gioia troppo forte. Pochi attimi, già trascorsi, irrevocabili! Ambedue ora sentivano la vita svolgersi, il tempo fuggire, le cose farsi estranee, l'anima ridiventare ansiosa, l'amore imperfetto. Ambedue sentivano che un minuto di oblio supremo, il minuto unico, era passato per sempre.

Ippolita mormorò, oppressa dalla gravità della solitudine, provando uno sgomento vago d'innanzi a quelle grandi acque, sotto quel cielo deserto che impallidiva dal sommo all'orizzonte per gradi lenti:

—Com'è lontano!

Ad ambedue ora il punto dove respiravano pareva infinitamente lontano dai luoghi conosciuti, remotissimo, isolato, ignorato, non accessibile, quasi fuori del mondo. E, mentre vedevano compiuto il vóto dei loro cuori, ambedue provavano nell'intimo lo sgomento medesimo, quasi che presentissero di non poter sostenere la pienezza della nuova vita. Rimasero ancóra qualche minuto in silenzio, l'uno a fianco dell'altra ma disciolti, a guardare l'Adriatico che aveva un glaciale colore plumbeo su cui le onde crescenti correvano con le loro vivide creste bianche. A tratti, un soffio fresco investiva le capigliature delle robinie trasportandone il profumo.

—A che pensi?—domandò Giorgio, scotendosi come per ribellarsi all'intempestiva tristezza che stava per sopraffarlo.

Egli era là, solo con la sua donna, vivente e libero. Pure, il suo cuore non era pago. Egli portava dunque dentro di sé una disperazione inconsolabile? Sentendosi di nuovo separato dalla creatura silenziosa, la prese di nuovo per la mano, la guardò dentro le pupille.

—A che pensi?

—A Rimini—rispose Ippolita, sorridendo.

Ancóra il passato! Un ricordo della vita lontana, in quel momento!—Era lo stesso mare ai loro occhi velati da una stessa illusione?—Egli ebbe da prima entro di sé un moto ostile contro l'evocatrice inconsapevole. Poi, in un attimo, con un'agitazione repentina, vide illuminarsi nel passato tutte le sommità dell'amore e scintillare straordinariamente. Cose lontanissime gli tornarono nella memoria accompagnate da onde di musica che le esaltavano e le trasfiguravano. In un attimo egli rivisse i più alti momenti lirici della sua passione, e li rivisse nei luoghi favorevoli, fra tutti i grandi apparati della natura e dell'arte i quali avevano resa più nobile e più profonda la sua gioia.—Perché mai ora, al confronto, anche il minuto recente si scoloriva?—Ai suoi occhi, come abbacinati da quel folgorio rapido, ora si scolorivano tutte le cose. Ed egli s'accorse che la diminuzione continua della luce gli dava una specie di malessere fisico indefinibile, come se il fenomeno esteriore avesse una rispondenza immediata in lui con un elemento vitale.

Cercò qualche parola da proferire per richiamare a sé la donna, per riallacciarla a sé con un qualunque legame sensibile, quasi per ritrovare il valore della realtà presente, ch'egli aveva smarrito. Ma la ricerca gli era penosa:—pareva che i pensieri gli sfuggissero, si dileguassero lasciandolo vacuo. Come udì un acciottolio di piatti, domandò:

—Hai fame?

E la domanda, suggerita dal piccolo fatto materiale, proferita all'improvviso con una vivacità puerile, fece sorridere Ippolita.

—Sì, un poco—rispose ella sorridendo.

E ambedue si volsero a guardare la mensa preparata sotto la quercia. Ancóra qualche minuto, e il pranzo era pronto.

—Bisogna che tu ti contenti di quel che c'è—disse Giorgio.—Cucina molto rustica...

—Oh, io mi contento dell'erba...

Ed ella con un'aria gaia si avvicinò alla mensa; esaminò con curiosità la tovaglia, le posate, i cristalli, i piatti, trovando tutto grazioso, rallegrandosi come una bimba alla vista dei fiorami azzurri che ornavano la porcellana bianca e fine.

—Tutto mi piace, qui.

Si chinò su un gran pane rotondo ch'era ancor tiepido sotto la bella e gonfia crosta fulva. Ne aspirò con delizia la fragranza.

—Ah che buon odore!

E, come presa da una golosità fanciullesca, ne spezzò con le dita l'orlo crepitante.

—Che buon pane!

I suoi denti forti e puri lucevano nel mordere; tutti i moti della bocca sinuosa esprimevano vivamente il piacere gustato. Ed ella in quell'atto emanava da tutta la persona una schietta e fresca grazia che sedusse e meravigliò l'amante, come una novità inattesa.

—Tieni! Senti quant'è buono!

Ella gli offriva l'avanzo su cui era il segno umido del morso; glie lo spingeva fra le labbra, ridendo, comunicandogli sensualmente la sua ilarità.

—Tieni!

Egli trovò delizioso quel sapore; si abbandonò a quell'incanto leggero; si lasciò avvolgere da quella seduzione che pareva nuova. Un desiderio folle all'improvviso l'assalì: di stringere tra le braccia la provocatrice, di sollevarla su le braccia, di portarla in corsa come una preda. Il cuore gli si gonfiò d'un'aspirazione confusa alla forza fisica, alla sanità possente, a una vita di gioia quasi selvaggia, all'amore semplice e rude, alla grande libertà primordiale. Provò come un bisogno istantaneo di rompere la vecchia spoglia che l'opprimeva, d'uscirne interamente rinnovellato, immune da tutti i mali che l'avevano afflitto, da tutte le deformità che l'avevano impedito. Ebbe la visione allucinante d'una sua esistenza futura in cui egli, affrancato da ogni abitudine funesta, da ogni tirannia estranea, da ogni triste errore, guardava le cose come se le vedesse per la prima volta ed aveva innanzi a sé tutta quanta la faccia dell'Universo aperta come una faccia umana.—Non poteva dunque venire il prodigio da quella donna giovine che su la mensa di pietra, sotto la quercia sicura, aveva spezzato il nuovo pane e l'aveva diviso con lui? Non poteva dunque incominciare da quel giorno, veramente, la Vita Nuova?

LIBRO QUARTO

LA VITA NUOVA


I

Era tempo di levante. Il cielo era velato, nebuloso, quasi latteo. Una calura umida e immobile occupava l'aria. Il mare, avendo perduto ogni materialità e ogni moto, si confondeva con i vapori vaghi delle lontananze: pallidissimo, senza respiro. Una vela bianca, una sola vela bianca—questa cosa tanto rara nell'Adriatico—si levava laggiù verso le isole Diomedèe, senza muoversi, indefinitamente prolungata dallo specchio dell'acqua, formando quasi il centro visibile di quel mondo inerte che pareva a grado a grado vanire.

Ippolita, seduta sul parapetto della loggia, con un'attitudine di stanchezza, teneva gli occhi fissi alla vela, affascinati da quel bianco. Un po' curva, in un rilassamento di tutta la persona, aveva un'aria stupida, quasi d'ebetudine, che rivelava l'eclisse momentaneo della vita interiore. E, per quella mancanza della forza espressiva, le linee più volgari e più irregolari si accentuavano, il basso della faccia sembrava appesantirsi. La bocca stessa, la bocca elastica e sinuosa, al cui contatto l'amante aveva tante volte provato una specie di terrore istintivo indefinibile, ora sembrava spoglia della sua malìa e ridotta all'aspetto fisico di un comune organo bruto al quale anche l'imagine della carezza era associata come quella di un'azione meccanica scevra di qualunque nobiltà.

«Tutto è finito, a un tratto. La fiamma è spenta. Non l'amo più!» pensava Giorgio, considerando con l'occhio intento e lucido la cruda realtà della creatura inconsapevole, alla cui vita egli aveva così furiosamente mescolata la sua vita fino a quel giorno. «Non l'amo più! Com'è accaduto questo, all'improvviso?» In lui non era soltanto il disgusto dopo l'abuso, quell'avversione carnale che segue i piaceri prolungati; ma era un distacco ancor più profondo e più violento, che gli pareva definitivo e irrimediabile. «Come si può ancóra amare, dopo aver veduto quel ch'io vedo?» Avveniva in lui il consueto fenomeno:—associando le prime percezioni reali isolate ed esagerate, egli componeva un fantasma interno da cui i suoi nervi ricevevano un impulso assai più forte che non dall'oggetto presente. Con una inconcepibile intensità egli oramai nella persona d'Ippolita vedeva soltanto l'imagine astratta del sesso; vedeva soltanto l'essere inferiore, privo d'ogni spiritualità, semplice strumento di piacere e di lascivia, strumento di ruina e di morte.—Ed egli aveva orrore del padre! Ma che faceva egli, in fondo, se non la medesima cosa?—E gli attraversò lo spirito il ricordo della concubina; gli si risollevò dalia memoria qualche frammento dell'orribile alterco avvenuto tra lui e l'uomo bieco nella casa di campagna, davanti a quella finestra aperta dove egli aveva udito i gridi dei piccoli bastardi, davanti a quel gran tavolo ingombro di carte su cui aveva scorto il disco di cristallo con la vignetta oscena...

—Ah, mio Dio, che peso!—mormorò Ippolita, distraendo gli occhi dalla vela bianca che rimaneva pur sempre immobile nell'infinito.—Anche tu, non ti senti schiacciare?

Si levò, si trascinò per qualche passo fino a una larga sedia di vimini coperta di cuscini; vi si abbandonò come morta di fatica, con un gran sospiro, arrovesciando il capo, socchiudendo gli occhi mentre i cigli ricurvi le tremolavano. Ella ridiventava, d'un tratto, bellissima. La sua bellezza si accendeva, d'improvviso, come una torcia.

—Quando verrà il maestrale? Guarda quella vela. È sempre là! È la prima vela bianca, da che sono con te. Mi pare di sognarla.

Come Giorgio taceva, ella soggiunse:

—Ne hai tu vedute altre?

—No; anche per me è la prima.

—Da che parte verrà?

—Forse dal Gargàno.

—Dove andrà?

—Forse a Ortona.

—Che porterà?

—Forse agrumi.

Ella si mise a ridere. Le sue risa medesime l'avvolsero come in un'onda viva di freschezza, e di nuovo la trasfigurarono.

—Guarda, guarda!—ella esclamò sollevandosi su un braccio e indicando l'orizzonte maritimo, dove pareva che una cortina fosse caduta.—Altre cinque vele, laggiù, in fila.... Le vedi?

—Sì, sì, le vedo.

—Sono cinque?

—Sì, cinque.

—Ancóra, ancóra, laggiù! Guarda! Un'altra fila.... Quante!

Apparivano, sul limite estremo, rosse come fiammelle, immobili.

—Il vento muta. Sento che il vento muta. Guarda là come l'acqua s'increspa.

Un soffio subitaneo investì le capigliature delle robinie, che si agitarono lasciando cadere pochi fiori simili a farfalle morte. Poi, prima che le lievi spoglie toccassero la terra, tutto rientrò nella quiete. Giunse, nella pausa, il romore sordo dell'acqua mossa contro la ghiaia e andò diminuendo col moto che si propagava lungo la spiaggia, in fine cessò.

—Hai udito?

Ella s'era levata; e, china verso il parapetto, tendeva l'orecchio nell'atto di chi accorda uno strumento.

—Ecco che viene!—esclamò, di nuovo indicando col gesto l'increspatura mobile dell'acqua su cui s'avanza il rìfolo; e stette ad aspettare, resa vivace dall'impazienza, preparata a trarre un gran respiro.

Dopo alcuni attimi, le robinie investite si agitarono lasciando piovere altri fiori. E giunse fin su la loggia l'alito fresco in cui la salsedine si mescolava al profumo di quei grappoli appassiti. Un suono argentino, singolarmente armonioso, riempì il cavo della piccola baia tra l'uno e l'altro promontorio, vibrando come in un timpano.

—Senti?—disse Ippolita, con la voce sommessa ma esultante, come se quella musica le toccasse l'anima ed ella partecipasse a quelle vicende con tutta la sua vita.

Giorgio seguiva ogni atto, ogni gesto, ogni moto, ogni voce di lei con tale intensità di attenzione che tutto il resto era come se non fosse. L'imagine anteriore non coincideva più con l'apparenza presente, se bene dominasse ancóra su lo spirito in modo da mantenere ancor profondo in lui il senso del distacco morale e da impedirgli di ritornar la donna nei primi termini, di rimetterla nel primo essere, di rintegrarla. Ma da ogni atto, da ogni gesto, da ogni moto, da ogni voce di lei emanava un potere ineluttabile. Tutte quelle manifestazioni fisiche successive parevano comporre come una trama in cui egli era preso e tenuto prigioniero. Pareva che si fosse stabilita tra lui e la donna una specie di attenenza corporea, una specie di dipendenza organica, per cui anche al minimo gesto di lei corrispondesse in lui una mutazione sensuale involontaria ed egli omai non fosse più atto a vivere e a sentire indipendentemente. Come poteva dunque conciliarsi quell'affinità palese con l'odio occulto che egli aveva scoperto in fondo a sé nell'ora medesima?

Ippolita era ancóra intenta allo spettacolo, per una curiosità spontanea, per un bisogno istintivo di moltiplicare le sue sensazioni e di esternarsi nelle cose che la circondavano. Forse appunto la facilità ch'ella aveva, di comunicare con tutte le forme della vita naturale e di trovare infinite analogie tra le espressioni umane e gli aspetti delle cose più diverse; quella simpatia rapida e diffusa che non pure la legava agli oggetti con i quali aveva un contatto cotidiano, ma agli oggetti estranei; quella specie di virtù imitatoria per cui spesso riesciva con un segno a rappresentare il particolar carattere di un essere animato o inanimato e a parlare con gli animali domestici e a interpretarne il linguaggio; tutte quelle facoltà mimetiche appunto concorrevano a rendere più visibile in lei, per gli occhi di Giorgio, il predominio della vita corporea inferiore.

—Che sarà?—ella disse, attonita, udendo un rintuono improvviso, di provenienza misteriosa.—Non senti?

Era come un colpo sordo; a cui seguirono altri colpi con una celerità crescente, così strani che non era possibile definire se partissero da un'origine prossima o remotissima nell'aria che s'illimpidiva.

—Non senti?

—Forse tuona, laggiù.

—Ah, no...

—E allora?

Guardavano intorno, perplessi. Il mare cangiava colore, d'attimo in attimo, come più il cielo si liberava dai fumi. Qua e là prendeva il verde indefinibile che ha il lino non maturo quando a traverso i suoi steli diafani passa la luce del sole obliquo nei tramonti d'aprile.

—Ah, è la vela che sbatte, laggiù,—esclamò Ippolita, felice d'essere la prima a scoprire il mistero—è la vela bianca! Guarda; ora prende il vento. Ecco, si muove.

II

Ella aveva, con qualche intervallo d'indolenza sonnolenta, un desiderio smanioso di uscire, di avventurarsi al pieno sole, di battere le spiagge e le campagne intorno, di esplorare i sentieri sconosciuti. Incitava il suo compagno; talvolta quasi lo trascinava a forza; talvolta anche si metteva in cammino sola ed era poi raggiunta d'improvviso.

Andavano su per il colle seguitando una viottola chiusa da siepi cariche di fiori violacei tra mezzo a cui si aprivano certi larghi e delicati fiori nivei, di cinque petali, odorosissimi. Di là dalle siepi ondeggiavano le spighe inchinate su lo stelo, tra verdi e gialle, qual più qual meno prossima a convertirsi in oro; e talune erano così alte e così folte che superavano le siepi dando imagine d'una bella tazza traboccante.

Nulla sfuggiva all'occhio vigile d'Ippolita. Di tratto in tratto ella s'inchinava per distruggere con un soffio certi globi di peluria leggerissimi in cima a lunghi gambi sottili. Di tratto in tratto s'arrestava per osservare certi piccoli ragni che salivano da un fiore umile a un alto ramo su per un filo invisibile.

Era sul colle, in una breve insenatura solatìa, un campicello di lino già secco. Gli steli giallognoli portavano in sommo una pallina d'oro, e qua e là l'oro pareva come offuscato da una ruggine ferrigna. Gli steli più alti avevano un movimento che l'occhio riusciva appena a percepire. E il tutto, per l'estrema leggerezza, dava imagine d'un lavoro d'orefice.

—Guarda una filigrana!—disse Ippolita.

Le ginestre cominciavano a sfiorire. Da talune pendeva una specie di bava bianca in fiocchi; su altre strisciavano grandi bruchi neri e ranci, morbidi alla vista come il velluto. Ippolita ne prese uno ch'era punteggiato di vermiglio nella sua lanugine soave; e lo tenne su la palma della mano, tranquillamente.

—E più bello di un fiore—ella disse.

Giorgio notò (e non era la prima volta) come a lei mancasse quasi interamente il senso del ribrezzo verso gli insetti e come ella in genere non provasse quella ripulsione viva ed invincibile ch'egli provava per una quantità di cose da lui ritenute immonde.

—Gettalo via: ti prego!

Ella, ridendo, tese la mano come per mettergli il bruco sul collo. Egli gittò un grido saltando indietro. Ella rideva più forte.

—Ah che uomo coraggioso!

E, accesa dal gioco, si lanciò ad inseguirlo fra i tronchi dei querciuoli, su per le viottole ripide che formavano una specie di laberinto alpestre. Le sue risa squillavano suscitando di tra le pietre grige stormi di passeri selvaggi.

—Férmati! férmati! Tu fai paura alle pecore...

Un piccolo branco di pecore, infatti, sbigottito si sbandava trascinando giù per il pendìo sassoso un mucchio di cenci turchinicci.

—Férmati! Vedi: non ho più nulla.

Ed ella mostrò al fuggitivo le mani vuote.

—Aiutiamo la muta!

Ed ella corse verso la cenciosa che faceva inutili sforzi per trattener le pecore avvinte da lunghe corde di vimini attorcigliati. Si afferrò al fascio delle corde e puntò i piedi contro una pietra per resistere. Così ansante, vermiglia nel volto, in quell'attitudine violenta, era bellissima. La sua bellezza si accendeva d'improvviso come una face.

—Vieni! Vieni anche tu!—ella gridava a Giorgio, comunicandogli la sua schietta gioia infantile.

Le pecore s'arrestarono tra i cespugli delle ginestre. Erano sei: tre nere e tre bianche; e portavano la corda di vimini intorno al collo lanoso. La donna che le pasceva, macilenta, mal coperta dai suoi cenci turchinicci, gesticolava mettendo dalla bocca sdentata un mugolìo incomprensibile. I suoi piccoli occhi verdastri, senza cigli, pieni di cispa, di lacrime e di sangue, avevano uno sguardo malefico.

Quando Ippolita le porse l'elemosina, ella baciò le monete. Poi, lasciando andare le corde, si tolse di sul capo una pezzuola che non aveva più né colore né forma, si chinò a terra; e pianamente, con un'attenzione estrema, strinse quelle monete sotto molti nodi.

—Sono stanca—disse Ippolita.—Restiamo un poco qui seduti.

Sedettero. Giorgio s'accorse che quel luogo era prossimo al gran ginestreto dove nella mattina di maggio le cinque verginelle avevano còlto il fiore per giuncar la via alla Bella Romana. Già quella mattina gli pareva lontanissima, perduta in un vapore di sogno. Disse:

—Vedi là quel folto che è quasi senza fiori? Là riempimmo le ceste per infiorarti la via quando tu venisti... Ah che giorno! Ti ricordi?

Ella sorrise; e, invasa da una tenerezza subitanea, gli prese una mano. Tenendola così chiusa fra le sue, appoggiò la gota alla spalla dell'amato; e s'immerse nella dolcezza di quel ricordo, di quella solitudine, di quella quiete, di quella poesia.

A tratti passava per le cime dei querciuoli un soffio; e in giù, più lungi, a tratti nel grigio degli olivi passava qualche onda chiara d'argento. La muta si allontanava a poco a poco, dietro le pecore pascolanti; e pareva lasciare su i suoi vestigi qualche cosa di fantastico, quasi un riflesso delle favole dove le fate malefiche si trasformano in rospi alle svolte dei sentieri.

—Ora non sei felice?—mormorò Ippolita.

Giorgio pensava: «Sono già quindici giorni, e nulla è mutato in me. Sempre un'ansietà, sempre un'inquietudine, sempre uno scontento! Siamo appena al principio, e già io veggo la fine. Come dunque godere dell'ora che passa?» E gli tornarono alla memoria alcune frasi d'una lettera d'Ippolita:—Oh quando potrò starti vicina in tutte le ore del giorno, quando vivrò della tua vita! Tu mi vedrai un'altra... Io ti dirò tutti i miei pensieri e tu mi dirai tutti i tuoi. Sarò la tua amante, la tua amica, la tua sorella; e, se mi crederai degna, anche la tua consiglera... Tu non dovrai avere da me se non dolcezza e riposo... Sarà una vita d'amore come non si è mai veduta...—

Pensava: «Tutta la nostra vita, da quindici giorni, si compone di piccoli episodii materiali simili a quelli di oggi. Ella già mi è apparsa, veramente, un'altra! Incomincia a mutarsi anche nell'aspetto. È incredibile la rapidità con cui ella assorbe la salute. Sembra che ogni respiro le giovi; sembra che ogni frutto le si tramuti in sangue; sembra che la bontà dell'aria le penetri da tutti i pori. Ella era fatta per questa esistenza d'ozio, di libertà, di godimento fisico, di spensieratezza. Fino a oggi, dalla sua bocca non è uscita mai una parola grave a rivelare una preoccupazione dell'anima. Ella diventa ogni giorno più puerile negli atti, nei gusti, nei desiderii. Tra me e lei non corrono se non relazioni di sensualità raffinata. Ella porta anche nei piaceri amorosi quello studio e quella lentezza con cui assapora i frutti che predilige, con cui prolunga qualunque altra più piccola delizia, mostrando di non voler vivere per altra cosa, ponendo ogni sua cura nel coltivare e nell'ornare le sue e le mie sensazioni. Le sue pause di silenzio e d'immobilità non provengono se non da stanchezze muscolari, come quella d'ora.»

—A che pensi?—egli le chiese.

—A nulla. Sono felice.

Poi, dopo un intervallo, ella soggiunse:

—Vuoi che andiamo?

Si levarono. Ella gli scoccò su la bocca un bacio sonoro. Era gaia e irrequieta. Di tratto in tratto si distaccava dal fianco di lui per discendere in corsa un pendìo libero di sassi; e per interrompere l'impeto si aggrappava al tronco d'un querciuolo che all'urto gemeva piegandosi. Colse un fiore violetto e lo succhiò.

—È miele—disse.

Ne colse un altro e lo porse alle labbra dell'amante.

—Prova—disse; e pareva dall'atto della bocca che per la seconda volta ella medesima provasse il sapore.

—Con tutti questi fiori, con tutte queste api, ci dev'essere un alveare qui d'intorno—ella soggiunse.—Bisogna che io mi metta in cerca, una mattina mentre tu dormi ancóra... Ti porterò un favo.

Ella si diffuse a parlare di quell'avventura che le sorrideva nella fantasia; e nelle sue parole passavano, come in sensazione reale, il fresco matutino, il mistero del bosco, l'ansietà dell'indagine, la gioia della scoperta, la biondezza e la fragranza selvaggia del miele.

Si soffermarono, a mezza costa, sul limite della zona selvosa, presi nella malinconia che saliva dal mare.

Il mare aveva un colore delicato, tra l'azzurro e il verde, che a poco a poco pendeva più nel verde; ma il cielo, d'un azzurro plumbeo nel sommo e qua e là solcato di nuvole, era roseo nella curva verso Ortona. Quel bagliore si rifletteva nell'estrema linea dell'acqua, pallidamente, dando imagine di rose disciolte che vi galleggiassero. Sul fondo del mare, per gradi armoniosi, si levavano prima le due vaste querci dalla chioma cupa; e quindi i chiari olivi; e quindi i fichi dalla fronda vivace, dai rami violetti. La luna, aranciata, enorme, quasi piena, sorgeva su l'anello dell'orizzonte: simile a un globo di cristallo che lasciasse trasparire un paese chimerico figurato in basso rilievo su un disco massiccio di oro.

Si udivano gorgheggi di uccelli prossimi e lontani. Si udì il mugghio di un bove; poi, un belato; poi, il pianto di un fanciullo. In un intervallo tutte le voci tacquero; e si udì solo quel pianto.

Non era violento né interrotto, ma fioco e continuo, e quasi dolce. E attirava l'anima, la distaccava dalle altre cose, la toglieva alla seduzione crepuscolare per gravarla d'un'angoscia verace che rispondeva alla sofferenza della creatura sconosciuta, del piccolo essere invisibile.

—Senti?—disse Ippolita con la voce involontariamente sommessa, già mutata dalla pietà.—Io so chi piange.

—Tu lo sai?—chiese Giorgio, a cui la voce e l'aspetto dell'amante avevano dato uno strano sussulto.

—Sì.

Ella tendeva ancóra l'orecchio verso quel suono lamentevole che omai pareva riempire tutta la campagna. Soggiunse:

—È il bambino succhiato dalle streghe.

E pronunziò le parole senza l'accenno d'un sorriso, come se anch'ella fosse posseduta da quella superstizione.

—È laggiù, in quella casupola. Me l'ha detto Candia.

Poi, dopo una pausa esitante in cui ambedue ascoltarono il lamentìo ed ebbero la visione fantastica del bambino morituro, ella propose:

—Vuoi che andiamo a vederlo? Non è lontano.

Giorgio rimaneva perplesso, temendo lo spettacolo miserevole, temendo il contatto della gente addolorata e brutale.

—Vuoi?—ripeté Ippolita, in cui la curiosità era divenuta già irresistibile.—È laggiù, in quella casupola, sotto quel pino. Io so la via.

—Andiamo.

Ella andava innanzi affrettando il passo, a traverso un campo in pendìo. Ambedue tacevano; ambedue non erano intenti se non a quel pianto infantile che li guidava. E provavano una pena di passo in passo più acuta, come più quel pianto si faceva distinto e prendeva la qualità della povera carne esangue d'onde lo suscitava il dolore.

Attraversarono un aranceto odoroso calpestando le zàgare sparse sul terreno. Alla soglia di un tugurio, prossimo a quello ch'essi cercavano, stava seduta una femmina mostruosa per l'adipe; ed aveva su quel gran corpo una testa piccola e rotonda, gli occhi miti, i denti schietti, il sorriso placido.

—O signora, dove vai?—chiese colei, senza levarsi.

—Andiamo a vedere il bambino stregato.

—Perché ci vai? Férmati qui un poco, ripòsati. Vedi quanti ne ho io?

Tre o quattro bambini nudi, anch'essi col ventre così gonfio che parevano idropici, si trascinavano sul suolo borbottando, brancicando, portando alla bocca qualunque cosa capitasse loro sotto le mani. E la femmina teneva fra le braccia un altro bambino, tutto coperto di croste nerastre tra mezzo a cui si aprivano due grandi occhi puri ed azzurri come due fiori miracolosi.

—Non vedi quanti ne ho io e com'è questo? Férmati qui un poco!

Ella sorrideva, sollecitando con gli occhi la generosità della forestiera.

—Perché vai là?—ripetè, con un'espressione che pareva intesa a dissuadere la curiosa facendole sentire una vaga minaccia di pericolo.—Guarda com'è questo!

E mostrò di nuovo il suo figliuolo piagato, ma senza simular dolore, come se ella semplicemente offrisse alla forestiera di passaggio un oggetto di pietà prossimo in cambio d'uno più lontano e volesse dire: «Già che tu devi essere pietosa, sii pietosa verso di questo che t'è innanzi.»

—Perché è così?—chiese Giorgio guardando con una pena profonda su quel misero volto maculato i due grandi occhi puri e freschi che parevano accogliere tutta la luce sparsa nella sera di giugno.

—Chi lo sa, signore?—rispose la femmina pingue, sempre con la stessa placidezza.—Dio vuole così.

Ippolita le fece l'elemosina. E seguitarono verso l'altro tugurio, conservando nelle narici il lezzo nauseoso che emanava da quella porta piena d'ombra.

Non parlavano. Avevano il cuore stretto, la bocca disgustata, le ginocchia fiacche. Udivano il lamentìo fioco tra altre voci, tra altri rumori; e si stupivano come mai di lontano essi avessero potuto percepire soltanto quello e così distintamente. Ma attraeva i loro occhi l'alto e diritto pino il cui tronco gagliardo già si disegnava quasi nero sul chiaror diffuso del crepuscolo sostenendo una chioma tutta canora di passeri.

Come si avvicinarono, un mormorio corse tra le femmine assembrate intorno alla vittima.

—Ecco i signori, i forestieri di Candia.

—Venite! Venite!

Le femmine aprivano il cerchio perché i sopraggiunti potessero accostarsi. Una di loro,—una vecchia rugosa che aveva il colore della terra arida e due occhi senza sguardo, bianchicci, come invetriti in fondo alle occhiaie cave,—disse rivolta a Ippolita, toccandole un braccio:

—Vedi, vedi, signora? Se la succhiano le streghe, povera creatura! Vedi come l'hanno ridotta? Dio liberi la tua figliuolanza!

La sua voce era così secca che pareva artificiale, simile ai suoni articolati dagli automi.

—Signora, ségnati—ella soggiunse.

E l'avvertimento parve lugubre in quella bocca senza labbra dove la voce aveva perduta la sua qualità umana ed era divenuta una cosa morta. Ippolita si fece il segno della croce e guardò il suo compagno.

Stavano le femmine intorno come a uno spettacolo, su l'aia, d'innanzi alla porta del tugurio, dando di tratto in tratto qualche prova di condoglianza macchinalmente. E il cerchio si rinnovava di continuo: quelle già stanche di guardare si allontanavano, altre dalle case circostanti sopraggiungevano. E ripetevano quasi tutte lo stesso gesto, ripetevano quasi tutte la stessa parola, al conspetto di quel lento morire.

Il bambino era dentro una piccola culla d'abete grezzo, simile a una piccola cassa mortuaria senza coperchio. La misera creatura nuda, smunta, scarnita, verdastra, metteva un lamento continuo agitando debolmente gli ossicini spolpati delle gambe e delle braccia come per chiedere aiuto. E la madre, seduta a piè della culla, tutta ripiegata su sé stessa, con la testa china così che quasi toccava le ginocchia, non si volgeva a nessuna voce. Pareva che un peso terribile le gravasse su la nuca e le impedisse di risollevarsi. A quando a quando, con un gesto macchinale, metteva su la sponda della culla una mano rude, callosa, adusta; e faceva l'atto di cullare, pur sempre rimanendo curva e taciturna. Allora le imagini sacre, i pentacoli, i brevi, di cui l'abete era quasi tutto coperto, ondeggiavano e susurravano, in una pausa momentanea del pianto.

—Liberata! Liberata!—gridò una delle femmine scotendola.—Guarda, Liberata: è venuta la signora; è venuta alla tua casa la signora. Guardala!

La madre levò la fronte con lentezza, guardò intorno smarritamente; poi fissò su la visitatrice i suoi occhi aridi e cupi in fondo a cui, più che un dolore stanco, era una specie di terrore inerte e opaco: il terrore del maleficio notturno contro il quale non valeva nessun esorcismo; il terrore di quegli esseri insaziabili che omai avevano in potere la casa e non l'avrebbero forse abbandonata se non con l'ultimo cadavere.

—Parla! Parla!—incitò una delle femmine, ancóra scotendola per un braccio.—Parla! Di' alla signora che ti mandi alla Madonna dei Miracoli.

—-Sì, signora; falle la carità!—pregarono le altre intorno.—Mandala alla Madonna! Mandala alla Madonna!

Il bambino piangeva più forte. I passeri in cima al gran pino levavano un clamore accorante. Un cane latrava nelle vicinanze, fra i tronchi deformi degli ulivi. La luna cominciava a segnare le ombre.

—Sì,—balbettò Ippolita che non poteva più sostenere lo sguardo fisso della taciturna—sì, sì, la manderemo... domani....

—Non domani; sabato, signora.

—Sabato è la vigilia.

—Falle comprare un cero.

—Un bel cero.

—Un cero di dieci libbre.

—Hai sentito? Liberata, hai sentito?

—La signora ti manda alla Madonna!

—La Madonna ti fa la grazia!

—Parla! Parla!

—È diventata muta, signora.

—Da tre giorni non parla.

Il bambino piangeva più forte, tra il vocìo confuso delle femmine.

—Senti come piange!

—Sempre, quando si fa notte, piange di più, signora.

—Forse già qualcuna viene.

—Forse già rede...

—Ségnati, signora.

—Fra poco è notte.

—Senti come piange!

—Mi pare che suoni la campana.

—No, di qui non si sente.

—Silenzio!

—Di qui non si sente.

—Io la sento.

—Anch'io la sento.

—Ave, Maria!

Tutte tacquero, si fecero il segno della croce, si chinarono. Pareva che dal borgo lontano giungesse qualche onda di suono, appena percettibile; ma il pianto del bambino confondeva l'orecchio in ascolto. Ancóra una volta, si udì solo quel pianto. La madre era caduta in ginocchio a piè della culla, prostrata fino al suolo. Ippolita, china, pregava fervidamente.

—Guarda là, nella porta—mormorò una delle femmine a quella che le stava da presso.

Giorgio, vigilante e inquieto, si volse. La porta era piena d'ombra.

—Guarda là, nella porta. Non vedi nulla?

—Sì, vedo...—rispose l'altra, incerta, un po' sbigottita.

—Che c'è? Che si vede?—chiese una terza.

—Che si vede?—chiese una quarta.

—Che si vede?

Tutte furono invase, a un tratto, da quella curiosità e da quello sbigottimento; e guardarono verso la porta. Il bambino piangeva. La madre si levò, e si mise anch'ella a guardare con gli occhi sbarrati e fissi verso la porta che le tenebre interne rendevano misteriosa. Il cane latrava in mezzo agli olivi.

—Che c'è?—disse Giorgio a voce alta, pur facendo qualche sforzo per non lasciarsi dominare e vincere dall'imaginazione già turbata.—Che vedete?

Nessuna delle femmine osò rispondere. Tutte vedevano luccicare una forma vaga nell'ombra.

Allora egli si avanzò verso la porta.

Come varcò la soglia, un'afa di forno e un lezzo disgustoso gli mozzarono il respiro. Si rivolse; uscì.

—È una falce—disse.

Era una falce che pendeva dalla parete.

—Ah, una falce...

E le voci ricominciarono.

—Liberata! Liberata!

—Ma sei pazza?

—È pazza.

—Si fa notte. Noi ce ne andiamo.

—Non piange più.

—Povera creatura! Dorme?

—Non piange più.

—Ora metti la culla dentro. La sera è umida. Ti aiutiamo noi, Liberata.

—Povera creatura! Dorme?

—Pare un morticino. Non si move più.

—Porta la culla dentro. Non ci senti, Liberata?

—È pazza.

—Dove hai il lume? Ora torna Giuseppe. Non hai il lume? Ora torna Giuseppe dalla fornace.

—È pazza. Non parla più.

—Noi ce ne andiamo. Santa notte!

—Povera carne tormentata! Dorme?

—Dorme, dorme... Non soffre più.

—Gesù nostro Signore, salvalo!

—Libera noi, Signore!

—Andiamo, andiamo. Santa notte!

—Santa notte!

—Santa notte!

III

Il cane latrava ancóra in mezzo agli olivi, mentre Ippolita e Giorgio tornavano per la viottola verso la casa di Candia. Come riconobbe i due ospiti, tacque e mosse incontro a loro saltellando.

—Oh, è Giardino!—esclamò Ippolita; e si chinò per accarezzare la povera bestia scarna a cui ella era già legata d'amicizia.—Ci chiamava! È tardi...

La luna saliva lenta nel silenzio del cielo, preceduta da un'onda luminosa che bagnava a grado a grado l'azzurro. Tutte le voci della campagna si acquetavano sotto il chiarore pacifico. E la cessazione improvvisa d'ogni tumulto pareva straordinaria, quasi innaturale, a Giorgio che vigilava tenuto da uno sgomento inesplicabile.

—Férmati un poco—egli disse, trattenendo Ippolita.

E tese l'orecchio.

—Che ascolti?

—Mi pareva...

E ambedue guardarono indietro, verso l'aia che gli olivi nascondevano alla vista.

Ma non s'udiva se non la cadenza eguale e piana del mare nella cavità del piccolo golfo sottoposto. Sul loro capo un grillo rigò l'aria a volo, con uno stridore simile a quello di un diamante su una lastra di vetro.

—Non credi tu che il bambino sia morto?—chiese Giorgio, senza dissimulare la sua commozione.—Non piangeva più.

—È vero!—disse Ippolita.—Tu credi che sia morto?

Egli non rispose. Ripresero il cammino, sotto gli olivi argentei.

—Hai guardata la madre?—chiese egli ancóra, dopo un intervallo, avendo dentro di sé la cupa imagine.

—Dio mio! Dio mio!

—E quella vecchia che ti ha toccato il braccio... Quella voce! Quegli occhi!

Appariva nelle sue parole lo strano sgomento che lo teneva, quasi che egli avesse avuto dallo spettacolo reale una rivelazione spaventevole, quasi che la vita gli si fosse manifestata in un aspetto misterioso e feroce all'improvviso percotendolo e segnandolo indelebilmente.

—Sai? Quando io sono entrato nella casa, c'era dietro l'uscio per terra un animale morto... Doveva essere mezzo putrefatto... Non si poteva respirare per l'odore...

—Ma che dici?

—Era un cane o un gatto: non so... Non ci si vedeva bene, là dentro.

—Ne sei sicuro?

—Sì, sì, senza dubbio: era una bestia morta... L'odore...

Un brivido di ribrezzo lo assalì, sotto la sensazione rinnovata.

—Ma perché?—domandò Ippolita a cui si comunicavano il disgusto e lo sgomento.

—Chi sa!

Il cane gittò un latrato d'avviso. Erano giunti. Candia li attendeva; e già la mensa era pronta sotto la quercia.

—O signora, com'è tardi!—esclamò la donna affabile, sorridendo.—Di dove torni? Che mi dài, se indovino? Tu sei stata a vedere il figliuolo di Liberata Mannella... Sabato sia, Gesù!

Dopo, mentre i due erano seduti a tavola, ella si accostò curiosa per parlare, per interrogare.

—L'hai veduto, signora? Non si salva, non campa. Che cosa non hanno fatto quel padre e quella madre per salvarlo!

Che cosa non avevano fatto? Ella raccontava tutte le prove, tutti gli esorcismi. Era andato il prete, e aveva proferite le parole del vangelo dopo aver coperto il capo del bambino con un lembo della stola. La madre aveva sospesa all'architrave la croce di cera, benedetta nel giorno dell'Ascensione; aveva asperso d'acqua santa i cardini delle imposte e recitato ad alta voce il Credo tre volte; aveva messo un pugno di sale in un pannolino e chiuso in un nodo l'aveva legato al collo del figliuolo morente. Il padre aveva fatto le sette notti: per sette notti aveva vegliato, nell'oscurità, dinanzi a una lucerna accesa coperta da una pentola, attento ad ogni rumore, pronto ad assalire la strega per ferirla. Sarebbe bastato anche un sol colpo di spillo per renderla visibile agli occhi dell'uomo. Ma le sette veglie erano trascorse invano! Il figliuolo dimagriva e si consumava d'ora in ora, senza rimedio. E il padre disperato in fine aveva ucciso un cane e aveva messo il cadavere dietro l'uscio, per consiglio d'una maliarda. La strega non avrebbe potuto entrare se prima non avesse contati tutti i peli della bestia morta...

—Senti?—disse Giorgio a Ippolita.

E ambedue non mangiavano più, turbati, stretti dalla pietà, sbigottiti dall'apparizione repentina di quei fantasmi d'una vita oscura ed atroce che circondava gli ozii del loro amore inutile.

Sabato sia, Gesù!—ripeté Candia, toccandosi religiosamente con la palma della mano aperta il ventre che portava la creatura viva.—Dio liberi, signora, la tua figliuolanza.

Poi soggiunse:

—Non mangi, stasera. Non hai voglia. Hai una pena nel cuore per quell'anima innocente. Anche il tuo sposo non mangia. Vedi?

Ippolita le chiese:

—Quanti ne muoiono... così?

—Eh—rispose Candia—questa è una contrada trista. Troppo alligna qui la mala razza. Non c'è mai sicurezza. Sabato sia, Gesù!

Ripetè lo scongiuro; poi soggiunse, indicando un piatto su la mensa:

—Vedi questi pesci? Vengono dal Trabocco. L'ha portati Turchino...

E abbassò la voce.

—Vuoi sapere? Turchino è sotto una fattura, con tutta la sua famiglia, da quasi un anno; e non s'è liberato ancóra.

—Chi è Turchino?—chiese Giorgio, che pendeva dalle labbra della donna, attratto da quelle cose misteriose.—L'uomo del Trabocco?

E si ricordò di quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti.

—Sì, signore. Guarda là. Se hai buona vista, lo puoi scorgere. Stanotte pesca con la luna.

E Candia indicò su la scogliera nerastra la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano.

Si udiva stridere l'argano, nell'aria tranquilla. Essendo scoperti gli scogli, nella bassa marea, il profumo delle alghe saliva per la costa vincendo di forza e di freschezza tutti gli effluvii della collina feconda.

—Ah, che delizia!—mormorò Ippolita aspirando la fragranza inebriante, sembrando già tutta occupata da quella sensazione intensa che le faceva palpitare le narici e socchiudere i cigli. —Non senti, Giorgio?

Egli era attentissimo alle parole di Candia, e imaginava quel muto dramma che pendeva sul mare. La sua anima, proclive al mistero e nativamente superstiziosa, dava ai fantasmi evocati dalla femmina ingenua nella notte serena una vita e una terribilità tragica senza limiti. Ed egli aveva già, per la prima volta, la visione vasta e confusa di quella gente a lui sconosciuta, di tutta quella carne miserabile, piena d'istinti e di dolori bestiali, curva e sudante su la gleba o accasciata in fondo ai tugurii, sotto la minaccia continua di quelle oscure potenze. Egli scopriva una violenta agitazione umana tra la dolce ricchezza della terra da lui eletta a teatro del suo amore; ed era come s'egli scoprisse un brulichìo d'insetti nella massa d'una capigliatura magnifica pregna d'aromi. Lo teneva quel raccapriccio medesimo ch'egli aveva provato già altre volte al contatto o al conspetto della vita palese e brutale:—di recente, al conspetto dei consanguinei: del padre, del fratello, della povera beghina ingorda. D'improvviso, egli non più si sentiva solo con la sua donna, in mezzo alle miti creature arboree sotto la cui scorza un giorno egli aveva creduto di sorprendere un pensiero; ma si sentiva circondato e quasi premuto da una folla ignota che, portando in sé la stessa vitalità dei tronchi cieca tenace e irreduttibile, aveva con lui il legame della specie e poteva immediatamente comunicargli la sua sofferenza con uno sguardo, con un gesto, con un sospiro, con un singhiozzo, con un gemito, con un grido.

—Eh, questa è una contrada trista—ripeteva Candia scotendo il capo.—Ma deve venire il Messia di Cappelle a purgare la terra...

—Il Messia?

—Oh padre!—gridò Candia verso la porta della sua casa.—Quando viene il Messia?

Il vecchio si fece alla soglia.

—Uno di questi giorni—rispose.

E, rivolto alle spiagge lunate che dileguavano verso Ortona, significava con un gesto vago il mistero di quel liberatore novello in cui il popolo delle campagne aveva posto la sua speranza e la sua fede.

—Uno di questi giorni. Sta per venire.

E il vecchio, desideroso di parlarne, s'accostò alla mensa; guardò l'ospite con un sorriso incerto; gli chiese:

—Tu non lo sai?

—È Simplicio, forse?—disse Giorgio, nella cui memoria si risvegliava il ricordo lontano e indistinto di quel Simplicio sulmonese che cadeva in estasi affisando il sole.

—No, signore, Sembrì è morto. Questo è Oreste di Cappelle: il nuovo Messia.

E il vecchio monocolo, con un linguaggio caldo e colorito d'imagini vive, raccontò la nuova leggenda come s'era formata nella credenza delle popolazioni campestri.

Oreste, essendo frate cappuccino, aveva conosciuto Simplicio a Sulmona e da lui aveva imparato a leggere il futuro nella faccia del sole nascente. Poi s'era messo a vagare per il mondo: era giunto a Roma e aveva parlato col papa; in un altro paese aveva parlato col re. Tornato in patria, a Cappelle, aveva passato sette anni nel cimitero, in compagnia di scheletri, portando il cilicio, percotendosi giorno e notte con la disciplina. Aveva predicato nella Chiesa madre, suscitando pianti e grida dai peccatori. Poi, di nuovo, era partito in pellegrinaggio per tutti i santuarii; era rimasto trenta giorni sul Monte di Ancona; era rimasto dodici giorni sul Monte San Bernardo; era salito su le più alte cime, a capo scoperto, sotto la neve. Tornato in patria, aveva ripresa la predicazione nella sua Chiesa. Ma, poco dopo, insidiato e scacciato dai nemici, s'era rifugiato nell'isola di Corsica; e là s'era fatto Apostolo, col proposito di percorrere tutta l'Italia e eli scrivere col suo sangue su la porta d'ogni città il nome della Vergine. Come Apostolo era rientrato nella sua terra, annunziando di aver veduta una stella tra folti alberi e d'averne ricevuto il Verbo. E finalmente, per inspirazione dell'Eterno Padre, aveva preso il gran nome di Novello Messia.

Egli ora peregrinava per le campagne vestito d'una tunica rossa e d'un manto azzurro, con i capelli lunghi su le spalle e con la barba alla nazarena. Lo seguivano gli apostoli: uomini che avevano abbandonato la vanga e l'aratro per dedicarsi al trionfo della nuova fede. In Pantaleone Donadio riviveva lo spirito di San Matteo; in Antonio Secamiglio riviveva lo spirito di San Pietro; in Giuseppe Scurti, quello di Massimino; in Maria Clara, quello di Santa Elisabetta. E Vincenzo di Giambattista rappresentava San Michele Arcangelo, era il Messaggero del Messia.

Tutti costoro avevano arato il campo, avevano falciato il grano, potato la vite, premuto l'oliva; avevano condotto il bestiame nelle fiere e disputato sul prezzo; avevano condotta la donna all'altare e procreato figliuoli e veduto questi crescere, fiorire, morire; avevano vissuto in somma la comune vita della gente campestre tra i loro eguali. E passavano ora, seguaci del Messia, considerati come persone divine da quelli stessi con cui pur una settimana innanzi eran venuti a litigio su la misura delle biade. Passavano trasfigurati, partecipando della divinità di Oreste, investiti della sua Grazia.

Stando nel campo o nella casa, avevano udito una voce ed avevano sentito entrare nella loro carne peccatrice gli spiriti puri, all'improvviso. In Giuseppe Coppa era lo spirito di San Giovanni; in Pasquale Basilico, lo spirito di San Zaccaria. Anche le donne ricevevano il segno. Una donna di Senegallia, moglie di un Augustinone sartore di Cappelle, per dimostrare al Messia l'ardenza della sua fede, aveva voluto rinnovellare il sacrificio di Abramo appiccando il fuoco a un pagliericcio su cui giacevano i figliuoli. Altre donne avevano dato altre prove.

E l'Eletto ora peregrinava per le campagne seguìto dagli Apostoli e dalle Marie. Le moltitudini traevano sul suo passaggio dai più lontani luoghi della marina e della montagna. Sempre, all'alba, comparendo egli su la porta della casa dove aveva albergato, vedeva una gran turba in ginocchio aspettante. Diritto su la soglia, diffondeva il Verbo, riceveva le confessioni, amministrava la comunione con i frammenti d'un pane. Preferiva per suo cibo le uova condite con i fiori del sambuco o con le punte degli asparagi selvaggi, anche mangiando una mistura di miele, di noci e di mandorle, ch'egli chiamava manna per ricordare la manna del deserto.

I suoi miracoli non si numeravano. Con la semplice virtù del pollice, dell'indice e del medio levati in alto, egli liberava gli ossessi, medicava gli infermi, risuscitava i morti. Quando taluno andava a lui per consulto, egli non lasciava che aprisse bocca, ma sùbito gli diceva i nomi di tutto il parentado, gli esponeva i casi della famiglia, gli rivelava i più oscuri segreti. Dava anche notizie su le anime dei defunti; indicava i luoghi dov'erano tesori nascosti; con certi suoi brevi in forma di triangolo bandiva dai cuori le malinconie.

Arevà Criste pe' lu munne: Cristo va di nuovo pel mondo—concluse Cola di Sciampagna, con una voce calda d'intima fede.—Anche di qui deve passare. Non hai veduto com'è alto il grano? Non hai veduto come fiorisce l'olivo? Non hai veduto com'è carica la vite?

Giorgio chiese, gravemente, rispettoso della credenza senile:

—E ora dov'è?

—Alla Piomba—rispose il vecchio.

E indicò le spiagge remote oltre Ortona, suscitando nello spirito dell'ospite la visione di quel lembo della provincia teramana bagnato dal mare: una visione quasi mistica di terre fertili rigate da fiumicelli sinuosi ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d'acqua correva su un letto di ghiaie polite.

Dopo un intervallo di silenzio, Cola soggiunse:

—Alla Piomba, con una parola ha fermato il treno su la strada ferrata! L'ha veduto mio figlio. Non è vero, Candia, che Vito l'ha detto?

Candia assentì; riferì le particolarità del prodigio avvenuto. Coperto della tunica rossa, il Messia s'era fatto incontro al treno camminando fra le due rotaie tranquillo.

Parlando, ella e il vecchio volgevano di tratto in tratto lo sguardo e il gesto verso la regione lontana, quasi che per loro fosse già visibile la persona sacra del vegnente.

—Ascolta!—interruppe Ippolita scotendo Giorgio ch'era assorto in uno spettacolo interiore sempre più vasto e più distinto.—Non odi?

Ella si levò e andò verso il parapetto dello spiazzo, sotto le robinie, seguita da lui. Ascoltarono.

—È una compagnia che va alla Madonna di Casalbordino—disse Candia.

Si distendeva nella calma lunare un canto religioso dal ritmo lento e uniforme, alternato di voci maschili e di voci feminili per eguali intervalli. Il primo semicoro cantava una strofe su un tono basso; il secondo cantava un ritornello su un tono più alto, prolungando indefinitamente la cadenza. Ed era come un'onda che si elevasse e si abbassasse di continuo avvicinandosi.

S'avvicinava con una rapidità contraria alla lentezza del ritmo. Già i primi pellegrini apparivano presso il ponte del Trabocco, alla svolta del sentiero.

—Eccoli!—esclamò Ippolita, agitata dalla novità delle cose ch'ella vedeva, ch'ella udiva.—Eccoli! Quanti!

Procedevano in una massa compatta. Ed il contrasto di misura tra il loro andare e il loro cantare era così strano che dava al loro aspetto un'apparenza quasi fantastica. Sembravano spinti alla mèta da una forza innaturale, inconsapevoli, mentre le voci uscite dalle loro bocche rimanevano sospese nell'aria luminosa e duravano dopo il passaggio ondulando.

Evviva Maria!

Maria evviva!

Passarono con uno scalpiccìo greve, con il sentore acre di una mandra, addossati gli uni agli altri per modo che dal folto non emergevano se non le alte mazze in forma di croci. Gli uomini camminavano innanzi; e le donne seguivano, in maggior numero, con un luccichìo di ori sotto le bende bianche.

Evviva Maria

E chi la creò!

Il loro canto da presso aveva la veemenza d'un grido ad ogni espirazione; poi scemava di vigore, palesando una stanchezza vinta con uno sforzo continuo e concorde che nei due semicori era quasi sempre iniziato da una voce unica più possente. E quella voce non soltanto nell'intonare vinceva le altre, ma talvolta si manteneva altissima e riconoscibile pur in mezzo all'onda piena per tutta la durata della strofe o del ritornello, significando una fede più impetuosa, un'anima singolare e dominatrice tra la folla indistinta.

La notò Giorgio e la seguì attentissimo nella digradazione della lontananza finché l'orecchio poté riconoscerla. E crebbe in lui, straordinario, il sentimento della mistica potenza che teneva alle radici la grande razza indigena da cui egli medesimo proveniva.

Sparve nell'insenatura la compagnia; poi riapparve su la cima del promontorio al chiarore; poi di nuovo sparve. E il canto per la lontananza notturna si velò, s'addolcì, si fece così tenue che quasi lo spegnevano le piane e lente cadenze della bonaccia.

Ippolita, seduta sul parapetto, con le spalle appoggiate al tronco d'una robinia, taceva immobile, non osando turbare il raccoglimento religioso in cui l'amante pareva immerso.

Che cosa poteva a lui rivelare la luce del più chiaro sole, che quel semplice canto nella notte non gli avesse già rivelato? Tutte le imagini sparse, le recenti e le antiche, quelle ancor vibranti della sensazione viva da cui eran nate e quelle sepolte negli strati della memoria più profondi, tutte si collegavano entro di lui componendogli uno spettacolo ideale che vinceva a confronto qualunque più vasta e augusta realtà. La sua terra e la sua gente gli apparivano transfigurate, sollevate fuori del tempo, con un aspetto leggendario e formidabile, grave di cose misteriose ed eterne e senza nome. Una montagna sorgeva dal centro, come un immenso ceppo originale, in forma d'una mammella, ricoperta di nevi perpetue; e bagnava le coste falcate e i promontorii sacri all'olivo un mare mutevole e triste su cui le vele portavano i colori del lutto e della fiamma. Vie larghe come fiumi, verdeggianti d'erbe e sparse di macigni e qua e là segnate d'orme gigantesche, discendevano per le alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi. Riti di religioni morte e obliate vi sopravvivevano; simboli incomprensibili di potenze da tempo decadute vi rimanevano intatti, usi di popoli primitivi per sempre scomparsi vi persistevano trasmessi di generazione in generazione senza mutamento; fogge ricche, strane ed inutili v'erano conservate come testimonianze della nobiltà e della bellezza d'una vita anteriore. Passavano lunghe teorie di cavalli carichi di frumento; e i devoti cavalcavano su le some, con serti di spighe in capo, con tracolle di pasta; e deponevano ai piedi d'una statua i doni cereali. Le giovinette, con in capo canestre di grano, conducevano per le vie un'asina che portava su la groppa una maggiore canestra; ed andavano all'altare, per l'offerta, cantando. Gli uomini e i fanciulli, coronati di rose e di bacche rosee, salivano in pellegrinaggio a una rupe dov'era stampata l'orma di Sansone. Un bue candido, impinguato per un anno con abondanza di pastura, coperto d'una gualdrappa vermiglia, cavalcato da un fanciullo, procedeva in pompa tra gli stendardi e i ceri; s'inginocchiava sul limitare del tempio tra il plauso del popolo; giunto nel mezzo della navata, mandava fuori gli escrementi del cibo; e i divoti da quella materia fumante traevano gli auspicii per l'agricoltura. In festa le popolazioni fluviali si cingevano il capo di vitalbe e nella notte passavano l'acqua con canti e con suoni, portando in pugno ramoscelli fronzuti. Le vergini all'alba nelle praterie, per vóto, si lavavano le mani, i piedi e il viso nella rugiada novella. Ai monti, ai piani, il primo sole della primavera era salutato con antichi inni, con fragore di metalli percossi, con grida e con danze. Cercavano gli uomini, le donne e i fanciulli per tutta la campagna le prime serpi escite dal letargo; le afferravano vive e se ne cingevano il collo e le braccia per presentarsi così cinti al patrono che li rendeva immuni dai morsi velenosi. Giù per le colline solatìe i giovani aratori con i bovi aggiogati, al conspetto dei loro vecchi, gareggiavano a compiere il più diritto solco dalla cima al piano sottoposto; e i giudici decretavano il premio al vittorioso mentre il padre in lacrime apriva le braccia al figliuol degno. E così, in tutte le cerimonie, in tutte le pompe, in tutti gli offici, in tutti i giochi, nelle natività, negli amori, nelle nozze, nei funerali, sempre era presente e visibile un simbolo georgico, sempre era rappresentata e venerata la grande genitrice Terra dal cui grembo scaturivano le fonti d'ogni bene e d'ogni allegrezza. Le donne del parentado convenivano alla casa della sposa novella portando sul capo un canestro di grano e sul grano un pane e sul pane un fiore; entravano ad una ad una, e spargevano un pugno di quel frumento augurale su i capelli dell'avventurata. A piè del letto d'un moribondo, quando si prolungava l'agonia, due consanguinei deponevano un aratro che aveva virtù d'interrompere lo strazio affrettando la morte. L'utensile e il frutto erano elevati ad alte significazioni e potenze. Un sentimento e un bisogno del mistero profondi e continui davano a tutte le materie circostanti un'anima attiva, benefica o malefica, bene o male augurosa, che partecipava ad ogni vicenda, ad ogni fortuna, con un atto palese od occulto. Una foglia vescicatoria impressa sul braccio nudo rivelava l'amore o il disamore; le catene del camino gittate su la via scongiuravano l'uragano imminente; un mortaio posto sul davanzale richiamava i colombi smarriti; un cuore di rondine ingoiato comunicava la saggezza. Il mistero interveniva così in tutti gli eventi, circondava e serrava tutte le esistenze; e la vita soprannaturale vinceva, copriva e assorbiva la vita ordinaria creando fantasmi innumerevoli e indistruttibili che popolavano i campi, abitavano le case, ingombravano i cieli, turbavano le acque. Il mistero e il ritmo, i due elementi essenziali d'ogni culto, erano per ovunque sparsi. Uomini e donne esprimevano di continuo la loro anima col canto, accompagnavano col canto tutte le loro opere al chiuso e all'aperto, celebravano col canto la vita e la morte. Intorno alle culle e intorno alle bare ondeggiavano le melopèe lente e iterate, antichissime, antiche forse come la razza di cui manifestavano la tristezza profonda. Tristi e gravi e fisse in un ritmo non alterato mai, parevano frammenti d'inni appartenuti a liturgie immemorabili, sopravvissuti alla distruzione di un qualche grande mito primordiale. Erano in piccolo numero ma dominanti così che le canzoni nuove non potevano combatterle né diminuirne la potenza. Si trasmettevano di generazione in generazione come un'eredità interiore, inerente alla sostanza corporea; e ciascuno svegliandosi alla vita le udiva risonare in sé medesimo come un linguaggio innato a cui la voce dava le forme sensibili. Al pari delle montagne, delle valli e dei fiumi, al pari degli usi, dei vizii, delle virtù e delle credenze, esse erano parte nella struttura del paese e della gente. Erano immortali come la gleba e come il sangue.

In questo paese, a questa gente veniva ora il Novello Messia di cui il vecchio agricoltore aveva narrato la vita e i miracoli. Chi era costui? Un asceta ingenuo ed innocuo come Simplicio che adorava il sole? Un simulatore astuto e cupido che tentava di trarre a suo profitto la credulità dei divoti? Chi era dunque costui che dalla riva d'un fiumicello poteva agitare col suo nome le moltitudini prossime e lontane, indurre le madri ad abbandonare i figli, suscitare visioni e voci d'un altro mondo nelle anime più rozze?

E Giorgio evocò di nuovo la figura di Oreste, coperta della tunica rossa, incedente lungo il fiumicelio sinuoso ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d'acqua correva su un letto di ghiaie polite.

«Non sarà forse» egli pensava «non sarà in questa improvvisa rivelazione la mia salvezza? Non debbo io, per ritrovare tutto me stesso, per riconoscere la mia vera essenza, non debbo io pormi a contatto immediato con la razza da cui sono uscito? Riprofondando le radici del mio essere nel suolo originario, non assorbirò io un succo schietto e possente che varrà ad espellere tutto ciò che è in me fittizio ed eterogeneo, tutto ciò che ho ricevuto consapevole ed inconsapevole per mille contagi? Non io ora cerco la verità, ma sì bene cerco di ricuperare la mia sostanza, di rintracciare in me i caratteri della mia razza per riaffermarli e renderli quanto più potrò intensi. Accordando così la mia anima con l'anima diffusa, io riavrò quell'equilibrio che mi manca. Il segreto dell'equilibrio per l'uomo d'intelletto sta nel saper trasportare gli istinti, i bisogni, le tendenze, i sentimenti fondamentali della propria razza in un ordine superiore.»

Il mistero e il ritmo erano per ovunque sparsi. Il mare da presso respirava su la spiaggia biancheggiante, ad intervalli eguali; ma si udivano nelle pause le cadenze, a mano a mano più deboli, delle onde che toccavano i punti successivamente più lontani. Forse ripercosso da una cavità sonora, giunse anche una volta il canto dei pellegrini; poi si dileguò. Verso il Vasto d'Aimone il cielo balenava frequente; e i baleni parevano vermigli nel quieto candore della luna. Appoggiata all'albero, Ippolita sognava fissando quel focolare di baleni muti.

Ella non s'era mai mossa. Non era insolita in lei l'immobilità prolungata in un'attitudine, che prendeva talvolta l'apparenza catalettica e faceva quasi terrore. Ella così non aveva più l'aspetto giovenile e clemente che conoscevano le piante e gli animali, ma aveva l'aspetto d'una creatura taciturna e invincibile in cui fosse raccolta tutta la virtù isolante esclusiva e distruttiva della passione d'amore. I tre divini elementi della sua bellezza—la fronte, gli occhi, la bocca—non eran forse mai giunti a un tal grado d'intensità simbolica nel significare il principio del fascino feminino eterno. Pareva che la notte serena favorisse quella sublimazione della forma sprigionando da lei la vera essenza ideale e permettendo all'amante di percepirla intieramente con l'acuità non della pupilla ma del pensiero. La notte d'estate, carica di luce lunare e di tutti i sogni e di stelle pallide o invisibili e delle voci equòree più melodiose, pareva il natural campo della sovrana imagine. Come l'ombra talvolta ingrandisce a dismisura il corpo che la produce, così la fatalità dell'amore rendeva più alta e più tragica su quell'infinito campo la persona d'Ippolita per il veggente in cui la prescienza diveniva sempre più lucida e più terribile.

Non era, nella medesima immobilità, la donna medesima che dalla loggia aveva guardato la rara vela bianca su le acque morte? Era ella; e anche ora, mentre il suo aspetto notturno pareva scevro d'ogni realità brutale, sotto al sentimento da lei suscitato si moveva quel medesimo odio: il mortale odio dei sessi, che è il fondo dell'amore e che occulto o palese permane in tutti gli effetti—dal primo sguardo al disgusto estremo.

«Ella è dunque la Nemica», pensò Giorgio. «Finché vivrà, finché potrà esercitare sopra di me il suo impero, ella m'impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo. E come ricupererò io la mia sostanza, se una gran parte è nelle mani di costei? Vano è aspirare a un nuovo mondo, a una vita nuova. Finché dura l'amore, l'asse del mondo è stabilito in un solo essere e la vita è chiusa in un cerchio angusto. Per rivivere e per conquistare, bisognerebbe che io mi affrancassi dall'amore, che io mi disfacessi della nemica... »

Anche una volta egli la imaginò morta. «Morta, ella diventerebbe materia di pensiero, pura idealità. Da una esistenza precaria e imperfetta ella entrerebbe in una esistenza completa e definitiva, abbandonando per sempre la sua carne inferma, debole e lussuriosa.—Distruggere per possedere—non ha altro mezzo colui che cerca nell'amore l'Assoluto.»

Ippolita, d'improvviso, ebbe un gran sussulto, come per la scossa d'un brivido straordinario.

Ella disse, alludendo alla comune superstizione:

—È passata la Morte.

E sorrise. Ma l'amante, colpito dalla singolarità del caso, non poté difendersi da un moto istintivo di sgomento e di stupore. «Ha ella sentito il mio pensiero?»

Si levarono ambedue, nel tempo medesimo, udendo il cane latrare con una furia subitanea.

—Chi sarà?—disse Ippolita inquieta.

Il cane iterava i latrati verso gli olivi, sul principio della viottola. Candia e il vecchio uscirono dalla casa.

—Chi sarà?—ripeté a loro Ippolita inquieta.

—Chi può essere?—fece il vecchio, guardando pel chiaro.

Una voce umana giunse di tra gli olivi: una voce umana implorante e singhiozzante. Poi apparve una forma oscura che Candia sùbito riconobbe.

—Liberata!

La madre portava sul capo la culla coperta da un panno cupo. Camminava diritta, quasi rigida, senza volgersi, senza deviare, chiusa in sé stessa e muta, simile a una sonnambula sinistra, spinta ciecamente verso una mèta ignota. E un uomo la seguiva, a capo scoperto, sconvolto, singhiozzando, implorando, chiamandola per nome, curvo battendosi l'anca o cacciandosi le mani nei capelli con atti di atroce disperazione.

—Liberata! Liberata! Sèntimi! Sèntimi! Torna alla casa! Oh Dio, oh Dio!—egli urlava tra i singhiozzi, goffo e miserabile, trascinandosi dietro alla donna sorda.—Dove vuoi andare? Che ti sta in mente? Liberata! Sèntimi! Sèntimi! Oh Dio! Oh Dio!

Egli implorava per trattenerla, per arrestarla; e non la toccava. Tendeva verso di lei le mani con gesti frenetici di dolore; e non la toccava, quasi che una causa misteriosa glie l'impedisse, quasi che una malìa rendesse intangibile quella persona.

Anche Candia non le si fece innanzi, non le precluse il passo.

—Che è, Giuseppe? Che è stato?—domandò all'uomo.

Colui con un gesto significò la demenza. E risonavano nella memoria di Giorgio e d'Ippolita le voci delle comari: «È pazza. È diventata muta, signora. Da tre giorni non parla. È pazza. È pazza.»

—È morto?—domandò di nuovo, sommessamente, Candia indicando la culla coperta.

L'uomo singhiozzò più forte, più forte. E risonavano, insieme, nella memoria di Giorgio e d'Ippolita le voci delle comari: «Non piange più. Povera creatura! Dorme? Pare un morticino. Non si move più. Dorme... dorme... Non soffre più.»

—Liberata!—gridò Candia, raccogliendo tutta la forza della sua gola, come per scuotere la impassibile.—Liberata! Dove vai?

Ma non la toccò, ma non le impedì il cammino.

Poi tutti tacquero e guardarono.

La madre continuò ad avanzare, alta e diritta, quasi rigida, senza volgersi, fissando innanzi a sé gli occhi dilatati ed aridi, tenendo la bocca chiusa, come premuta da un suggello, come votata già a un silenzio perpetuo e priva del respiro. Ondeggiava sul suo capo la culla mutata in bara; e la lamentazione dell'uomo prendeva un ritmo costante, quasi di monodìa.

Così la coppia tragica, attraversato lo spiazzo, discese nel sentiero impresso dalle orme recenti dei pellegrini, per ove fluttuava ancóra l'anima religiosa diffùsavi dall'inno.

E gli amanti, stretti dalla pietà e dall'orrore, guardarono la figura della madre funeraria allontanarsi nella notte, verso quel focolare di baleni muti.

IV

Ora non più da Ippolita ma da Giorgio venivano gli incitamenti alle lunghe escursioni, alle lunghe esplorazioni. Condannato «ad attendere di continuo la vita», egli ora credeva di andarle incontro, di trovarla e di coglierla nella natura reale. Con una curiosità fittizia egli ora cercava ciò che in vero poteva appena muovere la superficie dell'anima ma non penetrarla ed agitarla a dentro. Si sforzava di scoprire tra certe cose e la sua anima rapporti che non esistevano. Si sforzava di scuotere l'indifferenza ch'era al fondo: quell'indifferenza inerte che per tanto tempo l'aveva reso estraneo ad ogni agitazione esteriore. Raccogliendo tutte le sue facoltà più perspicaci, intendeva a rintracciare qualche viva rassomiglianza tra il suo essere e la natura circonstante per ricongiungersi filialmente a lei e restarle fedele in eterno.

Ma non risorse in lui quello straordinario senso che più d'una volta lo aveva esaltato e meravigliato ai primissimi giorni della sua dimora nell'Eremo, quando non era anche giunta l'amica. Egli non poté risuscitare l'ebrietà pànica del primo giorno, quando aveva creduto di sentir veramente il Sole dentro il suo cuore; né la malinconica dolcezza della prima passeggiata solitaria; né la improvvisa divina letizia comunicatagli nel mattino di maggio dalla canzone di Favetta e dal profumo delle ginestre fresche di rugiada. Su la terra e sul mare gli uomini gittavano un'ombra tragica. La povertà, la malattia, la demenza, il terrore e la morte si occultavano o si manifestavano per tutti i luoghi dov'egli passava. Un vento di fanatismo ardente correva il paese da un capo all'altro. Di giorno e di notte, presso e lontano, gli inni religiosi risonavano monotoni e interminabili. Il Messia era aspettato; e i papaveri tra le biade suscitavano l'imagine della sua veste rossa.

La fede consacrava tutte le forme vegetali intorno. La leggenda cristiana si avvolgeva ai tronchi, fioriva tra i rami.—Nel grembiule della Madonna fuggiasca, inseguita dai Farisei, il Bambino Gesù si mutava in frumento traboccante. Nascosto nella madia, faceva lievitare la massa del pane rendendola inesauribile. Su i lupini secchi e spinosi che avevano ferito i dolci piedi della Vergine, pesava una maledizione; ma il lino era benedetto perché con le sue onde aveva abbagliato i Farisei. Benedetto era anche l'ulivo perché aveva ospitato la Famiglia nel suo tronco aperto a guisa di capanna e l'aveva illuminata col suo olio puro. E benedetto era il ginepro che aveva tenuto chiuso in sé l'Infante; e benedetto l'agrifoglio per lo stesso atto cortese; e benedetto l'alloro perché prodotto dal suolo asperso dell'acqua già data in lavacro al figliuolo di Dio.—

Come sfuggire al fascino del mistero che si diffondeva su tutte le cose create transfigurandole in segni ed in emblemi d'un'altra vita?

Sentendo a quelle sollecitazioni insorgere confusamente tutte le sue tendenze mistiche, Giorgio pensava: «Se io possedessi la vera fede, quella fede che permetteva a Santa Teresa di vedere Iddio realmente nell'ostia!» E non era un desiderio vago e momentaneo, ma era una profonda e fervida aspirazione di tutta l'anima ed era anche una straordinaria angoscia in cui si agitavano tutti gli elementi della sua sostanza; poiché egli sentiva di trovarsi innanzi al segreto della sua infelicità e della sua debolezza. Come Demetrio Aurispa, egli era un ascetico senza Dio.

E gli apparve l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

Era il suo vero padre. Sembrava, per una singolare corrispondenza di nomi, che questa spirituale paternità fosse consacrata nelle parole inscritte intorno al meraviglioso ostensorio donato dagli avi e custodito nella cattedrale di Guardiagrele.

† Ego Demetrivs Avrispa et vnicvs Georgivs filivs mevs donamvs istvd Tabernacvlvm Ecclesiæ S. M. de Gvardia qvod factvm est per manvs abbatis Joannis Castorii de Gvardia archipresbyteri ad vsvm Evcharistiæ.

† Nicolavs Andræ de Gvardia me fecit A. D. mccccxiii.

Entrambi, infatti, esseri d'intelletto e di sentimento, portavano l'eredità mistica di Casa Aurispa; entrambi avevano l'anima religiosa, inclinata al mistero, atta a vivere in una selva di simboli o in un cielo di pure astrazioni; entrambi amavano le cerimonie della chiesa latina, la musica sacra, l'odore dell'incenso, tutte le sensualità del culto più violente e più delicate. Ma avevano perduta la fede. Si inginocchiavano d'innanzi a un altare disertato da Dio.

La loro miseria proveniva dunque dal loro bisogno metafisico a cui il dubbio implacabile impediva di dilatarsi, di appagarsi, di riposarsi nel grembo divino. Non essendo conformati in modo da poter accettare e combattere la lotta dell'esistenza comune, essi avevano compresa la necessità della clausura. Ma come può l'esule della vita durar nella cella dove manca il segno dell'Eterno? La solitudine è la suprema prova dell'umiltà o della sovranità di un'anima; poiché non è data se non a patto della completa rinuncia in Dio o a patto che la possanza dell'anima sia tale da formare il perno incrollabile di un mondo.

L'un d'essi, all'improvviso, sentendo forse che l'acutezza della sua pena incominciava ad eccedere la resistenza dei suoi organi, aveva voluto transformarsi per la morte in un essere più alto ed era balzato nel mistero, d'onde guardava il superstite con occhi immarcescibili.—Ego Demetrius Aurispa et unicus Georgius filius meus...

Il superstite comprendeva ora, in un momento di lucidità, che egli non avrebbe potuto in nessun modo raggiungere il tipo della vita esuberante, l'ideale «dionisiaco» che gli era balenato sotto la grande quercia nell'assaporare il nuovo pane spezzato dalla donna giovine e lieta. Egli comprendeva che le sue facoltà intellettuali e morali, avendo troppe ineguaglianze, non avrebbero mai potuto trovare un equilibrio e un governo. Comprendeva infine che, invece di sforzarsi a riconquistar sé a sé medesimo, egli doveva a sé medesimo rinunziare; e che per questo gli rimanevano due sole vie:—o seguire l'esempio di Demetrio, o darsi al Cielo.

La via seconda lo seduceva. Considerandola, egli astraeva dalle circostanze avverse e dagli ostacoli immediati, per quel suo bisogno infrenabile di construire compiutamente tutte le illusioni e di abitarle per qualche attimo.—Non si sentiva egli avvolgere, in quella terra, dall'ardore della fede più che dalla vampa del sole? Non aveva egli il più puro sangue cristiano nelle vene? L'ideale ascetico non discendeva per i rami della sua stirpe, da quel nobile Demetrio donatore alla misera creatura che si chiamava Gioconda? Quell'ideale non poteva dunque risorgere in lui, ascendere alle supreme altezze, attingere l'apice dell'estasi umana in Dio? Tutto in lui era pronto a magnificar l'evento. Egli possedeva tutte le qualità dell'ascetico:—lo spirito contemplativo, il gusto dei simboli e delle allegorie, la virtù d'astrarre, l'estrema sensibilità alla suggestione visuale e verbale, la tendenza organica alle imagini dominanti e alle allucinazioni. Non mancava se non una cosa, una grande cosa che forse in lui non era morta ma soltanto sopita:—la fede, l'antica fede del donatore, l'antica fede di sua gente, quella che scendeva dalla sua montagna e cantava le laudi lungo la riva del suo mare.

Come risvegliarla? Come risuscitarla? Nessun artificio sarebbe valso. Bisognava ch'egli attendesse la scintilla repentina, la percossa improvvisa. Bisognava forse ch'egli vedesse il lampo e udisse la voce, al pari dei seguaci d'Oreste, in mezzo a un campo, nella svolta d'un sentiero.

Ed egli evocò di nuovo la figura d'Oreste, coperta della tunica rossa, incedente lungo il fiumicello sinuoso ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d'acqua correva su un letto di ghiaie polite. Imaginò un incontro, un colloquio con lui.—Era il meriggio, su la costa, in prossimità d'un campo di frumento. Oreste parlava come un uomo semplice ed umile, sorridendo con un candore verginale; e i suoi denti erano puri come il gelsomino. Il romorìo continuo degli scogli, a piè del promontorio, somigliava il suono lontano d'un organo in mezzo al silenzio del mare. Ma, dietro la dolce persona, tra l'oro della mèsse matura, come la più violenta espression del desiderio i papaveri fiammeggiavano...—

«Il desiderio!» pensò Giorgio, richiamato così alla sua donna, alla corporale tristezza del suo amore. «Chi ucciderà il desiderio?»

Gli vennero alla memoria gli ammonimenti dell'Ecclesiastico.—Non des mulieri potestatem animae tuae... A muliere initium factum est peccati, et per illam omnes morimur... A carnibus tuis abscinde illam...—Vide, nell'alba sacra dei tempi, in un giardino delizioso il primo uomo solitario e triste che attirava la prima compagna; e questa divenire il flagello del mondo, spargere ovunque il dolore e la morte. Ma la voluttà come peccato gli parve più fiera, più agitante. Gli parve intensa come nessun'altra l'ebrezza frenetica degli amplessi a cui si abbandonavano i martiri della Chiesa primitiva, nelle prigioni, aspettando il supplizio. Evocò imagini di donne, folli di terrore e di amore, che offrivano ai baci il viso inondato da un pianto silente.

Aspirando alla fede e alla redenzione, che faceva egli dunque se non aspirare a brividi e fremiti nuovi, a voluttà ignorate?—Infrangere il divieto e impetrare il perdono; commettere la colpa e confessarla piangendo; palesare i più piccoli mali esagerandoli e ingigantire i vizii mediocri nell'accusarsi; rimettere di continuo la propria anima e la propria carne inferme nelle mani del medico misericorde:—non avevano queste cose un fascino tutto sensuale?

Già la sua passione dalle origini portava in sé un profumo pio d'incenso svanito e di violette. Egli ripensò l'Epifanìa dell'Amore nell'Oratorio abbandonato della via Belsiana:—la piccola cappella segreta era immersa in una penombra turchiniccia; un coro di fanciulle inghirlandava la tribuna ch'era simile a un verone ricurvo; sotto, alcuni sonatori di strumenti ad arco stavano in piedi avanti ai leggii d'abete bianco; intorno intorno, su gli stalli di quercia stavano seduti i pochi uditori, quasi tutti canuti o calvi; il maestro batteva il tempo; un pio profumo d'incenso svanito e di violette si mescolava alla musica di Sebastiano Bach...

Egli ripensò anche il sogno orvietano; riebbe la visione della deserta città guelfa:—finestre chiuse; vicoli grigi dove cresceva l'erba; un cappuccino che attraversava una piazza; un vescovo che scendeva da una carrozza fermata d'innanzi a un ospedale, tutta nera, con un servo decrepito allo sportello; una torre in un cielo bianco, piovigginoso; un orologio che sonava le ore lentamente; d'un tratto, in fondo a una via, un miracolo: il Duomo.—Non aveva egli sognato di rifugiarsi in cima a quella roccia di tufo coronata di monasteri? Non aveva egli più d'una volta con sincerità aspirato a quel silenzio, a quella pace?—Gli ripassava ora nell'anima quel sogno suggerito da un languore femineo in un aprile tiepido e cinerino. «Avere un'amante, o piuttosto una sorella amante, che fosse piena di divozione; e andare là, restare là... Passare lunghe ore dentro la cattedrale, d'innanzi, d'intorno; andare a cogliere le rose negli orti dei conventi; andare a prendere dalle monache le confetture... Amare e dormire molto, in un letto soffice, tra due inginocchiatoi, tutto velato di bianco, verginale...»

Di nuovo l'invase la nostalgia languida dell'ombra, del silenzio, del rifugio recinto e isolato, dove potevano schiudersi i più gracili fiori e i pensieri più tenui e le sensualità più vaghe. Tutto quel barbaglio di sole su quelle linee troppo nette e forti gli parve quasi impudente. E, come l'imagine della fonte mormorante domina il cervello di chi ha sete, così l'occupava l'imagine dell'ombra fresca e raccolta d'una navata latina.

Fin là non giungeva l'invito delle campane; o vi giungeva qualche rara volta sul vento un'onda fievolissima. La chiesa del borgo era troppo discosta, forse volgare, certo senz'alcuna fama di antiche tradizioni o di bellezza. Egli aveva bisogno d'un rifugio prossimo e degno, ove il suo misticismo potesse fiorire esteticamente come in quella profonda urna marmorea che chiude le visioni dantesche di Luca Signorelli.

E si ricordò dell'abbazia di San Clemente a Casauria, veduta in un giorno lontano dell'adolescenza; e si ricordò di averla veduta in compagnia di Demetrio. Come tutti i ricordi legati all'imagine del consanguineo, anche quello era lucido e preciso quasi fosse del giorno innanzi. Bastò ch'egli si raccogliesse per rivivere quell'ora, per risuscitare i fantasmi di tutte le sensazioni.—Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l'abbazia che ancóra gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitarii e grandiosi, su quell'ampia via d'erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d'orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre. Un sentimento di santità primitiva eravi ancor diffuso, quasi che di recente l'erbe e le pietre fossero state premute da una lunga migrazione di greggi patriarcali cercanti l'orizzonte marittimo. In fondo, nel piano, appariva la basilica: quasi una rovina. Tutto il suolo a torno era ingombro di macerie e di sterpi; frammenti di pietra scolpita erano ammucchiati contro i pilastri; da tutte le fenditure pendevano erbe selvagge; costruzioni recenti, di mattone e di calce, chiudevano le ampie aperture delle arcate di fianco; le porte cadevano. E una compagnia di pellegrini meriggiava nell'atrio bestialmente, sotto il nobilissimo portico eretto dal magnifico Leonate. Ma quei tre archi, intatti, sorgevano di su i capitelli diversi con una eleganza così altera e il sole di settembre dava a quella dolce pietra bionda un'apparenza così preziosa che ambedue, egli e Demetrio, sentivano d'essere al conspetto d'una sovrana bellezza. Infatti, come più la loro contemplazione diveniva attenta, l'armonia composta da quelle linee diveniva più chiara e più pura; e a poco a poco da quel non mai veduto accordo audace d'archi a tutto sesto, d'archi acuti e d'archi a ferro di cavallo e da quelle sagome, da quei fregi variissimi degli archivolti, dai rombi, dalle losanghe, dalle palme, dalle rosette ricorrenti, dai fogliami sinuosi, dai mostri simbolici, da tutte le particolarità dell'opera, andavasi rivelando per gli occhi allo spirito l'unica assoluta legge ritmica che le grandi masse e i piccoli ornati concordemente seguivano. E la segreta forza di quel ritmo era tale che riusciva infine a vincere tutte le discordanze circostanti e a dare la visione fantastica della intera opera quale era sorta nel secolo XII, per l'alta volontà dell'abbate Leonate, in un'isola fertile abbracciata e nutrita da un fiume possente. Ambedue portavano quella visione allontanandosi. Era di settembre; e il paese a torno in quella morte dell'estate aveva un aspetto misto di grazia e di severità, quasi una rispondenza occulta con lo spirito del monumento cristiano. Cingevano la valle quieta due corone: la prima di colli tutti a vigne e ad olivi, la seconda di rocce nude e aguzze. Ed era nello spettacolo, secondo il detto di Demetrio, qualche cosa di simile al sentimento oscuro che anima quella tela di Leonardo, ove sopra un fondo di rupi desolate ride una donna affascinante. Ed anche, a rendere più acuta l'ambiguità che li turbava entrambi, sorgeva da una vigna remota un canto, preludio della vendemmia precoce; e dietro di loro rispondeva la litania dei pellegrini che riprendevano il viaggio. E le due cadenze, la sacra e la profana, si confondevano...—

Affascinato dal ricordo, il superstite non ebbe se non un desiderio chimerico:—tornare là giù, rivedere la basilica, occuparla per salvarla dalla ruina, restituirla nella bellezza primitiva, ristabilirvi il gran culto, dopo un così lungo intervallo di abbandono e di oblìo rinnovellare il Chronicon casauriense. Non era quello, veramente, il più glorioso tempio nella terra d'Abruzzi, edificato in un'isola del fiume padre, antichissima sede di potenza temporale e spirituale, centro d'una vasta e fiera vita per molti secoli? L'anima clementina vi permaneva ancóra, profonda; e in quel lontano pomeriggio estivo erasi rivelata a lui e a Demetrio per mezzo del divino pensiero ritmico espresso da tutte le linee concordemente.

Egli disse a Ippolita:

—Forse muteremo luogo. Ti ricordi tu del sogno d'Orvieto?

—Ah, la città dei conventi,—esclamò ella,—dove tu non volesti condurmi!

—Voglio condurti a un'abbazia abbandonata, più solitaria del nostro eremo, bella come una cattedrale, piena di memorie antichissime: dov'è un gran candelabro di marmo bianco, un fiore d'arte meraviglioso, creato da un artefice senza nome... Diritta su quel candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima.

Egli sorrise di quella frase lirica, pur considerando dentro di sé la bella imagine che ne sorgeva. Ed ella, nell'ingenuità del suo egoismo, in quella tenace animalità interiore che forma il fondo dell'essere feminino, di nulla s'inebriava come di quella poesia momentanea. Ella era felice quando poteva apparire agli occhi dell'amante idealizzata come nella prima sera su la via azzurra, o come nell'Oratorio segreto fra la musica religiosa e i profumi svaniti, o come sul selvaggio sentiero giuncato di ginestre.

Chiese, con la sua voce più pura:

—Quando?

—Se fosse domani?

—Sia domani.

—Bada: se tu salirai, non potrai più scendere.

—Che importa? Io ti guarderò.

—Tu arderai e ti consumerai come un cero.

—T'illuminerò.

—Tu illuminerai anche il mio funerale...

Egli proferiva con accento leggero queste frasi, ma dentro di sé componeva con la consueta intensità di vita fittiva la sua favola mistica.—Dopo lunghi anni di errore, trascorsi su gli abissi della lussuria, era venuto in lui il pentimento. Avendo conosciuto nel corpo della sua donna tutti i misteri che esaltava la sua concupiscenza, egli ora implorava dal Misericordioso la grazia alla insostenibile tristezza di quel corporale amore. «Misericordia di quel che ho goduto e di quel che soffro! Fate, mio Dio, che io possa compiere il Sacrificio nel vostro nome!» Fuggiva seguìto dalla sua donna, cercando il rifugio. E avveniva alfine su la soglia del rifugio il miracolo; poiché l'impura, la corruttrice, la implacabile Nemica, la Rosa dell'Inferno, si spogliava all'improvviso d'ogni peccato e si faceva tutta monda per seguire il compagno fino all'altare. Divenuta luminosa, ella illuminava la tenebra sacra. In cima all'alto candelabro di marmo, rimasto per secoli muto d'ogni lume, ella ardeva nella fiamma inestinguibile e silente del suo amore. «Diritta sul candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima sino alla morte.» Ella ardeva in sé stessa, non chiedendo mai alcun alimento alla sua fiamma, nulla mai chiedendo in cambio al Diletto. Amabat amare. Rinunziava per sempre ad ogni possesso; più alta anche di Dio nella sua purità sovrana, poiché Dio ama la creatura ma vuole in compenso essere amato e diventa terribile contro chi ricusa di riamarlo. Il suo era l'amore stilite—sublime e solitario—che si nutriva di un solo sangue e di un'anima sola. Ella aveva sentito cadere intorno a sé quella parte della sua sostanza che si opponeva alla totale offerta. Nessuna cosa torbida e impura era rimasta in lei. Il suo corpo s'era trasformato in un elemento sottile, agile, chiaro e incorruttibile; i suoi sensi s'eran confusi in una suprema ed unica voluttà. Assunta in sommo dello stelo meraviglioso, ella ardeva e gioiva del suo ardore e del suo splendore, simile a una fiamma che fosse consapevole della sua propria fiammea vita...—

Ippolita disse, sostando, ascoltando:

—Non odi? Ancóra una compagnia! Domani è la Vigilia.

Ancóra le albe, i meriggi, i vespri e le notti risonavano di canti religiosi. Una turba seguiva l'altra, sotto il sole, sotto la luna. Tutte migravano a una stessa mèta e celebravano uno stesso nome, trascinate dalla veemenza d'una stessa passione, terribili e miserabili all'aspetto, lasciando sul cammino gli infermi e i moribondi, senza arrestarsi, pronte ad abbattere qualunque ostacolo per giungere là dove era il balsamo a tutti i loro mali, la promessa a tutte le loro speranze. Andavano, andavano, senza riposo, bagnando dei loro sudori le loro proprie orme nella polvere infinita. Andavano, andavano.

Che immensa forza doveva irraggiare una semplice Imagine per muovere e attrarre tutte quelle masse di carne greve! Circa quattro secoli innanzi, un vecchio settuagenario in una pianura devastata dalla grandine aveva creduto scorgere in cima a un albero la Vergine di Misericordia; e da quel giorno, ogni anno, nell'anniversario dell'apparizione, tutte le genti della montagna e del litorale peregrinavano verso il luogo santo a chieder grazia del loro soffrire.

Ippolita conosceva già la leggenda, per la bocca di Candia; e da alcuni giorni nutriva un desiderio pio di visitare il Santuario. Il predominio dell'amore e l'abitudine del piacere sensuale avevano in lei sopraffatto lo spirito religioso; ma ella, romana di razza, anzi nata in Trastevere, cresciuta in una famiglia di quella borghesia dove per tradizione immemorabile un prete ha sempre nelle mani la chiave delle coscienze, ella era cattolicissima, inclinata a tutte le pratiche esterne della Chiesa, soggetta a ricorsi periodici di alto fervore.

—Perché non andiamo anche noi, intanto, a Casalbordino?—ella disse.—Domani è la Vigilia. Vuoi che andiamo? Sarà per te un grande spettacolo. Porteremo con noi il vecchio.

Giorgio assentì. Il desiderio d'Ippolita rispondeva al suo. Era necessario, nel suo pensiero, ch'egli seguisse quella profonda corrente, ch'egli facesse parte di quella selvaggia agglomerazione umana, ch'egli esperimentasse l'aderenza materiale con lo stato infimo della sua razza, con quello strato denso e permanente in cui le impronte primitive duravano forse intatte.

—Domattina partiremo—egli soggiunse, sollecitato da una specie di ansietà, mentre udiva avvicinarsi il canto.

Ippolita riferì, secondo la narrazione di Candia, qualcuna delle prove atroci che i pellegrini usavano compiere per vóto. Ella rabbrividiva d'orrore. Ed entrambi, mentre il canto si faceva più forte, sentirono passare sul loro spirito un soffio tragico.

Erano su la collina, di notte. La luna saliva per l'arco del cielo. Una fresca umidità si dilatava nelle vaste masse vegetali ancor vibranti dell'acquazzone pomeridiano. Tutte le fronde lacrimavano, e quelle miriadi di lacrime adamantine riscintillavano al chiarore lunare transfigurando la selva. Come Giorgio urtò per caso un fusto, le gocce luminose caddero dai rami scossi su la persona d'Ippolita e la constellarono. Ella diè un piccolo grido; poi rise.

—Ah perfido!—mormorò ella imaginando che Giorgio avesse voluto sorprenderla con quell'aspersione improvvisa; e si accinse alla rappresaglia.

Alberi ed arbusti agli urti si spogliavano delle loro gemme liquide con un crepitìo vivace, mentre le risa della donna squillavano a intervalli giù pel declivio. Giorgio anche rideva rispondendo, subitamente immemore dei suoi fantasmi, lasciandosi conquistare da quella seduzione giovenile, lasciandosi penetrare da quella vivificante freschezza notturna in cui si scioglievano tutte le fragranze terrestri. Egli cercava di giunger primo all'albero che appariva con la chioma più carica, ed ella gli contendeva il passo con ardire correndo sicura sul pendìo sdrucciolevole. Giungevano per lo più insieme presso il tronco designato e lo scotevano insieme rimanendo sotto la pioggia. Nell'ombra mobile del fogliame, sul volto d'Ippolita il bianco degli occhi e il bianco dei denti rendevano uno splendore straordinario; e le minutissime stille, come un pulviscolo di diamante, rilucevano su i capelli lievi delle tempie, su le gote, su le labbra, perfino nei cigli, tremule nel tremolìo del riso.

—Ah maga!—esclamò Giorgio lasciando il tronco e afferrando la donna che ancóra una volta gli appariva in un misterioso baleno di bellezza notturna.

E si mise a baciarla per tutta la faccia, sentendola sotto le labbra sue fresca e rorida come un frutto allora allora spiccato dal ramo.

—Tieni! Tieni! Tieni!

Egli stampava forte ogni bacio su la bocca, su le gote, su gli occhi, su le tempie, sul collo, insaziabile, come se quella carne fosse per lui nuova. Ed ella sotto i baci aveva l'attitudine quasi estatica che soleva prendere quando sentiva che l'amante era in un minuto di vera ebrezza. Ella, in quei minuti, pareva come intesa a sprigionare dalla profondità della sua sostanza il più dolce e il più possente profumo d'amore per esaltare quell'ebrezza fino all'angoscia.

—Tieni!

Ed egli s'arrestò, invaso dall'angoscia, essendo giunto al limite estremo della sensazione e non potendo trascenderlo.

Non parlarono più; si presero per mano; seguitarono verso l'Eremo valicando i campi aperti, poiché avevano smarrita la viottola nella corsa obliosa. Il turbamento del gaudio inaspettato li rendeva gravi. Provavano ora una stanchezza e una malinconia indefinibile. Giorgio era come trasognato e attonito.—Così, dunque, la Vita all'improvviso, quasi con un gesto furtivo nell'ombra, gli aveva offerto un sapore nuovo: una sensazione nuova, reale e profonda, al termine di un giorno inquieto, vissuto in un chiostro di fantasmi fluttuanti!—Ma era la Vita? O non era forse il Sogno? «L'uno, sempre, è l'ombra dell'altra» egli pensò. «Dov'è la Vita è il Sogno; dov'è il Sogno è la Vita.»

—Guarda!—interruppe Ippolita, trasalendo di meraviglia.

E parve ch'ella illustrasse con uno spettacolo il pensiero di lui non rivelato.

Una vigna si levava nel chiarore lunare, tacita. Le viti alzate si attorcigliavano alle canne come ad agili tirsi; e i pampini stillanti, diafani contro la luce con tutti gli intrichi delle loro nervature sottili, perfettamente immobili come le cose minerali, in un'apparenza vitrea, ialina, indescrivibilmente fragile e labile, non avevano realtà terrestre né comunione alcuna con le circostanti forme, ma sembravano l'ultimo frammento visibile d'un mondo allegorico ideato da un teurgo, presso a scomparire.

Spontaneo sorse nella memoria di Giorgio il versetto del Cantico: «Vinea mea coram me est

V

Fin dall'alba, nella stazione di Casalbordino, i treni versavano a brevi intervalli immense onde di popolo. Erano genti venute dalle piccole città e dai borghi, miste alle compagnie dei contadi più remoti, che non avevano potuto o voluto compiere il pellegrinaggio pedestre. Si precipitavano con violenza dalle vetture; si accalcavano alla porta, contro i cancelli; urlavano e gesticolavano, respingendosi a vicenda, per salire su i carri e su le carrozze, tra gli schiocchi delle fruste, tra il tintinnìo dei sonagli;—o si disponevano in lunghe file dietro un crocifero e procedendo su per la strada polverosa intonavano l'inno.

Già sgomentati dal disagio, aspettando che la folla si diradasse, Giorgio e Ippolita istintivamente si volsero verso il mare prossimo. Un campo di canape ondeggiava in pace, contro il fondo ceruleo dell'acque. Le vele splendevano come fiamme su l'orizzonte puro.

Giorgio disse alla compagna:

—Hai coraggio? Temo che sia troppa fatica per te.

Ella disse:

—Non temere. Sono forte. E poi, bisogna soffrire un poco per meritare la grazia...

Ed egli sorridendo:

—Tu ne chiederai una?

—Una sola.

—Ma non siamo noi in peccato mortale?

—È vero!

—E allora?

—La chiederò.

Avevano condotto il vecchio Cola perché, pratico dei luoghi e degli usi, facesse da guida. Quando la porta rimase libera, uscirono; e si misero in una carrozza che partì di galoppo con un gran tintinnìo di sonagli. I cavalli erano ornati e impennacchiati come barberi. I vetturali portavano penne di paone al cappello e agitavano di continuo la frusta accompagnando di gridi rauchi gli schiocchi strepitosi.

—Quanto di strada, prima d'arrivare?—domandò al vecchio Ippolita che tormentavano un'impazienza e un'inquietudine straordinarie come se per lei in quel giorno un qualche grande avvenimento dovesse compiersi.

—Mezz'ora, scarsa—rispose il monocolo.

—La chiesa è antica?

—No, signora. Io mi ricordo quando non c'era. Cinquant'anni fa, c'era soltanto una cappelletta.

Egli tirò fuori un foglio piegato in forma d'un breve, lo spiegò e lo mostrò a Giorgio.

—Leggi. Qui c'è la storia.

Era l'Imagine seguìta dalla leggenda. La Vergine in un coro d'angeli posava sopra un olivo e un vecchio l'adorava prostrato a piè del tronco. Quel vecchio aveva nome Alessandro Muzio. Di lui narrava la leggenda:—Sul vespro del dì 10 di giugno, nell'anno di Nostro Signore 1527, essendo la domenica di Pentecoste, un uragano infuriò su la terra di Casalbordino e distrusse le vigne, le biade e gli oliveti. La mattina seguente, un vecchio settuagenario di Pollutri, Alessandro Muzio, possedendo al Piano del Lago un campo di grano, si mosse per andare a vederlo. Gli doleva il cuore, alla vista della terra desolata; ma nella sua profonda umiltà lodava la giustizia di Dio. Divotissimo della Vergine, recitava in cammino il Rosario; quando, sul limite della valle, udì la campana che segnava l'elevazione della Messa. Sùbito s'inginocchiò e raccolse tutto il suo fervore nella preghiera. Ma, mentre pregava, si vide circonfuso d'una luce che vinceva quella del sole; e in quella luce gli apparve la Madre di Misericordia, ammantata d'azzurro, e gli parlò con dolcezza. «Va e reca la novella. Di' che il pentimento sarà rimunerato. Sorga qui un tempio e io vi spanderò le mie grazie. Va al tuo campo e troverai il tuo grano intatto.» Disparve, con la sua corona d'angeli. E il vecchio si levò, andò al suo campo, trovò il suo grano intatto. Corse quindi a Pollutri, si presentò al parroco Mariano d'Iddone, gli narrò il prodigio. In un attimo la novella si propagò per tutta la terra di Casalbordino. Tutto il popolo trasse al luogo santo, vide il suolo asciutto intorno all'albero, vide il grano ondeggiare prosperoso, riconobbe il miracolo; e versò lacrime di penitenza e di tenerezza.

Poco dopo, il Vicario di Arabona pose la prima pietra della cappella; e furono procuratori per la fabbrica Geronimo di Geronimo e Giovanni Fatalone casalesi. Su l'altare fu dipinta la Vergine col vecchio Alessandro prostrato in atto d'adorarla.—

La leggenda era semplice, comune, simile a molte altre, fondata sul miracolo. Dopo quel primo benefizio, nel nome di quella Maria, le navi si salvavano dalla tempesta, i campi dalla grandine, i viandanti dai ladroni, gli infermi dalla morte. Posta in mezzo a un popolo travagliato, l'Imagine era una fonte di salute perenne.

—Questa è la Madonna che fa più grazie nel mondo—disse Cola di Sciampagna, baciando il foglio sacro prima di riporselo nel petto.—Dicono che n'è uscita un'altra, ora, nel Regno. Ma questa vince. Non temere! La nostra va sempre innanzi a tutte...

Era palese nella sua voce e nella sua attitudine quel fanatismo di parte, che accende il sangue di tutti gli idolatri e che talvolta in terra d'Abruzzi muove le popolazioni a guerre feroci per la supremazia di un idolo. Il vecchio, come tutti i suoi fratelli di fede, non concepiva l'Essere divino fuori del simulacro ma vedeva e adorava nel simulacro la presenza reale della persona celeste. L'Imagine su l'altare viveva come una creatura di carne e d'ossa: respirava, sorrideva, batteva le palpebre, reclinava la fronte, accennava con la mano. Così, dovunque, tutte le statue sacre, di legno, di cera, di bronzo, d'argento, vivevano d'una vita sensibile nella loro materia preziosa o vile. Se invecchiavano, se si spezzavano, se si disfacevano pel gran tempo, non cedevano il posto alle statue nuove senza dar segni fierissimi della loro collera. Una volta il frammento di un busto, divenuto irriconoscibile e confuso tra la legna da ardere, aveva sprizzato sangue vivo sotto la scure e parlato parole di minaccia. Un altro frammento, piallato e commesso tra le doghe di un tino, aveva manifestata la sua essenza soprannaturale producendo nell'acqua il fantasma della sua figura primitiva integra...

—Ohè, Aligi!—gridò il monocolo verso un pedone che camminava a fatica sul ciglio della strada in mezzo alla polvere soffocante.—Ohè!

Volgendosi ai suoi ospiti, soggiunse impietosito:

—È un buon cristiano, della nostra contrada. Va a portare un vóto. È convalescente. Vedi come si scalma, signora! Lascialo salire in serpe!

—Sì, sì. Ferma! Ferma!—esclamò Ippolita, commossa.

La carrozza si fermò.

—Aligi, corri! I signori ti fanno la carità. Puoi salire.

Il buon cristiano si avvicinò. Ansava, curvo su la sua mazza crociata, coperto di polvere, grondante di sudore, inebetito dal sole. Una collana di barba rossiccia, dalle orecchie girando sotto il mento, gli circondava la faccia sparsa di lentiggini; cernecchi rossicci gli escivano di sotto al cappello appiastricciati su la fronte e su le tempie; gli occhi cavi, convergenti verso la radice del naso, trascoloriti, ricordavano quelli dei convulsionarii. Egli disse, ansando, con la voce rauca:

—Grazie. Dio vi rimeriti! La Madonna v'accompagni! Ma non posso salire.

Egli reggeva con la mano sinistra una cosa avvolta in una pezzuola bianca.

—Porti il vóto?—gli domandò il monocolo.—Fa vedere.

Colui discostò i lembi della pezzuola e mostrò una gamba di cera, pallida come una gamba cadaverica, su cui era dipinta una piaga violacea. Il calore l'aveva ammollita e resa lucida, quasi sudaticcia.

—Non vedi che ti si strugge?

E il vecchio stese la mano per palparla.

—È molle. Se tu séguiti a piedi, ti cade per via.

Aligi ripeté:

—Non posso salire. Ho fatto il vóto.

Ed inquieto esaminò l'appiccàgnolo sollevando la gamba di cera all'altezza degli occhi obliqui.

Su quella strada di fuoco, tra quella polvere, sotto quella gran luce cruda, nulla era più triste di quell'uomo sfinito e di quella cosa pallida, ributtante come un membro amputato, che doveva perpetuare la memoria d'una piaga su pareti già coperte dai simulacri silenti e immobili di tante infermità diffuse per secoli nella povera carne umana.

—Avanti!

E i cavalli ripresero la corsa.

Ora, lasciate indietro le piccole colline, la strada passava per mezzo a una pianura opulenta di mèssi quasi mature. Cola raccontava, con la sua loquacità senile, gli episodii della malattia d'Aligi: diceva della piaga cancrenosa medicata dal dito della Vergine. Di qua, di là dalla strada le dolci spighe superavano le siepi dando imagine d'una bella tazza traboccante.

—Ecco il Santuario!—esclamò Ippolita indicando un edificio di mattone rossastro che sorgeva nel centro di una vasta prateria ingombra.

E, dopo qualche minuto, la carrozza toccava la folla.

VI

Era uno spettacolo meraviglioso e terribile, inopinato, dissimile ad ogni aggregazione già veduta di cose e di genti, composto di mescolanze così strane aspre e diverse che superava i più torbidi sogni prodotti dall'incubo. Tutte le brutture dell'ilota eterno, tutti i vizii turpi, tutti gli stupori; tutti gli spasimi e le deformazioni della carne battezzata, tutte le lacrime del pentimento, tutte le risa della crapula; la follia, la cupidigia, l'astuzia, la lussuria, la frode, l'ebetudine, la paura, la stanchezza mortale, l'indifferenza impietrita, la disperazione taciturna; i cori sacri, gli ululi degli ossessi, i berci dei funamboli, i rintocchi delle campane, gli squilli delle trombe, i ragli, i muggiti, i nitriti; i fuochi crepitanti sotto le caldaie, i cumuli dei frutti e dei dolciumi, le mostre degli utensili, dei tessuti, delle armi, dei gioielli, dei rosarii; le danze oscene delle saltatrici, le convulsioni degli epilettici, le percosse dei rissanti, le fughe dei ladri inseguiti a traverso la calca; la suprema schiuma delle corruttele portata fuori dai vicoli immondi delle città remote e rovesciata su una moltitudine ignara e attonita; come tafani sul bestiame, nuvoli di parassiti implacabili su una massa compatta incapace di difendersi; tutte le basse tentazioni agli appetiti brutali, tutti gli inganni alla semplicità e alla stupidezza, tutte le ciurmerie e le impudicizie professate in pieno meriggio; tutte le mescolanze erano là, ribollivano, fermentavano, intorno alla Casa della Vergine.

La Casa era massiccia, di architettura volgare, disadorna, fabbricata a mattone, senza intonaco, rossastra. Contro le mura esterne, contro i piloni del portico, i mercanti di oggetti sacri avevano inalzato le loro tende, collocato i loro banchi; e mercanteggiavano. Sorgevano da presso le baracche dei girovaghi, coniche, parate di larghi quadri raffiguranti battaglie sanguinose e pasti di cannibali. Uomini biechi, d'aspetto ignobile e ambiguo, strombettavano e vociavano su l'ingresso. Femmine impudenti, dalle gambe enormi, dal ventre gonfio, dal seno floscio, mal coperte di maglie sporche e di stracci luccicanti, celebravano in un gergo sguaiato le meraviglie che celava dietro di loro la cortina rossa. Una di queste bagasce disfatte, che pareva un essere generato da un uomo nano e da una scrofa, imboccava con la sua bocca viscida una scimmia lasciva, mentre a fianco un pagliaccio impiastricciato di farina e di carminio agitava con furia frenetica una campanella assordante.

Le compagnie giungevano, precedute dai crociferi, cantando l'inno, in lunghe file. Le donne si tenevano a vicenda per un lembo della veste e camminavano estatiche, inebetite, con gli occhi sbarrati e fissi. Quelle del Trigno portavano una veste di panno tinto in grana, a mille pieghe, fermata a mezzo della schiena quasi sotto le ascelle, attraversata ai fianchi da una cintura multicolore che rialzandola e serrandola formava un rilievo simile a una gobba. E, come camminavano stracche, curve, con le gambe aperte, strascicando le scarpe plumbee, davano imagine di strani animali gibbosi. Talune erano gozzute; e le collane d'oro luccicavano sotto i gozzi adusti.

Viva Maria!

Emergevano dalla folla le sonnambule poste a sedere su piccoli palchi eminenti, le une di fronte alle altre, in contrasto. Bendate, del viso non mostravano se non la bocca loquace, in continua salivazione, infaticabile. Parlavano con una cantilena sempre eguale, alzando ed abbassando la voce, segnando la cadenza con una scossa del capo. A tratti, con un leggero sibilo, ritiravano in dentro la saliva soverchia. Una gridava, mostrando una carta da giuoco untuosa: «Ecco l'àncora della buona speranza!» Un'altra, dalla bocca smisurata dove appariva e spariva tra i denti guasti la lingua coperta d'una patina giallastra, stava tutta china verso gli ascoltanti, tenendo su le ginocchia le grosse mani dalle vene gonfie e nel cavo del grembo un mucchio di monete di rame. Gli ascoltanti intorno, attentissimi, non perdevano una parola; non battevano palpebra, non facevano un gesto. Solo, di tratto in tratto, inumidivano con la lingua le labbra disseccate.

Viva Maria!

Nuove torme di pellegrini giungevano, passavano, scomparivano. Qua e là, all'ombra delle baracche, sotto i larghi ombrelli azzurri, o in pieno sole, le vecchie, sfinite dalla fatica, dormivano prone, con la faccia tra le due mani, nell'erba arsiccia. Altre, sedute in giro, con le gambe allargate sul terreno, masticavano carrube e pane faticosamente, in silenzio, senza sguardo, estranee all'agitazione che le circondava; e si vedevano i bocconi troppo grossi passare con sforzo nelle loro gole giallognole e rugose come le membrane delle testuggini.

Talune erano piene di piaghe, o di croste, o di cicatrici, senza denti, senza cigli, senza capelli; non dormivano, non mangiavano; stavano immobili, rassegnate, quasi aspettassero la morte; e su le loro carcasse turbinava, denso e fervido come su le carogne nei fossi, un nuvolo di mosche.

Ma nelle béttole, sotto le tende infocate dal sole meridiano, intorno alle travi infisse nel terreno e ornate di frasche, si esercitava la voracità di coloro che avevano penosamente ammassato i piccoli risparmi fino a quel giorno per sciogliere il vóto sacro e per appagare un desiderio di crapula, enorme, covato a lungo tra gli scarsi pasti e le dure fatiche. Si scorgevano le loro facce curve su la scodella, i moti delle loro mandibole stritolanti, i gesti delle loro mani dilanianti, tutte le loro attitudini di bruti alle prese con un cibo inconsueto. Fumigavano i larghi tegami pieni di polpi violacei, dentro buche circolari trasformate in fornelli, e il vapore si spandeva intorno attirando. Una fanciulla, smilza e verdognola come una locusta, offriva lunghe filze di cacio in forma di piccoli cavalli o di uccelli o di fiori. Un uomo che aveva una faccia liscia e untuosa di femmina, con le campanelle d'oro agli orecchi, con le mani e le braccia colorite d'anilina come quelle dei tintori, offriva sorbetti che parevano veleni.

Viva Maria!

Nuove torme giungevano, passavano. La moltitudine rigurgitava intorno al portico, non potendo penetrare nella chiesa già occupata e colma. Giocolari, bari, barattieri, biscazzieri, truffatori, ciurmatori d'ogni specie, la richiamavano, la distoglievano, la seducevano. Tutti questi fratelli di rapina fiutavano da lontano le prede, piombavano diritti e fulminei, non mancavano mai il colpo. Allettavano il gonzo in mille modi, dandogli la speranza d'un guadagno pronto e sicuro; lo eccitavano al rischio con infinite simulazioni; esasperavano in lui la cupidigia sino alla febbre. Poi, quando egli aveva perduto ogni ritegno e ogni lume, lo spogliavano interamente, senza pietà, con il dòlo più facile e più rapido; lo lasciavano stupefatto e misero, sghignazzandogli sotto il naso e dileguandosi. Ma l'esempio non salvava gli altri dal cadere nell'insidia. Ciascuno, stimandosi più avveduto e più esperto, si proponeva di vendicare il compagno beffato; e si gittava con veemenza nella ruina. Gli innumerabili stenti senza tregua patiti per giungere a convertire in denaro i risparmii di un anno raffilati, centesimo per centesimo, su i bisogni vivi—gli indicibili stenti che rendono l'avarizia dell'agricoltore sordida e cruda come quella dell'accattone—tutti palesava il tremito della mano callosa nel prendere la moneta riposta e nell'esporla al rischio.

Viva Maria!

Nuove torme giungevano, passavano. Una corrente sempre nuova persisteva in mezzo alla folla confusa e fluttuante; una cadenza sempre eguale dominava tutti i clamori misti. A poco a poco l'orecchio non percepiva se non il chiaro nome di Maria sul fondo cupo degli strepiti diversi. L'inno vinceva lo schiamazzo. L'onda continua e gagliarda batteva le mura del Santuario incendiate dal sole.

Viva Maria!

Maria evviva!

Ancóra per qualche minuto Giorgio e Ippolita, smarriti, affranti, guardarono la tremenda folla da cui emanava un lezzo nauseabondo, da cui qua e là emergevano i volti imbellettati delle mime, i volti bendati delle sibille. Il disgusto li prendeva alla gola, li eccitava a fuggire; e pure l'attrazione dello spettacolo umano era più forte, li tratteneva nelle strettoie della calca, li portava dove la miseria appariva peggiore, dove si rivelavano con peggiori eccessi la crudeltà, l'ignoranza, la frode, dove le grida irrompevano, dove le lacrime scorrevano.

—Avviciniamoci alla chiesa—disse Ippolita, che pareva fuori di sé, investita dalla fiamma di demenza che esalavano le turbe fanatiche passando con una furia più folle come più tristo feriva i cranii quel sole.

—Hai ancóra forza?—le domandò Giorgio prendendole le mani.—Vuoi che andiamo via di qui? Troveremo un luogo dove riposarci. Temo che tu ti senta male. Vuoi che andiamo via?

—No, no. Sono forte, posso resistere. Avviciniamoci alla chiesa; entriamo nella chiesa. Non vedi? Tutti vanno là. Senti come gridano!

Visibilmente ella soffriva; aveva la bocca convulsa, i muscoli del viso contratti; e tormentava con le dita il braccio di Giorgio. Ma non distoglieva lo sguardo dalla porta del Santuario, che pareva velata da un fumo azzurrognolo a traverso il quale, ora sì ora no, brillavano le fiammelle dei cèrei.

—Senti come gridano!

Ella titubava. Le grida sembravano venire da una strage: da uomini e donne che si sgozzassero a vicenda e si dibattessero nel sangue gorgogliante.

Cola disse:

—Chiedono la grazia.

Egli non s'era mai distaccato dai suoi ospiti; s'era affaticato di continuo ad aprir la via tra la calca, a fare un po' di largo intorno a loro.

—Volete andare?—domandò.

Ippolita si risolse.

—Andiamo, andiamo.

Il vecchio li precedeva, lavorando di gomiti, verso il portico. Ippolita quasi non toccava terra, quasi trasportata su le braccia da Giorgio che raccoglieva tutte le sue forze per regger lei e sé medesimo. Una mendicante li seguiva da presso, li premeva, chiedendo l'elemosina con una voce lamentevole, tendendo la mano e avanzandola talvolta sino a toccarli. Ed essi vedevano soltanto quella mano senile, deformata da grossi nodi alle nocca, tra giallognola e turchiniccia, con le unghie lunghe e violette, con la pelle tra dito e dito escoriata; che somigliava alla mano d'una scimmia inferma e decrepita.

Giunsero finalmente al portico; s'addossarono a uno dei pilastri, presso il banco d'un mercante di rosarii.

Le compagnie giravano intorno alla chiesa, aspettando il loro turno per entrare; giravano, giravano senza posa, a capo scoperto, dietro i crociferi, senza mai interrompere il canto. Uomini e donne portavano un bastone crociato o fiorito su cui s'appoggiavano con tutto il peso della loro stanchezza. Le loro fronti grondavano; rivoli di sudore correvano per le loro gote, inzuppavano le loro vesti. Gli uomini avevano la camicia aperta sul petto, il collo nudo, le braccia nude e su le mani, su i polsi, sul riverso delle braccia, sul petto la cute era tempestata di figure incise, colorite con l'indaco, in memoria dei santuarii visitati, delle grazie ricevute, dei vóti sciolti. Tutte le deformazioni dei muscoli e delle ossa, tutte le diversità della bruttezza corporea, tutte le indelebili impronte lasciate dalle fatiche, dalle intemperie, dai morbi:—i cranii acuminati o depressi, calvi o lanuti, coperti di cicatrici o di escrescenze; gli occhi bianchicci e opachi come bolle di siero, gli occhi tristamente glauchi come quelli dei grossi rospi solitarii; i nasi camusi, come schiacciati da un pugno, o adunchi come il becco dell'avvoltoio, o lunghi e carnosi come una proboscide, o quasi distrutti da una corrosione; le gote venate di sanguigno come le foglie della vite in autunno, o giallicce e grinze come il centopelle di un ruminante, o ispide di peli rossastri come la saggina; le bocche sottili come tagli di rasoio, o aperte e flaccide come fichi sfatti, o rapprese nella loro vacuità come foglie bruciacchiate, o munite di denti formidabili come le zanne dei cinghiali; i labbri leporini, i gozzi, le scrofole, le risipole, le pustole:—tutti gli orrori della carne umana passavano nella luce del sole, davanti alla Casa della Vergine.

Viva Maria!

Ogni torma aveva il suo crocifero e il suo duce. Il duce era un uomo membruto e violento che eccitava di continuo i fedeli con urli e con gesti da forsennato, percotendo nella schiena i tardi, trascinando i vecchi sfiniti, ingiuriando le donne che interrompevano l'inno per trarre un respiro. Un gigante olivastro, a cui fiammeggiavano gli occhi sotto un gran ciuffo nero, trascinava tre donne per tre corde di tre capestri. Un'altra donna veniva innanzi ignuda dentro un sacco da cui escivan fuori soltanto il capo e le braccia. Un'altra, lunga e scarna, dal volto livido, dagli occhi bianchicci, veniva innanzi trasognata, senza cantare, senza mai volgersi, lasciando scorgere sul suo petto una fascia rossa che pareva la benda cruenta d'una ferita mortale; e di tratto in tratto vacillava come se non potesse più reggersi in piedi e dovesse alfine cader di schianto e non rialzarsi più. Un'altra, grifagna, iraconda, simile a una Furia rustica, con il manto sanguigno avvolto intorno ai fianchi ossuti, con sul busto un ricamo lucente come una spina di pesce, brandiva un crocifisso nero guidando e incitando il suo manipolo. Un'altra portava su la testa una culla coperta da un panno cupo, come Liberata nella notte funebre.

Viva Maria!

Giravano, giravano senza posa, accelerando il passo, elevando la voce, eccitandosi sempre più agli urli e ai gesti degli energùmeni. Le vergini, con gli scarsi capelli sciolti e impregnati d'olio d'oliva, quasi calve sul cocuzzolo, stupide e pecorine nel volto e nelle attitudini, procedevano in fila, ciascuna tenendo una mano su la spalla della compagna, guardando a terra, compunte,—creature miserevoli, le cui matrici dovevano senza voluttà perpetuare in carne battezzata gli istinti e la tristezza della bestia originaria. Dentro una specie di bara profonda, portata a braccia da quattro uomini, giaceva un paralitico affogato dalla pinguedine, con le mani penzoloni contorte e nocchiolute per la mostruosità della chiragra come radici. Un continuo tremore glie le agitava; un sudore abondante gli stillava dalla fronte e dal cranio calvo, rigandogli la larga faccia ch'era d'un color roseo disfatto, sottilissimamente venato di vermiglio come la milza dei buoi. Ed egli portava appesi al collo molti brevi, spiegato sul ventre il foglio dell'Imagine. Ansava e si lamentava come in un'agonia tormentosa, già semispento; tramandava un insoffribile odore, quasi di dissoluzione; esalava da tutti i pori l'atroce pena che gli davano quegli ultimi guizzi della vita; ma pure non voleva morire: si faceva trasportare in una bara ai piedi della Madre per non morire. A breve distanza da lui, altri uomini di forza, usi a reggere nelle sagre le statue massicce o gli altissimi stendardi, trascinavano per le braccia un ossesso; che si dibatteva sotto le loro tenaglie ruggendo, lacero nelle vesti, con la bava alla bocca, con gli occhi fuori dell'orbite, con il collo gonfio di arterie, con i capelli sconvolti, violaceo come uno strangolato. Passò anche Aligi, l'uomo della grazia, divenuto più pallido della sua gamba di cera. E di nuovo tutti gli altri passarono, nel continuo giro: passarono le tre donne dal capestro; passò la Furia dal crocifisso nero; e la taciturna dalla zona sanguigna; e quella con la culla sul capo; e quella vestita d'un sacco, chiusa nella sua mortificazione, rigata il volto di silenziose lacrime che le sgorgavano di sotto alle palpebre chine, figura di un evo remoto, isolata nella folla, come circondata da un'aura dell'antica severità penitenziale, suscitando nello spirito di Giorgio ancóra la visione della grande e pura basilica clementina ove la rude cripta primitiva ricordava i cristiani del IX secolo, i tempi di Ludovico II.

Viva Maria!

Giravano, giravano senza mai soffermarsi, accelerando il passo, elevando la voce, resi dementi dal sole che li feriva in fronte o all'occipite, eccitati dagli urli degli energùmeni e dai clamori interni che udivano passando innanzi alla porta, invasi da una frenesia feroce che li spingeva ai sacrifici sanguinosi, agli strazii della carne, alle prove più inumane. Giravano, giravano, impazienti di entrare, impazienti di prosternarsi su la pietra sacra, di colmare col pianto il solco lasciato ivi da mille e mille ginocchia. Giravano, giravano, aumentando di numero, accalcandosi, incalzandosi, con tal furia concorde che non più parevano un adunamento di singoli uomini ma la coerente massa d'una qualche cieca materia sospinta da una forza vorticosa.

Viva Maria!

Maria evviva!

Un giovine, nella massa, d'improvviso stramazzò còlto da un accesso di mal caduco. I suoi prossimi lo circondarono, lo trassero fuori del vortice. Altri molti, dalla folla che occupava lo spiazzo, accorsero allo spettacolo.

—Che è accaduto?—domandò Ippolita impallidendo, straordinariamente alterata nel volto e nella voce.

—Nulla, nulla... Un colpo di sole—rispose Giorgio prendendola per un braccio, volendo allontanarla.

Ma Ippolita aveva compreso. Ella aveva scòrto due uomini aprire a forza le mascelle del caduto e mettergli una chiave in bocca:—per impedirgli di mozzarsi la lingua coi denti?—Ella aveva provato nei suoi denti, per suggestione, quell'orribile stridore; e un raccapriccio istintivo l'aveva scossa fin nelle profonde radici della sua sostanza dove il «male sacro» dormiva e poteva svegliarsi.

—È uno che soffre di male di San Donato—disse Cola di Sciampagna.—Non aver paura.

—Andiamo via di qui, andiamo via—insisteva Giorgio, cercando di trar seco la sua compagna, inquieto, sbigottito.

«Se mi cadesse ora qui d'un tratto! Se la prendesse il male ora qui in mezzo alla folla!» egli pensava, sentendosi dentro agghiacciare. E gli ritornavano alla memoria le lettere di lei datate da Caronno, nelle quali ella con parole disperate gli aveva fatta la tremenda rivelazione. E di nuovo, come allora, imaginava «le mani pallide e convulse, tra le dita la ciocca dei capelli strappati...»

—Andiamo via! Vuoi che entriamo nella chiesa?

Ella non parlava più, come stupefatta da una percossa nella nuca.

—Vuoi che entriamo?—ripeté Giorgio, scotendola, cercando di dissimulare la sua inquietudine. E voleva soggiungere:—A che pensi?—ma non osò. Vide negli occhi di lei una tristezza così cupa che n'ebbe il cuore stretto e la gola chiusa. Poi, dubitando che quel silenzio e quello stupore fossero indizii di un accesso imminente, fu invaso da una specie di pànico. Senza riflettere, balbettò:

—Ti senti male?

E quelle parole ansiose, che confessavano il dubbio, che rivelavano la paura segreta, aumentarono in entrambi il turbamento.

—No, no—ella disse, con un brivido visibile, compresa d'orrore, serrandosi addosso al compagno perché egli la difendesse contro la minaccia.

E, premuti dalla calca, perduti, scorati, miserabili come tutti, bisognosi di pietà e di soccorso come tutti, sentendo come tutti il peso della loro carne mortale, entrambi per qualche attimo comunicarono veracemente con la moltitudine in mezzo a cui temevano e soffrivano; entrambi per qualche attimo smarrirono i confini delle loro anime nell'immensità della tristezza umana.

E fu Ippolita la prima a volgersi verso la chiesa, verso la grande porta che pareva velata da un fumo azzurrognolo a traverso il quale, or sì or no, brillavano le fiammelle dei cèrei sul torrente vorticoso.

—Entriamo—ella disse, con la voce strozzata, senza distaccarsi da Giorgio.

Cola avvertì che non era possibile entrare per la porta grande.

—Io so un'altra porta—soggiunse.—Venite dietro di me.

A fatica si aprirono un varco. Eppure li reggeva una energia fittizia, li spingeva una ostinazione cieca, simile in parte a quella che mostravano i fanatici nei loro giri senza fine. Era l'effetto del contagio. Sentiva Giorgio omai di non esser più padrone di sé. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l'eccesso delle loro sensazioni.

—Venite dietro di me—ripeteva il vecchio, dividendo con la forza dei gomiti il torrente, affannandosi per difendere dagli urti i suoi ospiti.

Entrarono da una porta laterale in una specie di sagrestia dove tra un fumo azzurrognolo si scorgevano le pareti ricoperte interamente dai vóti di cera sospesi a testimonianza dei miracoli compiuti dalla Vergine. Gambe, braccia, mani, piedi, mammelle, frammenti informi che rappresentavano i tumori, le cancrene e le ulceri, figurazioni rozze di morbi mostruosi, pitture di piaghe scarlatte e violacee sul pallore della cera stridenti,—tutti quei simulacri immobili su le quattro alte pareti avevano un aspetto mortuario, facevano ribrezzo e paura, davano imagine d'un carnaio ove fossero raccolte le membra amputate in un ospedale. Mucchi di corpi umani inerti ingombravano il pavimento; tra mezzo ai quali apparivano volti lividi, bocche sanguinanti, fronti polverose, cranii calvi, capelli bianchi. Erano quasi tutti vecchi, svenuti per lo spasimo davanti all'altare, portati là a braccia, ammucchiati come cadaveri in tempo di pestilenza. Un altro vecchio veniva dalla chiesa portato a braccia da due uomini che singhiozzavano; e nel moto il capo gli penzolava ora sul petto ora su una spalla, e stille di sangue gli gocciolavano su la camicia dalle escoriazioni del naso, delle labbra, del mento. Disperate grida lasciava egli dietro di sé, che forse più non udiva: grida di dementi che imploravano la grazia ch'egli non aveva ottenuta.

—Madonna! Madonna! Madonna!

Era un clamore inaudito, più atroce degli urli di chi arde vivo in un incendio senza scampo, più terribile d'un richiamo di naufraghi in un mare notturno condannati a morte certa.

—Madonna! Madonna! Madonna!

Mille braccia si tendevano verso l'altare, con una frenesia selvaggia. Le femmine si trascinavano su le ginocchia, singhiozzando, strappandosi i capelli, percotendosi le anche, battendo la fronte nella pietra, agitandosi come in convulsioni demoniache. Talune, carponi sul pavimento, sostenendo su i gomiti e su i pollici dei piedi scalzi il peso del corpo orizzontale, avanzavano a poco a poco verso l'altare; strisciavano come rèttili. Si contraevano puntando i pollici, con piccole spinte consecutive; e apparivano fuori della gonna le piante callose e giallastre, i malleoli sporgenti e acuti. Le mani aiutavano di tratto in tratto lo sforzo dei gomiti; tremavano intorno alla bocca che baciava la polvere, presso alla lingua che nella polvere segnava croci con la saliva mista di sangue. E su quelle tracce sanguigne i corpi striscianti passavano senza cancellarle, mentre davanti a ciascuna testa un uomo alzato batteva con la punta di un bastone il pavimento per indicare la via diritta verso l'altare.

—Madonna! Madonna! Madonna!

Le consanguinee, trascinandosi su le ginocchia ai due lati del solco, vigilavano il supplizio votivo. Di tratto in tratto si chinavano a confortare le misere. Se quelle davano segno di venir meno, le soccorrevano reggendole per le ascelle o sventolando sul loro capo un pannolino. Piangevano negli atti, dirottamente. Più forte piangevano nell'assistere i vecchi e i giovinetti al medesimo vóto. Non le femmine soltanto ma i vecchi, gli adulti, i giovinetti, per giungere all'altare, per esser degni di sollevare gli occhi verso l'Imagine, si assoggettavano al supplizio. Ciascuno posava la lingua là dove l'altro aveva già lasciato il vestigio umido; ciascuno batteva il mento o la fronte là dove l'altro aveva già lasciato un brano di pelle o una goccia di sangue e il sudore e le lacrime. Improvviso un raggio di luce radente, dalla porta maggiore penetrando per gli interstizii della calca, illuminava le piante dei piedi contratti, incallite su la gleba arida o sul sasso della montagna, difformate, non più umane quasi, ma bestiali; illuminava gli occipiti capelluti o calvi, bianchi di canizie o fulvi o bruni, sostenuti da colli taurini che si gonfiavano nello sforzo, o tentennanti debolmente come il capo verdognolo d'una vecchia testuggine sbucato dal guscio, o simili a un teschio dissotterrato dove ancóra rimanessero tra rosicchiature qualche ciocca grigia e qualche lembo di cuoio rossiccio.

Si distendeva talora su i lenti rèttili un'onda d'incenso cerulea lentamente; e velava per alcuni attimi quell'umiltà, quella speranza e quel corporale dolore, quasi pietosa. Si presentavano d'innanzi all'altare, oltrepassando, nuovi pazienti a chiedere il miracolo; e coprivano con le loro ombre e con le loro voci gli atterrati che parevano non dover mai giungere a risollevarsi.

—Madonna! Madonna! Madonna!

Le madri si scoprivano le mammelle inaridite e le mostravano alla Vergine per implorare la grazia del latte; mentre dietro di loro le consanguinee recavano i figliuoli macilenti, quasi moribondi, che mettevano un piagnucolìo fioco. Le spose pregavano pel loro ventre sterile la fecondità, offrendo in dono le vesti e gli ori nuziali.

—Fammi tu la grazia, per quel figlio che hai in braccio, Maria santa!

Pregavano da prima sommesse, narrando tra le lacrime la loro pena, come se comunicassero con l'Imagine in un colloquio isolato, come se l'Imagine si chinasse dall'alto fino a loro per ascoltare il lamento. Poi, a grado a grado, si eccitavano sino al furore, sino alla demenza. Pareva che volessero strappare il consenso del prodigio a furia di grida e di gesti folli. Raccoglievano tutte le forze per gittare un urlo più acuto che giungesse all'imo cuore della Vergine.

—Fammi la grazia! Fammi la grazia!

E attendevano, in una pausa ansiosa, sbarrando gli occhi, sperando di cogliere alfine un segno nel volto della persona celeste che scintillava tempestata di gemme tra le colonne dell'altare, inaccessibile.

Un nuovo flutto di fanatici sopravveniva, prendeva il posto, si distendeva per tutta la lunghezza del cancello. Le alte grida e i gesti violenti s'alternavano con le offerte. Di là dal cancello, che precludeva l'accesso all'altar maggiore, i preti ricevevano nelle loro mani grasse e pallide le monete e le gioie. Nel tendere la destra e la sinistra da una parte all'altra, si dondolavano come le bestie prigioniere nelle gabbie dei serragli. Dietro di loro i chierici sostenevano larghi vassoi di metallo, su cui le offerte s'accumulavano sonando. Da un lato, presso la porta della sagrestia, altri preti stavano curvi intorno a un tavolo: numeravano le monete, esaminavano gli ori, mentre uno ossuto e fulvo scriveva con una penna d'oca in un gran registro. Per turno, essi tralasciavano la bisogna e officiavano. Di tratto in tratto squillava la campanella, e il turibolo si levava nell'aria fumigando. Lunghe liste azzurrine si svolgevano su per le teste chericute e si dileguavano oltre il cancello. L'aroma sacro si mesceva al lezzo umano.

Ora pro nobis, Sancta Dei Genitrix.

—Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Si udivano talvolta distinte le parole latine, in certe pause improvvise e terribili come quelle della burrasca, quando la moltitudine era oppressa dall'ansia dell'aspettazione.

Concede nos famulos tuos...

Veniva innanzi, per la porta maggiore, una coppia di sposi seguìta dal parentado in pompa, con un luccichìo di ori, con un fruscìo di seta. La sposa, fresca e possente, aveva una testa di regina barbara, dai sopraccigli folti e congiunti, dai capelli neri ondulati e lucidi, dalla bocca tumida e sanguigna a cui i denti incisivi irregolari sollevavano il labbro superiore ombrato d'un'ombra virile. Una torque di grossi àcini d'oro le cingeva per tre giri il collo; le pendevano dagli orecchi su le guance i larghi cerchi d'oro fioriti di filigrane; un busto scintillante come un giaco le frenava il seno. Ella incedeva con gravità, tutta assorta nel suo pensiero, quasi senza battere pàlpebra, tenendo una mano carica di anelli su la spalla dello sposo. E giovine anche era lo sposo, di minore statura, quasi imberbe, pallidissimo, con una espressione di profonda tristezza, come se lo divorasse un male segreto. E ambedue parevano recare nel loro aspetto la fatalità d'un mistero primitivo.

Un susurro si propagava sul loro passaggio. Essi non parlavano né voltavano mai il capo, seguìti dai parenti allacciati in catene, uomini e donne, per le braccia come in una danza antica.—Quale vóto scioglievano? Quale grazia chiedevano?—Correva di bocca in bocca sommessamente la novella. Essi chiedevano che fosse resa al giovine la potenza genitale, distrutta in lui forse da una malìa. La verginità della sposa era ancóra intatta; il sangue non aveva ancor macchiato il talamo.

Come furono presso il cancello, ambedue levarono gli occhi all'Imagine, in silenzio; e rimasero immobili per alcuni istanti, assorti nella stessa muta implorazione. Ma, dietro di loro, le due madri tesero le braccia, agitarono le mani rugose e aduste che avevano sparso in vano il frumento augurale nel giorno delle nozze. Tesero le braccia e gridarono:

—Madonna! Madonna! Madonna!

Con gesti lenti la sposa si tolse dalle dita gli anelli e li offerse. Poi si tolse i cerchi pesanti. Poi si tolse la collana ereditaria. Ed ogni ricchezza offerse all'altare.

—Prendi, Vergine benedetta! Prendi, Maria Santissima dei Miracoli!—esclamavano le madri, con la voce già rauca per le grida, moltiplicando i segni del loro fervore, guardandosi a vicenda con un fuggevole sguardo obliquo per vigilare che l'una non superasse l'altra nell'agitazione al conspetto della folla intenta.

—Prendi! Prendi!

Vedevano esse cadere gli ori, cadere nelle mani del prete impassibile; udivano poi tintinnire sul vassoio del chierico il metallo prezioso, acquistato con le fatiche assidue di più generazioni, custodito per anni ed anni nel forziere profondo, rimesso in luce ad ogni nuovo giorno di sponsali. Vedevano esse cadere la ricchezza familiare, cadere, sparire per sempre. La violenza del sacrificio le rendeva disperate; e la loro agitazione si comunicava ai prossimi. Alfine tutta la parentela gridò concordemente. Solo taceva il giovine, tenendo sempre fissi all'Imagine gli occhi onde sgorgavano due rivi di lacrime silenziose.

Successe una pausa, in cui si udirono le parole latine dell'officio e le cadenze dell'inno che cantavano le compagnie turbinando intorno al tempio. Poi la coppia, nell'attitudine primitiva, tenendo sempre gli occhi fissi all'Imagine, indietreggiò lentamente. Una nuova torma si frappose tra quella e il cancello gridando. Per qualche attimo la giovine donna emerse di tutto il capo sul tumulto, priva de' suoi ori nuziali ma più bella e possente, quasi circonfusa d'un mistero dionisiaco, spirante quasi un'aura di antichissima vita su quella moltitudine barbarica; e disparve, indimenticabile.

La seguì con lo sguardo Giorgio, finché ella disparve. Il suo spirito, esaltato fuor del tempo e della realità, viveva nell'orrore di un mondo sconosciuto, al conspetto di un popolo senza nome, partecipando a un rito d'origine oscurissima. I volti degli uomini e delle donne gli apparivano come in una visione di delirio, con l'impronta di una umanità diversa dalla sua, formati d'una materia diversa; e gli sguardi e i gesti e le voci e tutti i segni percettibili lo colpivano di stupore, come se non avessero alcuna analogia con le comuni espressioni umane a lui note fino a quel giorno. Certe figure l'attraevano d'improvviso magneticamente. Egli le seguiva tra la calca, sospingendo Ippolita; le accompagnava con lo sguardo sollevandosi su la punta dei piedi, ansioso; ne vigilava ogni atto; ne sentiva ripercuotere le grida nel suo proprio cuore; si sentiva invadere dalla medesima follia; e provava anch'egli un bisogno brutale di gridare e di agitarsi.

Si guardavano in viso, di tratto in tratto, egli ed Ippolita; e si vedevano pallidi, convulsi, sbigottiti, stanchi. Ma nessuno proponeva di abbandonare il luogo terribile, se bene e l'uno e l'altra non avessero più forze. Incalzati dalla folla, talvolta quasi trasportati, vagavano di qua e di là in mezzo al fragore, avvinti per le mani o per le braccia, mentre il vecchio faceva sforzi continui per assisterli e per proteggerli. Una compagnia sopraggiungendo li spinse contro il cancello. Per alcuni minuti rimasero là prigionieri, chiusi da ogni parte, avvolti nel fumo dell'incenso, assordati dalle grida, soffocati dalla calura, nel più forte dell'agitazione e della demenza.

—Madonna! Madonna! Madonna!

Erano le femmine rèttili che, giunte alla mèta, si alzavano. Una di loro fu sollevata dalle parenti, rigida come un cadavere; fu sostenuta in piedi e scossa. Pareva morta. Aveva tutto il viso polveroso, la fronte e il naso escoriati, la bocca piena di sangue. Quelle del soccorso le soffiarono sul viso perché riprendesse la conoscenza; le tersero la bocca con un pannolino che diventò vermiglio; la scossero di nuovo e la chiamarono per nome presso all'orecchio. Ella, d'improvviso, arrovesciò il capo indietro. Poi si gittò contro il cancello, abbrancò i ferri convulsa; e si mise a urlare come una partoriente.

Urlava e si dibatteva, coprendo ogni altro clamore. Un profluvio di lacrime le inondava la faccia, lavando la polvere e il sangue.

—Madonna! Madonna! Madonna!

E dietro di lei, a fianco di lei, altre sorgevano, vacillavano, si rianimavano, deprecavano.

—La grazia! La grazia!

Perdevano la voce, trascolorivano, cadevano di schianto, erano portate via di peso; mentre altre ancóra sorgevano come di sotterra.

—La grazia! La grazia!

A quegli urli che parevano lacerare i petti da cui irrompevano, a quelle sillabe iterate senza tregua con la stessa persistenza fidente e invitta, a quel denso fumo che s'appesantiva come una nube di tempesta, a quel contatto dei corpi, a quella mescolanza dei fiati, alla vista del sangue e delle lacrime, tutta la moltitudine in un punto fu posseduta da una sola anima, divenne un essere solo, miserabile e terribile, ch'ebbe un gesto, una voce, uno spasimo e un furore. Tutti i mali divennero un solo unico male che la Vergine doveva distruggere; tutte le speranze divennero una sola unica speranza che la Vergine doveva compire.

—La grazia! La grazia!

E sotto l'Imagine scintillante le fiamme dei cèrei tremarono a quel vento di passione.

VII

Ora sedevano all'aperto, in disparte, sotto gli alberi, Giorgio e Ippolita, stupefatti e abbattuti come due naufraghi scampati al periglio, silenziosi e quasi privi di pensiero, se bene ancor li attraversasse a quando a quando un brivido del recente orrore. Ippolita aveva gli occhi rossi di pianto. Ambedue, dentro il Santuario, nel momento tragico, erano stati invasi dal comune delirio; ed erano fuggiti, paventando la follia.

Ora sedevano in disparte, sul confine della largura, sotto gli alberi. Quel lembo di terreno era quasi deserto. Soltanto, intorno a qualche tronco scontorto di ulivo, stavano gruppi di giumenti coi basti vuoti, in una immobilità di forme inanimate; e rendevano triste l'ombra dell'albero. Giungeva il romorìo cupo della moltitudine formicolante; giungevano le cadenze del canto sacro, gli squilli delle trombe, i rintocchi delle campane; si vedevano le compagnie distendersi in lunghe file, girare intorno alla chiesa, entrarvi, uscirne.

—Vuoi dormire?—chiese Giorgio a Ippolita, accorgendosi ch'ella chiudeva le palpebre.

—No; ma non posso più vedere...

Giorgio provava la medesima ripugnanza. La continuità e l'acutezza delle sensazioni avevano trasceso la resistenza de' suoi organi. Lo spettacolo era divenuto intollerabile. Egli si levò.

—Vieni; àlzati—le disse.—Andiamo a sederci più in là.

Scesero in un avvallamento coltivato; cercarono un poco d'ombra. Il sole era ardentissimo. Ambedue pensarono alla loro casa di San Vito, alle belle stanze ariose in conspetto del mare.

—Soffri molto?—chiese Giorgio, scorgendo sul volto dell'amica i segni palesi della sofferenza e negli occhi di lei la cupa tristezza che già, dianzi, in mezzo alla folla, presso il pilastro del portico, lo aveva sbigottito,

—No. Sono stanchissima.

—Vuoi dormire? Perché non dormi un poco? Appòggiati a me. Vuoi? Ti sentirai meglio, dopo.

—No, no.

—Appòggiati. Aspetteremo che torni Cola, per andare a Casalbordino. Tu puoi riposarti, intanto.

Ella si tolse il cappello; poi si chinò verso di lui, appoggiò la testa.

—Come sei bella!—egli soggiunse, guardandola in quell'atto.

Ella sorrise. Di nuovo, la sofferenza la trasfigurava, metteva in lei una seduzione più profonda.

Egli soggiunse:

—Da quanto tempo tu non mi dài un bacio!

Si baciarono.

—Ora dormi un poco—egli pregò, teneramente.

Gli pareva rinnovellato il sentimento dell'amore, dopo tutte quelle cose orribili ed estranee che l'avevano sopraffatto. Di nuovo egli s'isolava, si restringeva in sé, respingeva qualunque comunione che non fosse con la creatura da lui eletta. Con una rapidità inconcepibile il suo spirito si liberava di tutti i fantasmi creati nel periodo dell'illusione mistica, dell'ideale ascetico; scoteva il giogo del «divino», ch'egli aveva tentato di sostituire alla sua volontà inerte disperando di risvegliarla. Provava ora per la «fede» il medesimo disgusto che aveva provato dentro la chiesa per la bestia immonda strisciante nella polvere consacrata. Rivedeva le mani grasse e pallide dei preti che ricevevano le offerte, e il dondolìo continuo delle nere figure dietro il cancello chiuso. Tutto era ignobile, e tutto negava la presenza di quel Signore che egli aveva sperato di conoscere in una rivelazione fulminea. Ma il grande esperimento era alfine compiuto. Egli aveva esperimentata l'aderenza materiale con lo strato infimo della sua razza; e non altro era sorto in lui se non un senso d'invincibile orrore. Il suo essere non aveva radici in quel fondo; non poteva aver nulla di comune con quella moltitudine che—come la maggior parte delle specie animali—aveva raggiunto il suo tipo definitivo, aveva definitivamente incarnato nella sua carne bruta la moralità de' suoi costumi. Da quanti secoli, per quante generazioni erasi perpetuato quel tipo immutabile? La specie umana aveva dunque un fondo interamente inerte che permaneva sotto le ondulazioni delle zone mobili superiori. Il tipo ideale dell'umanità non era dunque nel lontano futuro, non era al termine ignoto di un periodo progressivo; ma poteva soltanto manifestarsi alla sommità delle onde, negli esseri più elevati. Ora egli s'accorgeva che, volendo ritrovare tutto sé e riconoscere la sua vera essenza nel contatto immediato con la razza da cui era uscito, errava come chi volesse ricercar le cause della forma, della dimensione, della direzione, della velocità, della forza di un'onda marina nella massa acquea sottostante. Lo scopo dell'esperimento era fallito. Egli era estraneo a quella moltitudine come a una tribù di oceanidi; egli era anche estraneo al suo paese, alla terra natale, alla patria, com'era estraneo alla sua famiglia, alla sua casa. Egli doveva rinunziare per sempre a quella vana ricerca del punto fisso, dell'appoggio stabile, del sostegno sicuro. «Il senso ch'io ho del mio essere è simile a quello che può avere un uomo il quale, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di continuo mancargli l'appoggio, dovunque egli posi il piede.» Con questa imagine aveva egli rappresentato, una volta, la sua perpetua ansietà. Ma perché dunque, volendo conservare la vita, non diverrebbe egli, a forza di metodo, così valido e così agile da abituarsi a rimanere in equilibrio pur tra quelle diverse impulsioni e a danzare pur su l'orlo del precipizio liberamente e arditamente? Certo, egli voleva conservare la vita. N'erano una prova palese le sue stesse consecutive esperienze. In lui un istinto profondo, rimasto ancóra intatto, si sollevava con sempre nuovi artifizii a combattere l'estenuazione mortale. Quel suo sogno ascetico, con tanta ricchezza construito, con tanta eleganza ornato, che altro era se non un espediente per lottare contro la morte? Egli stesso, fin da principio, aveva posto il dilemma:—o seguire l'esempio di Demetrio, o darsi al Cielo. Aveva scelto il Cielo per conservare la vita. «Ora intendi lo spirito ad acquistare il disgusto della verità e della certezza, se vuoi vivere. Rinunzia all'acuta esperienza. Rispetta i veli. Credi nella linea visibile e nella parola proferita. Non cercare oltre il mondo delle apparenze creato dai tuoi sensi meravigliosi. Adora l'illusione.»

Ed egli già trovava un incanto in quell'ora fugace. La profondità della sua conscienza e l'infinita estensione della sua sensibilità lo inorgoglivano. I fenomeni innumerevoli che si succedevano nel suo mondo interiore, d'attimo in attimo, gli facevano apparire illimitata la potenza comprensiva della sua anima. Ed ebbe veramente un singolare incanto per lui quell'ora fugace in cui gli parve di scoprire nascosti rapporti ed analogie segrete tra le rappresentazioni del Caso e il suo sentimento.

Giungeva in confuso il romorìo della folla selvaggia da' cui vortici egli era uscito pur dianzi; giungeva in confuso, a tratti suscitandogli la visione istantanea d'una grande vampa sinistra ove si dibattevano in un tragico viluppo gli ossessi. E su quel romorìo incessante egli percepiva, ad ogni alito di aura, il fremito benigno dei rami che proteggevano la sua meditazione e il riposo d'Ippolita. Riposava Ippolita, assopita, con la bocca socchiusa, appena respirando; e un sudor lieve le inumidiva la fronte. Ella teneva le mani raccolte nel grembo, senza guanti, pallide; e l'imaginazione dell'amante vedeva tra le dita «la ciocca dei capelli strappati...» Appariva e spariva come quella ciocca, nella luce cruda sul terreno arsiccio, il fantasma dell'epilettico;—di quel medesimo che sotto il portico era caduto all'improvviso;—e si divincolava nella stretta di due uomini che volevano aprirgli a forza le mascelle e mettergli una chiave in bocca. Appariva e spariva il fantasma, quasi fosse il sogno della dormente esternato e reso visibile. «S'ella si risvegliasse e in lei il male sacro?» pensava Giorgio, con un brivido intimo. «L'imagine che si forma nel mio cervello m'è forse trasmessa da lei. Forse io vedo il suo sogno. E il suo sogno ha forse per causa la perturbazione che incomincia nei suoi organi e che aumenterà sino all'accesso. Non è talvolta un sogno il presagio d'un morbo covato?» Ed egli s'indugiò nel considerare quei misteri della sostanza animale, intuiti vagamente. Sul fondo diffuso della sua sensibilità organica, già rischiarato dai cinque sensi soprani, andavano a poco a poco apparendo altri sensi intermedii le cui percezioni sottilissime scoprivano un mondo fin allora sconosciuto. Non poteva egli trovare nell'infermità occulta d'Ippolita uno stato favorevole per comunicar con lei in qualche modo straordinario?

Egli la guardava intento, come sul letto in quel primo giorno già lontanissimo. Vedeva sul volto di lei tremolare le ombre leggere dei rami penduli. Udiva il fragore incessante che si propagava dal Santuario per la luce infinita. La tristezza gli ripiombò sul cuore; di nuovo la stanchezza lo vinse. Appoggiò il capo al tronco dell'albero; chiuse gli occhi, senza più pensare.

Stava per invaderlo il sonno, quando un sussulto d'Ippolita lo scosse.

—Giorgio!

Ella si destava sbigottita, confusa, come se non riconoscesse i luoghi; e, offesa dalla gran luce, si copriva le palpebre con le mani, lamentandosi.

—Dio mio, che dolore!

Si lamentava d'un dolore alle tempie.

—Dove siamo? Ah, è tutto un brutto sogno!

—Io non dovevo condurti—disse Giorgio, inquieto.—Come mi pento!

—Non ho la forza d'alzarmi. Aiutami.

Egli la sollevò per le braccia. Ella vacillò, si afferrò a lui, presa da una vertigine.

—Che hai? Che ti senti?—gridò egli, con la voce mutata, invaso dal pànico, credendo ch'ella fosse colpita da un accesso del male, là, nell'aperta campagna, lungi da ogni soccorso.—Che hai? Che hai?

E la strinse forte, se la tenne stretta sul cuore che gli batteva con una violenza orribile.

—No, no, non è nulla,—balbettò Ippolita che subitamente aveva compreso il terrore di lui e s'era fatta smorta,—non è nulla... Mi gira un po' il capo. Il sole m'ha stordita. Non è nulla...

Ella aveva le labbra quasi bianche ed evitava di guardare negli occhi l'amante. Egli non poteva ancóra dominare l'ambascia ed era punto dal rammarico di aver ridestato in lei la preoccupazione paurosa e l'onta. Gli tornavano alla memoria le parole d'una lettera: «Se questo male mi prendesse fra le tue braccia? No, no, io non ti vedrò più, non voglio più vederti!»

Ella disse, piano:

—È passato. Sto meglio. Ma ho sete. Dove si potrà bere?

—Laggiù, intorno alla chiesa, dove sono le tende—rispose Giorgio.

Ella negò col capo, vivacemente.

—Andrò io. Tu mi aspetterai qui.

Ella negò, ostinata.

—Manderemo Cola. Dev'esser qui nelle vicinanze. Ora lo chiamo.

—Sì, chiamalo. Ma andiamo a Casalbordino. Beveremo là. Posso resistere. Moviamoci.

Ella si appoggiò al braccio di Giorgio. Risalirono il declivio; giunti sul ciglio, rividero il piano gremito di popolo, le baracche bianche, l'edifizio rossastro. Ancóra intorno ai tronchi contorti degli olivi le forme malinconiche dei giumenti stavano immobili. Da presso, nell'ombra medesima ove prima entrambi s'erano rifugiati, stava seduta una vecchia che all'aspetto pareva centenaria: anch'ella immobile, con le mani posate su le ginocchia, con le scarne tibie scoperte fuor della gonna. I capelli bianchi le scendevano lungo le gote ceree; la bocca non aveva labbra, simile a una ruga profonda; gli occhi erano suggellati per sempre dalle palpebre sanguinose; in tutto il suo aspetto era come diffusa una memoria di dolori innumerabili.

—È morta?—disse Ippolita sommessamente, soffermandosi, compresa di timore e di reverenza.

La moltitudine tumultuava intorno al Santuario. Le compagnie turbinavano, cantando, sotto il sole crudele. Una di esse, uscendo dalla porta maggiore, si dirigeva verso lo spazio sgombro, preceduta dal crocifero. Uomini e donne, giunti a poca distanza dal confine, si arrestarono e si rivolsero verso il tempio, disponendosi in semicerchio; le donne accosciate, gli uomini in piedi, il crocifero nel centro. Pregarono e si segnarono. Poi gittarono verso il tempio un alto grido concorde: l'ultima salutazione. E ripresero il cammino, intonando l'inno.

Viva Maria!

Maria evviva!

La vecchia non mutò attitudine. Qualche cosa di grande, di terribile e d'indefinitamente soprannaturale emanava dalla sua vecchiezza solitaria all'ombra dell'olivo arido e quasi lapideo, il cui tronco bipartito pareva segnato dalla folgore del Cielo. Se pure ella era ancóra vivente, certo i suoi occhi non vedevano, i suoi orecchi non udivano, tutti i suoi sensi erano estinti. Tuttavia ella aveva l'aspetto di una Testimone, volta verso la parte invisibile dell'eternità.

«La morte non è tanto misteriosa quanto quel residuo di vita in quella ruina umana!» pensò Giorgio mentre si levava nel suo spirito, con un sentimento straordinario, l'imagine vaga di un mito antichissimo. «Perché non risvegli tu la Madre secolare che dorme su la soglia della morte? Nel suo sonno è la Scienza primiera. Perché non interroghi tu la saggia Madre terrestre?...» Vaghe parole, frammenti d'incerte epopee lontane, gli si risvegliavano nella memoria; indefinite linee di simboli ondeggiando lo avvolgevano.

—Andiamo, Giorgio—disse Ippolita, scotendolo lievemente, dopo un intervallo di silenzio pensoso.—Come tutto è triste qui!

Ella aveva la voce estenuata, e negli occhi quella cupa ombra in cui l'amante leggeva un orrore e un rancore inesprimibili. Egli non osava confortarla, per tema ch'ella sentisse nel conforto una preoccupazione dell'orrenda minaccia che pareva pendere su lei fin dal momento in cui ella aveva veduto stramazzare l'epilettico tra la folla.

Ma, dopo pochi passi, ella di nuovo s'arrestò, come soffocata da un'ambascia che non potesse reprimere, come stretta da un nodo di pianto che non potesse sciogliere. Guardò l'amante, guardò intorno a sé, perdutamente.

—Dio, Dio, che tristezza!

Era una tristezza tutta corporea, una tristezza brutale, che saliva dal fondo della sua sostanza, come una cosa densa e greve, opprimendola d'un peso insostenibile. Ella avrebbe voluto lasciarsi cadere a terra, come sotto una soma esorbitante, per non rialzarsi più; avrebbe voluto perdere la conscienza, divenire una massa inerte, esalare la vita.

—Dimmi, dimmi che vuoi ch'io faccia! Dimmi che posso fare per sollevarti!—balbettava Giorgio, tenendola per le mani, agitato da uno sgomento folle.

Non era forse quella tristezza la larva del male?

Per alcuni istanti ella rimase fissa, con gli occhi leggermente stravolti. Trasalì ferita dal grido che mise, poco di lungi, una compagnia salutando il tempio nel partire.

—Conducimi in qualche luogo. C'è forse un albergo a Casalbordino... Dove sarà Cola?

Giorgio acuiva la vista sperando di scorgere il vecchio.

—Forse va in cerca di noi tra la folla—egli disse—o s'è incamminato per Casalbordino credendo di trovarci lassù...

—Andiamo soli, allora. Vedo, là in fondo, le vetture.

—Andiamo, se tu vuoi. Ma appòggiati a me.

Si diressero verso la strada che biancheggiava lungo un lato del piano. Pareva che lo strepito li incalzasse. La tromba d'un giocoliere mandava squilli acutissimi dietro di loro. La sempre eguale cadenza dell'inno persisteva su tutte le altre voci con la sua continuità esasperante.

Viva Maria!

Maria evviva!

Un accattone comparve d'improvviso come se fosse balzato di sotterra; e tese la mano.

—La carità, per amore della Madonna!

Era un giovine, col capo fasciato da un fazzoletto rosso che per un lembo gli copriva un occhio. Sollevò il lembo e mostrò l'occhio enorme, gonfio come una borsa, purulento, in cui il battito della palpebra superiore metteva un tremolìo orribile a vedersi.

—La carità, per amore della Madonna!

Giorgio gli fece l'elemosina; ed egli ricoprì la bruttura. Ma, poco oltre, un uomo gigantesco, sanguigno, monco d'un braccio, si trasse a metà la camicia per mostrare la cicatrice increspata e rossastra dell'amputazione.

—Un morso! Il morso d'un cavallo! Guardate! Guardate!

E si gittò a terra, così scoperto; e baciò la terra più volte, gridando ogni volta con una voce aspra:

—Misericordia!

Un altro accattone, uno storpio, stava sotto un albero, su un giaciglio composto d'un basto, d'una pelle di capra, d'una scatola da petrolio vuota e di grosse pietre. Avvolto in un lenzuolo lurido, d'onde uscivano due stinchi vellosi e chiazzati di fango secco, egli agitava rabbiosamente una mano ritorta come una radice, per cacciare le mosche che lo assalivano a nugoli.

—La carità! La carità! Fate la carità! La Madonna vi farà la grazia. Fate la carità!

Scorgendo altri mendicanti che accorrevano, Ippolita affrettò il passo, Giorgio chiamò con i gesti il vetturale più vicino. Come furono nella vettura, Ippolita esclamò con un respiro di sollievo:

—Ah finalmente!

—C'è un albergo in Casalbordino?—chiese Giorgio al vetturale.

—Sì, signore; c'è.

—Quanto tempo per arrivare?

—Scarsa mezz'ora, signore.

—Andiamo.

Egli prese le mani d'Ippolita; tentò di rallegrarla.

—Su, coraggio! Avremo una stanza, potremo riposarci. Non vedremo più nulla, non sentiremo più nulla. Anch'io son rotto di fatica e ho la testa vuota...

Soggiunse, sorridendo:

—Non hai un poco di fame?

Ella rispose al sorriso. Egli ancóra soggiunse, evocando la memoria del vecchio albergo di Ludovico Togni:

—Sarà come ad Albano. Ti ricordi?

Gli pareva che a poco a poco ella si rischiarasse. Volle trarla a pensieri lievi e lieti.

—Che farà Pancrazio? Ah, uno di que' suoi aranci, ora! Ti ricordi? Non so che darei per un arancio... Hai molta sete? Soffri?

—No... Mi sento meglio. Non mi par vero che il supplizio sia finito. Dio mio! Non mi potrò mai dimenticare di questo giorno; mai, mai.

—Povera anima!

Egli le baciò le mani, teneramente. Poi, indicando i campi che limitavano la via, esclamò:

—Guarda com'è bello il grano! Purifichiamo la nostra vista.

Di qua, di là, si stendevano le mèssi incontaminate, già mature per la falce, alte e folte, respiranti nella luce per i vertici leggeri delle spighe innumerevoli che parevano a tratti vampeggiare quasi convertite in un oro evanescente. Solitarie sotto il limpido arco del cielo, esalavano uno spirito di purità che i due cuori contristati e affaticati ricevettero come un refrigerio.

—Ma che riverbero forte!—disse Ippolita socchiudendo i suoi lunghi cigli.

—Tu hai le tue cortine...

Ella sorrise. Pareva che la sua nube di tristezza fosse per disciogliersi.

Alcune vetture alla fila venivano incontro, discendendo verso il Santuario. Sollevarono nel passaggio un nembo di polvere soffocante. Per qualche minuto la polvere nascose la strada, le siepi, i campi, tutto intorno, bianchissima.

—La carità, per amore della Madonna! La carità! La carità!

—Fate la carità, per la Vergine dei Miracoli!

—Date l'elemosina a una povera anima di Dio!

—La carità! La carità!

—Date l'elemosina!

—Date un tozzo di pane!

—La carità!

Una due tre quattro cinque voci, più e più voci d'esseri ancóra invisibili, proruppero in mezzo al nembo, rauche, acute, aspre, cavernose, umili, irate, singhiozzanti, tutte diverse e discordi.

—Date l'elemosina!

—Fate la carità!

—Ferma! Ferma!

—La carità, per Maria Santissima dei Miracoli!

—La carità! La carità!

—Ferma!

E tra la polvere apparve in confuso un viluppo di mostri. Uno dalle mani mozze agitava i moncherini sanguigni come se la troncatura fosse ancor fresca o mal cicatrizzata. Un altro aveva le palme munite d'un disco di cuoio e su quelle trascinava a fatica la massa del corpo inerte. Un altro aveva un gran gozzo grinzoso e violaceo che gli ondeggiava come una giogaia. Un altro, per una crescenza del labbro, pareva tenesse fra i denti un brano di fegato crudo. Un altro mostrava il volto devastato da una erosione profonda che gli scopriva le fosse nasali e la mascella di sopra. Altri mostravano altri orrori, a gara, con gesti violenti, con attitudini quasi di minaccia, come per far prevalere un diritto.

—Ferma! Ferma!

—Date l'elemosina!

—Guardate! Guardate! Guardate!

—A me! A me!

—Date l'elemosina!

—Fate la carità!

—A me!

Era un assalto, era quasi un'imposizione. Tutti parevano risoluti ad esigere l'obolo, a costo d'abbrancarsi alle ruote e d'afferrare le zampe dei cavalli.

—Ferma! Ferma!

Mentre Giorgio cercava nelle sue tasche le monete per gittarle alla marmaglia, Ippolita si stringeva contro di lui, presa alla gola dal disgusto, incapace omai di dominare il fantastico terrore che la invasava sotto quella gran luce bianca, in quella terra ignota brulicante d'una vita così lugubre.

—Ferma! Ferma!

—Date l'elemosina!

—A me! A me!

Ma il vetturale s'adirò; e, drizzatosi a un tratto, brandendo la frusta nel pugno gagliardo, prese a percuotere con tutta la sua forza gli accattoni; ed ogni colpo accompagnava di vituperii. Sibilava nell'aria la corda serpentina. Colpiti, gli accattoni imprecavano ma non si ritraevano. Ciascuno voleva la sua parte.

—A me! A me!

Giorgio allora gittò un pugno di monete nella polvere; e la polvere coperse la mischia dei mostri, soffocò le bestemmie. Quello dalle mani mozze e quello dalle gambe fiaccate tentarono ancóra di seguir la vettura per un tratto; ma, alla minaccia della sferza, s'arrestarono.

—Non t'intimorire, signora,—disse il vetturale.—Nessuno più s'accosterà. Te lo prometto.

Voci nuove sorgevano: gemevano, urlavano, invocavano la Vergine e Gesù, dichiaravano la natura delle deformità e delle piaghe, narravano la malattia o la disgrazia. Oltre l'agguato di quel primo gruppo facinoroso, un esercito di pezzenti si distendeva in due catene ai lati della strada sino alle case lontane del borgo.

—Dio mio, Dio mio, che paese maledetto!—mormorò Ippolita, esausta, sentendosi venir meno.—Andiamo via! Andiamo via! Torniamo indietro! Ti prego, Giorgio: torniamo indietro!

Nulla,—né il vortice di demenza che trascinava le turbe fanatiche intorno al tempio; né le grida disperate che sembravano partire da un incendio o da un naufragio o da una carneficina; né i vecchi tramortiti e sanguinolenti che giacevano ammucchiati lungo le pareti della stanza votiva; né le femmine convulse che strisciavano verso l'altare lacerandosi la lingua contro la pietra; né il supremo clamore prorotto dalle viscere della moltitudine confusa in un solo spasimo e in una speranza sola—nulla, nulla eguagliava in terribilità lo spettacolo di quella grande erta polverosa, accecante di bianchezza, su cui tutti quei mostri della miseria umana, tutti quegli avanzi d'una razza disfatta, corpi accomunati alla bestia immonda e alla materia escrementale, ostentavano fuor de' cenci le loro brutture e le proclamavano.

Era una tribù innumerevole, che occupava i ciglioni e le fosse, con le famiglie, con le figliolanze, con le parentele, con le masserizie. Vi si vedevano femmine seminude, sfiancate come cagne dopo il parto, e fanciulli verdi come ramarri, macilenti, con gli occhi rapaci, con la bocca già appassita, taciturni, che covavano nel sangue il morbo ereditario. Ciascuna comunità aveva il suo mostro: un monco, uno storpio, un gobbo, un cieco, un epilettico, un lebbroso. Ciascuna aveva in patrimonio la sua ulcera da coltivare perché rendesse. Incitato, il mostro si distaccava dal gruppo, s'avanzava nella polvere, gesticolava e implorava a benefizio comune.

—Fate la carità se volete la grazia! Date l'elemosina! Guardate la vita mia! Guardate la vita mia!

Un monòmero, fosco e camuso come un mulatto, con una gran capellatura leonina, raccoglieva la polvere tra i suoi cincinni e poi squassava la testa circondandosi di una nube. Una erniaria, d'età inconoscibile, che più non aveva aspetto umano, accosciata sotto un palo, sollevava il grembiule per mostrare la sua ernia enorme e giallognola come una vescica di sevo. Un elefantiaco seduto a terra indicava una gamba massiccia come un tronco di quercia, coperta di verruche e di croste gialle, qua e là abbronzita o nera, così smisurata che pareva non gli appartenesse. Un cieco, in ginocchio, con le palme rivolte al cielo, nell'attitudine di un estatico, aveva sotto una vasta fronte calva due piccoli fóri sanguinosi. Altri, altri ancóra si presentavano, fin dove giungeva la vista, nel barbaglio del sole. Tutta la grande erta n'era infestata, senza intervallo. Le implorazioni si propagavano ininterrotte, elevandosi, abbassandosi, in coro, a contrasto, con mille accenti. L'ampiezza della campagna solitaria, il cielo deserto e muto, il riverbero allucinante della via ignea, l'immobilità delle forme vegetali, tutte le cose intorno rendevano più tragica l'ora evocando l'imagine biblica d'un cammino di desolazione che conducesse alle porte d'una città maledetta.

—Andiamo via! Torniamo indietro! Ti prego, Giorgio; torniamo indietro!—ripeteva Ippolita, con un fremito d'orrore, dominata dall'idea superstiziosa d'un castigo divino, paventando altri e più atroci spettacoli sotto quel cielo rovente e vacuo per ove incominciava a spandersi un rombo metallico.

—Ma dove andremo? Dove andremo?

—Dovunque, dovunque. Torniamo indietro, laggiù, al mare. Aspetteremo l'ora di partire, laggiù... Ti prego!

E il digiuno e la tortura della sete e l'ardore dell'aria aumentavano in ambedue il turbamento dello spirito.

—Vedi? Vedi?—gridò ella, fuori di sé, come davanti a un'apparizione soprannaturale.—Vedi? Non finirà mai!

Nella luce, nella luce bianca e implacabile, s'avanzava verso di loro uno stuolo d'uomini e di femmine in cenci preceduto da una specie di banditore che vociava agitando un piatto di rame. E quegli uomini e quelle femmine portavano in spalla un pancone coperto d'un pagliericcio su cui giaceva un'inferma dall'aspetto cadaverico, una creatura scheletrita e gialligna, stretta in fasce di tela come una mummia, coi piedi nudi. E il banditore—ch'era olivastro e serpentino e aveva gli occhi d'un folle—mostrando la moribonda, narrava ad alta voce com'ella, inferma d'un flusso di sangue da più anni, avesse ottenuto il miracolo dalla Vergine all'alba di quel giorno medesimo. E implorava l'elemosina perché ella, liberata dal male, potesse rinsanguarsi. E agitava il piatto di rame su cui alcune monete tintinnivano.

—La Madonna ha fatto il miracolo! Il miracolo! Il miracolo! Date l'elemosina! Per la misericordia di Maria Santissima, fate la carità!

E gli uomini e le femmine, concordemente, contraevano il viso nell'atto di piangere. E l'emorroissa levava a pena in un gesto vago le mani òssee movendo le dita come per prendere qualche cosa nell'aria; mentre i suoi piedi nudi, gialligni come le mani, come la faccia, lucidi ai malleoli, avevano una rigidità mortale. E tutto appariva nella luce bianca e implacabile, da presso, da presso, sempre più da presso...

—Torna indietro! Torna indietro!—gridò Giorgio al vetturale.—Volta e sferza!

—Siamo arrivati, signore. Di che hai paura?

—Torna indietro!

E l'ordine fu così reciso che il vetturale voltò i cavalli, in mezzo a un vocìo assordante.

—Sferza! Sferza!

E giù per la discesa fu come una fuga, tra nuvoli di polvere densi che fendeva a tratti qualche urlo rauco.

—Dove andiamo, signore?—chiese il vetturale, curvandosi nel nembo.

—Giù, giù, al mare. Sferza!

Giorgio sorreggeva Ippolita quasi svenuta, senza cercare di rianimarla. Non era in lui se non un senso confuso della realtà di tutto quel che avveniva. Imagini reali e fantastiche gli turbinavano nello spirito e lo allucinavano. Un rombo continuo gli occupava l'orecchio e gli impediva di percepire altri romori distinti. Gli stringeva il cuore un'ansietà angosciosa, come nell'incubo: l'ansietà di escir fuori dalla zona di quel sogno orrendo, l'ansietà di riacquistare la conoscenza primiera e di sentir palpitare viva sul suo petto la creatura amata e di rivederne il sorriso tenero.

Viva Maria!

Ancóra una volta gli giunse l'onda dell'inno; ancóra una volta la Casa della Vergine gli apparve, a sinistra, sul brulichìo innumerevole, rossastra in un incendio di sole, sovrastante ai vertici delle tende profane, irraggiante un potere formidabile.

Viva Maria!

Maria evviva!

E l'onda si dileguò; e, in una curva della discesa, il Santuario scomparve. E, all'improvviso, quasi un alito fresco passò sopra le larghe mèssi che fluttuarono. E una lunga lista cerulea secò l'orizzonte.

—Ecco il mare! Ecco il mare!—proruppe Giorgio, come se in quel punto avesse toccata la sua salvezza.

E il cuore gli si dilatava.

—Su, anima! Guarda il mare!

LIBRO QUINTO

TEMPVS DESTRVENDI


I

Su la loggia, la mensa era gaia con le sue porcellane chiare, con i suoi cristalli azzurrini, con i suoi garofani rossi, nella luce dorata d'una grande lampada fissa che attirava tutte le farfalle notturne sparse per la sera estiva.

—Guarda, guarda, Giorgio! Questa è infernale... Ha due occhi di demonio. Vedi come luccicano?

Ippolita indicava una farfalla, maggiore delle altre, d'aspetto singolare, coperta d'una densa pelurie fulva, con occhi sporgenti che contro luce riscintillavano come due scagliette di carbonchio.

—Ti viene addosso! Ti viene addosso! Sàlvati!

Ella rideva d'un riso effuso, prendendosi gioco dell'inquietudine istintiva che Giorgio non sapeva nascondere quando uno di quegli insetti stava per sfiorarlo.

—Ah, bisogna che io l'abbia!—esclamò ella, con l'impeto d'un capriccio puerile, tentando di far prigioniera la farfalla diabolica che aliava intorno alla lampada senza posarsi.

I suoi tentativi repentini e violenti furono inutili. Ella rovesciò un bicchiere, fece crollare un cumulo di frutti su la tovaglia, corse il rischio di spezzare il paralume.

—Eh, che furia!—disse Giorgio incitandola. —Non riuscirai.

—Sì; riuscirò—rispose la pervicace, guardandolo negli occhi.—Vuoi tu scommettere?

—Che cosa?

—Qualunque cosa.

—Bene: a discrezione.

—A discrezione.

Ella portava diffuso pel volto, alla luce calda, il suo più ricco e più dolce colore: quell'ideal colore «materiato d'ambra pallida e d'oro opaco e forse di qualche rosa un po' disfatta», in cui Giorgio Aurispa a Venezia aveva creduto rinvenire tutto il mistero e tutta la bellezza dell'antica anima veneziana emigrata nel dilettoso reame di Cipro. Ella portava tra i capelli un garofano, acceso come un desiderio. E i suoi occhi ombrati dai cigli risplendevano come i laghi tra i salici nei crepuscoli.

Ella appariva, così, la donna di delizia, il forte e delicato strumento di piacere, l'animale voluttuario e magnifico destinato a illustrare una mensa, a rallegrare un letto, a suscitare le fantasie ambigue d'una lussuria estetica. Ella così appariva nello splendore massimo della sua animalità: lieta, irrequieta, pieghevole, morbida, crudele.

Giorgio pensava, guardandola con una curiosità intenta: «Di quante diverse apparenze ella si veste agli occhi miei! La sua forma è disegnata dal mio desiderio; le sue ombre sono prodotte dal mio pensiero. Ella, quale m'appare in tutti gli istanti, non è se non l'effetto d'una mia continua creazione interiore. Ella non esiste se non in me medesimo. Le sue apparenze sono mutevoli come i sogni dell'infermo. Gravis dum suavis! Quando?» Era assai confuso nella sua memoria il tempo in cui egli l'aveva insignita di quel titolo di nobiltà ideale, baciandola su la fronte. Quella esaltazione era per lui ora quasi inconcepibile. Confusamente gli ripassavano nella memoria parole proferite da lei, che sembravano rivelare uno spirito profondo. «Chi parlava in lei, allora, se non il mio spirito? Fu una delle mie ambizioni dare alla mia anima triste quelle labbra sinuose, affinché esalasse il suo dolore per un tramite di bellezza insigne.»

Egli guardò quelle labbra. Si contraevano un poco, non senza grazia, partecipando all'intensità di attenzione con cui Ippolita cercava di cogliere l'attimo opportuno per sorprendere la farfalla nottivaga.

Ella ora usava una cauta astuzia nelle insidie, volendo con un sol gesto fulmineo serrare nel cavo della mano la preda alata che turbinava intorno al lume senza posarsi. Corrugava i sopraccigli; e pareva si tendesse come un arco, pronta allo scatto. Due o tre volte scattò, ma inutilmente. La farfalla era inafferrabile.

—Datti per vinta—disse Giorgio.—Sarò discreto.

—No.

—Datti per vinta.

—No. Guai se la prendo.

Ed ella seguitò la caccia, con una pazienza fremente.

—Oh, è volata via!—esclamò Giorgio, perdendo di vista l'agile adoratrice della fiamma.—È fuggita.

Ippolita si levò con dispetto vero, accesa veramente dalla scommessa; e girò lo sguardo acuto intorno per scoprire la fuggitiva.

—Eccola!—gridò trionfante.—Là, sul muro. Vedi?

E mostrò di pentirsi del grido.

—Non ti muovere—soggiunse a bassa voce, rivolta verso il compagno.

La farfalla s'era posata sul muro luminoso; e rimaneva immobile, simile a una piccola macchia bruna. Ippolita le s'accostava con infinita cautela; e il suo bel corpo snello e flessibile si disegnava in ombra su lo stesso muro bianco. Rapida la mano si levò, strisciò afferrando.

—È mia! L'ho nel pugno.

E una infantile allegrezza l'agitava.

—Ora che ti farò? Te la metterò nel collo. Sei anche tu in mio potere.

E accennava a eseguir la minaccia, come nel giorno della corsa su per la collina.

Giorgio rideva, conquistato dalla spontaneità di quell'allegrezza che suscitava in lui quanto di giovine non era ancor perito.

—Via,—pregò—ora siediti; e mangia i tuoi frutti in pace.

—Aspetta, aspetta.

—Che vuoi fare?

—Aspetta.

Ella si tolse lo spillo che le fermava il garofano nei capelli, e se lo pose tra le labbra. Poi pianamente aprì il pugno, prese la farfalla per le ali; e si accinse a trafiggerla.

—Che crudeltà!—disse Giorgio.—Come sei crudele!

Ella sorrise, intenta all'opera, mentre la piccola vittima batteva le ali già sfiorite.

—Come sei crudele!—ripeté Giorgio, con un accento più sommesso ma più grave, considerando nel volto d'Ippolita un'espressione ambigua tra di compiacenza e di ripugnanza, che pareva significare com'ella trovasse uno speciale gusto nel pungere e nel premere la sua propria sensibilità artificialmente.

Egli credeva ch'ella avesse manifestato appunto il gusto morboso di una simile irritazione in alcuni dei casi occorsi. Non un sentimento puro di misericordia aveva occupato il cuore di lei innanzi all'agonia del bimbo su l'aia, innanzi alle lacrime e al sangue dei pellegrini nel Santuario. Ed egli, nella memoria, anche la rivedeva accelerare il passo verso il gruppo dei curiosi chini contro il parapetto del Pincio a distinguere le tracce lasciate sul lastrico dal suicida.

«La crudeltà è latente in fondo al suo amore» egli pensò. «Qualche cosa di distruttivo è in lei, più palese quanto più forte è il suo orgasmo nelle carezze...» E rivedeva, nella memoria, l'imagine terrifica e quasi gorgònea della donna quale più volte era apparsa, tra le palpebre socchiuse, a lui convulso in uno spasimo o inerte in uno sfinimento estremo.

—Guarda!—ella gli disse, mostrandogli la farfalla trafitta che ancóra agitava le ali.—Guarda come le brillano gli occhi!

E la opponeva in varii modi alla luce con l'atto di chi voglia suscitare le iridi in una gemma.

—È un bel fermaglio—soggiunse; e se l'appuntò ne' capelli, con un gesto leggero.

Poi, guardando Giorgio in fondo alle pupille:

—E tu sempre pensi, pensi, pensi! Ma a che pensi? Prima, almeno, parlavi; e forse anche troppo. Ora sei diventato taciturno, con un'aria di mistero e di congiura... Hai qualche cosa contro di me? Parla, anche se devi farmi male.

Il suo accento era d'impazienza e di rimprovero, mutato a un tratto. Ella s'accorgeva, anche una volta, che l'amante non era stato se non uno spettatore riflessivo e solitario, un osservatore vigile e forse ostile.

—Parla, dunque! Meglio le cattive parole d'un tempo che questo silenzio misterioso. Che hai? Sei scontento d'essere qui? Sei infelice? La mia presenza continua ti affatica? Ti ho deluso?

Assalito di fronte e all'improvviso, egli s'inasprì ma contenne l'acredine; anzi cercò di sorridere.

—Perché mi fai queste domande strane?—egli disse con calma.—Ti dà fastidio forse il mio pensiero? Penso, come sempre, a te e alle cose che ti toccano.

Sùbito soggiunse con un sorriso dolce, per tema ch'ella sentisse un'ombra d'ironia nelle sue parole.

—Tu rendi il mio spirito fecondo. È così piena la mia vita interna, quando io mi trovo davanti a te, che mi dispiace il suono della mia voce.

Ella s'appagò di quelle parole affettate che sembravano inalzarla a un officio spirituale, rivelarla creatrice di una vita superiore. L'espressione del suo volto divenne grave, mentre ne' suoi capelli la farfalla notturna batteva le alette con una rapidità incessante.

—Lasciami tacere, senza sospetti—egli continuò, già consapevole del mutamento operato dal suo artifizio nell'anima feminile che le idealità dell'amore affascinavano ed esaltavano.—Lasciami tacere. Forse chiedi tu che io parli quando mi vedi morire sotto la carezza che prediligi? Ebbene, non la tua bocca soltanto ha la potenza di produrre in me sensazioni che trascendono ogni limite conosciuto. Tu produci in me, d'ora in ora, anche eccessi di sentimento ed eccessi di pensiero. Tu non potrai mai imaginare quali turbini susciti nel mio cervello una sola delle tue attitudini visibili. Non potrai mai imaginare quali spettacoli apra dentro di me il più lieve de' tuoi gesti. Mentre tu ti muovi, mentre tu parli, io assisto a una successione di prodigi. Talvolta tu mi dài come il ricordo di una vita che io non ho mai vissuta. Immensità di tenebre s'illuminano d'improvviso e mi rimangono come conquiste insperate. Che sono allora il pane, il vino, i frutti, tutte queste cose materiali con cui comunicano i miei sensi? Che sono le operazioni stesse dei miei organi, le manifestazioni esterne della mia esistenza corporea? Quasi mi sembra che, parlando la mia bocca, non debba giungere il suono della mia voce nelle profondità dove io vivo. Quasi mi sembra che io debba rimanere immobile e muto per non turbare la mia visione, mentre tu passi continuamente trasformandoti attraverso mondi che tu medesima hai rivelato...

Egli parlava con lentezza, guardando Ippolita fiso, come incantato da quel volto straordinariamente luminoso che incoronavano i capelli più cupi e più profondi della notte, in mezzo ai quali una cosa viva e moritura metteva un bàttito incessante. Quel volto, ch'era così vicino e che a lui pareva intangibile, e gli oggetti sparsi su la mensa, e gli alti fiori purpurei, e quel turbinìo di lievi forme alate intorno alla sorgente della luce, e la pura calma che scendeva dalle stelle, e il respiro musicale che saliva dal mare, e tutte insomma le apparenze che si riflettevano nella sua sensibilità, tutte erano per lui apparenze di sogno. La sua persona medesima, la sua voce medesima erano fittizie. La successione dei suoi pensieri e delle sue parole si produceva in un modo facile e vago. Come nella notte lunare al cospetto della vigna oltremirabile, ora la sostanza della sua vita e della vita di tutte le cose dissolvevasi in vapore di sogno.

II

Di sotto alla tenda piantata su la ghiaia, ancóra seminudo dopo il bagno egli guardava Ippolita ch'era rimasta al sole presso le acque avvolta nell'accappatoio bianco. Guardando, egli aveva negli occhi a tratti scintillazioni quasi dolorose; e la gran luce meridiana gli dava un senso nuovo di malessere fisico misto a una specie di vago sgomento. Era l'ora terribile, l'ora pànica, l'ora suprema della luce e del silenzio, imminente su la vacuità della vita. Egli comprendeva la superstizione pagana: l'orrore sacro dei meriggi canicolari su la plaga abitata da un dio immite ed occulto. In fondo a quel suo vago sgomento si moveva qualche cosa di simile all'ansietà di chi sia nella attesa di un'apparizione repentina e formidabile. Pareva egli a sé stesso quasi puerilmente debole e trepido, come diminuito d'animo e di forze dopo una prova sfavorevole. Immergendo il suo corpo nel mare, dando la fronte al sole pieno, percorrendo a nuoto una breve distanza, esperimentandosi nell'esercizio già prediletto, misurando il suo respiro sul soffio dello spazio illimitato, egli aveva sentito per indizii indubitabili l'impoverimento del suo vigore, la declinazione della sua giovinezza, tutta l'opera distruttiva della Nemica; aveva sentito ancóra una volta il ferreo cerchio restringersi intorno alla sua attività vitale e ridurne ancóra una zona all'inerzia e all'impotenza. Il senso di quel languore muscolare gli diveniva più profondo come più egli guardava la figura della donna alzata nella luce del giorno.

Ella aveva disciolti i suoi capelli perché si asciugassero; e le ciocche ammassate dall'umidità le cadevano su gli òmeri così cupe che sembravano quasi di viola. Il suo corpo svelto ed eretto, come avvolto nelle pieghe di un peplo, si disegnava metà sul campo glauco del mare e metà su la chiarissima trasparenza celeste. Appena si scorgeva fuor della capellatura il profilo della faccia reclinata e intenta. Ella era tutta assorta in un suo piacere alterno:—metteva i piedi nudi su la ghiaia scottante, mantenendoveli sin che fosse per lei sostenibile l'ardore; e poi così caldi li tuffava nell'acqua blanda che lambiva la ghiaia. E in quella duplice sensazione ella pareva gustare una voluttà infinita, obliosamente.—Ella si temprava, si fortificava, comunicando con le cose libere e sane, lasciandosi penetrare dalla salsedine e dal raggio. Come mai poteva ella essere, nel tempo medesimo, così inferma e così valida? Come mai poteva ella conciliare nella sua sostanza tante contrarietà e assumere tanti diversi aspetti in un giorno, in un'ora sola? La donna taciturna e triste che covava dentro di sé il male sacro, il morbo astrale; l'amante cupida e convulsa il cui ardore era talvolta quasi spaventevole, la cui lussuria aveva talvolta apparenze quasi lugubri d'agonia; quella stessa creatura, alzata sul lido del mare, poteva raccogliere e sostenere ne' suoi sensi tutta la naturale delizia sparsa nelle cose che la circondavano, apparire simile ai simulacri della Bellezza antica inchinati sul cristallo armonioso di un ellesponto.

La superiorità di quella resistenza era palese. Giorgio la considerava con un rammarico che a poco a poco addensandosi assumeva la gravità di un rancore. Il sentimento della sua debolezza s'intorbidava di odio, mentre la sua perspicacia si faceva sempre più lucida e quasi vendicativa.

Non erano belli i piedi nudi ch'ella a volta a volta scaldava su la ghiaia e rinfrescava nell'acqua; erano anzi difformati nelle dita, plebei, senz'alcuna finezza; avevano l'impronta manifesta della bassa stirpe. Egli li guardava intentamente; non guardava se non quelli, con uno straordinario acume di percezione e di esame, come se le particolarità della forma dovessero rivelargli un segreto. E pensava: «Quante cose impure fermentano nel suo sangue! Tutti gli istinti ereditarii della sua razza sono in lei, indistruttibili, pronti a svilupparsi e ad insorgere contro qualunque constrizione. Io non potrò mai far nulla per purificarla. Io non potrò se non sovrapporre alla realità della sua persona le figure mutevoli dei miei sogni, ed ella non potrà se non offrire alla mia ebrezza solitaria i suoi indispensabili organi...» Ma, mentre il suo pensiero riduceva la donna a un semplice motivo d'imaginazioni e toglieva ogni valore alla forma palpabile, per la stessa acutezza della percezione particolare egli sentiva d'esser legato appunto alla qualità reale di quella carne e non solo a quanto eravi di più bello, ma specialmente a quanto eravi di men bello in lei. La scoperta d'una bruttura non rallentava il vincolo, non diminuiva il fascino. I lineamenti più volgari esercitavano su di lui un'attrazione irritante. Egli conosceva bene questo fenomeno che s'era più volte ripetuto. I suoi occhi più volte avevano visto con estrema chiarezza nella persona d'Ippolita emergere i difetti anche men notevoli; e n'eran rimasti attratti per lungo tempo, quasi forzati a fissarli, a considerarli, ad esagerarli. Ed egli aveva provato nei suoi sensi e nel suo spirito un turbamento indefinibile, seguìto quasi sempre dall'insorgere subitaneo d'un desiderio impetuoso. Era ben questo il più fiero segno della grande ossessione carnale operata da una creatura umana su un'altra creatura umana. Obediva a una simile malìa quell'amante innominato che amava sopra tutte le cose nella sua donna i segni impressi dagli anni sul collo pallido e la riga de' capelli ogni giorno più larga e la bocca appassita ove il sale delle lacrime scendeva a rendere più durevole il sapore dei baci.

Egli pensò la fuga degli anni, la catena ribadita per sempre dall'abitudine, l'immensurabile tristezza dell'amore divenuto un vizio stanco. Vide sé stesso, nel futuro, legato a quella carne come il servo al suo ferro, privo di volontà e di pensiero, istupidito e vacuo; e la concubina sfiorire, invecchiare, abbandonarsi senza resistenza all'opera lenta del tempo, lasciar cadere dalle sue mani inerti il velo lacerato delle illusioni ma conservar tuttavia il suo potere fatale; e la casa deserta, desolata, silenziosa, aspettante l'estrema visitatrice Morte...

Gli vennero alla memoria i gridi dei piccoli bastardi, ch'egli aveva udito nella casa del padre in quel pomeriggio remoto. Pensò: «Ella è sterile. Il suo ventre è colpito di maledizione. Ogni germe vi perisce come in una fornace ardente. Ella inganna e delude in me, di continuo, il più profondo istinto della vita.» L'inutilità del suo amore gli apparve come una trasgressione mostruosa alla suprema legge.—Ma perché dunque il suo amore, non essendo se non una lussuria inquieta, aveva quel carattere di fatalità ineluttabile? Non era l'istinto di perpetuazione il motivo unico e vero d'ogni amor sessuale? Non era questo istinto cieco ed eterno l'origine del desiderio e non doveva il desiderio avere, occulto o palese, lo scopo generativo imposto dalla Natura? Perché dunque egli era legato alla donna sterile da un vincolo così forte? Perché dunque la terribile «volontà» della Specie si ostinava in lui con tanto accanimento a richiedere, a strappare il tributo vitale da quella matrice devastata già dal morbo, incapace di concepire?—Mancava al suo amore la ragion prima: l'affermazione e lo sviluppo della vita di là dai limiti dell'esistenza individua. Mancava alla donna amata il più alto mistero del sesso: «la sofferenza di colei che partorisce». La miseria di entrambi proveniva appunto da questa mostruosità persistente.

—Perché tu non prendi sole?—chiese Ippolita d'un tratto volgendosi verso di lui.—Vedi quanto resisto io? Voglio diventare veramente come tu dici: come l'oliva. Ti piacerò?

Ella si accostava alla tenda, sollevando con le mani i lembi della sua tunica prolissa, mostrandosi molle e quasi leziosa negli atti, come presa da un languore subitaneo.

—Ti piacerò?

Curvandosi un poco, ella entrava nella tenda. Sotto l'abondanza delle pieghe nivee il suo corpo magro e flessibile si moveva con una grazia felina, emanando un calore e un odore che alla turbata sensibilità del giovine parvero singolarmente acuti. E, mentre ella si allungava su la stuoia a fianco di lui, le piovevano intorno al volto avvampato i capelli ancóra umidi di salsedine, per mezzo a cui riluceva il bianco degli occhi e la bocca rosseggiava simile al frutto tra le frondi.

—Mi vuoi... come l'oliva?

Ella aveva un'ombra nella voce, quale sul volto, quale nel sorriso; un'ombra infinitamente misteriosa e affascinante. Pareva ch'ella intuisse nel giovine l'ostilità segreta e si accingesse a trionfarne.

—Che guardi?—domandò quasi di scatto, trasalendo.—No, no, non guardare! Sono brutti.

E ritrasse i piedi, li nascose tra le pieghe.

—No, no, non voglio.

Ed ebbe un momento di dispetto e di vergogna: si accigliò, come se avesse sorpreso nello sguardo di lui una scintilla della verità crudele.

—Cattivo!—ella soggiunse, dopo un momento, con un tono ambiguo tra di gioco e di rancore.

Egli disse, un po' convulso:

—Tu sai che per me sei tutta bella.

E fece l'atto di trarla a sé, offrendole un bacio.

—No. Aspetta. Non guardare!

Ella si scostò da lui, strisciò verso un angolo della tenda; rapidamente, con atti furtivi, si mise le lunghe calze di seta nera; poi si volse, impudica, con su le labbra un sorriso indefinibile. E, sotto gli occhi di lui tendendo l'una e l'altra gamba perfette nelle loro lucide guaine, chiuse le giarrettiere su l'uno e su l'altro ginocchio. Qualche cosa di volontariamente procace era nel suo gesto; e una sottil punta d'ironia era nel suo sorriso. E quella muta e terribile eloquenza prendeva per il giovine questa significazione distinta: «Io sono sempre l'invitta. Tu hai conosciuto sul mio corpo tutti i godimenti di cui ha sete il tuo desiderio senza fine; ed io mi vestirò delle menzogne che senza fine produrrà il tuo desiderio. Che mi fa la tua perspicacia? Io posso in un attimo ritessere il velo che tu hai lacerato; posso in un attimo rifasciarti della benda che tu hai tolta. Sono più forte del tuo pensiero. Io so il segreto delle mie trasfigurazioni nella tua anima. Io so i gesti e le parole che hanno la virtù di trasfigurarmi in te medesimo. L'odore della mia pelle può dissolvere in te un mondo.»

Un mondo si dissolveva in lui mentre ella gli si appressava, serpentina e insidiosa, allungandoglisi al fianco su la stuoia di giunchi. Ancóra una volta la realtà si convertiva confusamente in una favola piena d'imagini allucinanti. Il riverbero del mare empiva d'un tremolìo d'oro la tenda, mescolava mille pagliuzze d'oro ai fili del tessuto. Appariva per l'apertura l'immensità della calma, la grande immobilità delle acque sotto il quasi lugubre fulgore. E a poco a poco anche quelle apparenze vanirono. Nel silenzio egli non udì se non il ritmo del suo proprio sangue; nell'ombra egli non vide se non i due grandi occhi fissi sopra di lui con una specie di furia. Ella lo avviluppava intero, con un contatto molteplice, quasi ch'ella partecipasse della qualità d'una nube. Ed egli respirò, da tutti i pori di quella pelle ardente, la fragranza marina: come la sublimazione d'un sale a traverso una fiamma. E nel folto di quella capellatura ancóra umida trovò il mistero delle foreste di alghe più remote. E, nello smarrimento finale della conoscenza, credette di toccare il fondo di un abisso battendo l'occipite su la roccia...

Udì, poi, come di lontano, tra un fruscio di vesti, la voce d'Ippolita che diceva:

—Vuoi rimanere ancóra qui un poco? Dormi?

Aprì gli occhi; mormorò, trasognato:

—No, non dormo...

—Che hai?

—Muoio.

Egli tentò di sorridere. Travide la bianchezza dei denti nel sorriso di lei.

—Vuoi che ti aiuti a vestirti?

—Ora mi vesto. Va, va... Ora ti raggiungo—egli mormorò, come sonnacchioso.

—Allora io vado su. Ho troppa fame. Vèstiti e vieni.

—Sì, ecco...

Egli sussultò forte, sentendo all'improvviso le labbra di lei su le sue labbra. Aprì di nuovo gli occhi; tentò di sorridere.

—Pietà!

Udì cricchiare la ghiaia sotto il passo che si allontanava. Il gran silenzio rioccupò la spiaggia. Ad intervalli giungeva dal lido e dagli scogli prossimi uno sciacquìo fievole: un lieve suono simile a quello che producono nell'abbeveratoio gli animali dissetandosi.

Passarono alcuni minuti, in cui egli lottò contro l'estenuazione che stava per mutarsi in letargo. Con uno sforzo si levò finalmente a sedere; scosse il capo per fugare la nebbia; si guardò intorno, smarrito. Provava per tutto l'essere uno strano senso di vacuità; non sapeva coordinare i suoi pensieri; quasi non poteva più pensare, né poteva compiere un qualunque atto senza uno sforzo enorme. Gittò uno sguardo fuori della tenda; e di nuovo fu invaso dall'orrore della luce. «Oh se, ricoricandomi, potessi non alzarmi più! Morire! Non rivederla più!» Troppo gli era grave la certezza di dover rivedere fra pochi minuti la donna, di doversi ritrovar con lei, di doverne ancóra ricevere i baci, di doverne ancóra udire le parole.

Esitò prima di cominciare a vestirsi. Alcuni pensieri folli gli balenarono nel cervello esausto. Macchinalmente, si vestì. Uscì fuori della tenda, serrando gli occhi al barbaglio. Vide un gran chiarore rosso a traverso il tessuto delle palpebre; ebbe una leggera vertigine.

Una sensazione intraducibile gli diede lo spettacolo delle cose intorno, quando egli riaprì gli occhi. Gli parve come s'egli rivedesse quelle cose in una esistenza diversa, dopo un tempo indefinito.

La ghiaia sotto la sferza del sole aveva la bianchezza della calce. Su l'immenso lugubre specchio delle acque il cielo incandescente sembrava d'attimo in attimo abbassarsi aggravato da uno di quei cupi silenzii che accompagnano l'aspettazione d'una catastrofe ignota. I promontorii arenarii, con i loro gironi deserti, su da le scogliere nerastre levavano a guisa di torri i culmini arborati ove gli olivi stavano contro il fuoco in attitudini d'ira e di follia. Proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il Trabocco aveva un aspetto formidabile. Per mezzo all'intrico delle travi e dei cordami apparivano i pescatori chini verso le acque, fissi, immobili come bronzi. E pesava su le loro tragiche vite l'incanto mortale.

D'improvviso, nell'ardore e nel silenzio, giunse agli orecchi del giovine la voce della donna che dall'alto dell'Eremo chiamava.

Egli si scosse e si volse, con una palpitazione soffocante. La voce ripeté il richiamo, limpida e forte, quasi che volesse affermare il suo potere.

—Vieni!

Com'egli saliva su per la costa, dalla bocca fumida d'una delle gallerie si propagò per l'aria un rombo ripercotendosi nell'insenatura. Egli s'arrestò presso il binario, di nuovo provando una leggera vertigine, mentre gli balenava nel cervello vanito un pensiero folle. «Coricarsi ora a traverso le rotaie... La fine di tutto in un attimo!»

Fragoroso, veloce e sinistro, il treno passò gittandogli in faccia il vento della corsa; e fischiando e rombando scomparve nella bocca della galleria opposta, che fumigò nera nel sole.

III

I canti dei mietitori e delle spigolatrici si alternavano, dall'alba al vespro, giù per i fianchi della collina feconda. I cori maschili celebravano, con una veemenza bacchica, la gioia dei larghi pasti e la bontà del vino annoso. Per gli uomini della falce, tempo di mietitura era tempo di larghezza. D'ora in ora, dall'alba al vespro, secondo il costume antico, interrompevano l'opera per mangiare e per bere su la stoppia, tra i covoni recenti, in gloria del liberale signore. E ciascuno toglieva dalla sua scodella tanto di cibo che bastasse a sfamare una spigolatrice. Così, nell'ora del mangiare, Booz aveva detto a Rut Moabita:—Accostati qua, e mangia del pane, ed intigni il tuo boccone nell'aceto—; e Rut s'era posta a sedere allato ai mietitori e s'era sazia.

Ma i cori feminili si prolungavano in cadenze quasi religiose, con una dolcezza lenta e solenne, rivelando la santità originale dell'opera frumentaria, la primitiva nobiltà di quell'officio in cui il sudore degli uomini consacrava su la terra paterna il nascimento del pane.

Li udiva Giorgio e li seguiva con l'anima in ascolto; e un benefizio insperato si spandeva a poco a poco su lui. Pareva che a poco a poco la sua anima si sollevasse in un'aspirazione sempre più larga e più serena come più pura diveniva l'onda del canto propagandosi nei pomeriggi ancóra torridi ove la speranza della sera pacificatrice incominciava a diffondere una specie di calma estatica. Era una rinnovellata aspirazione verso le fonti della vita, verso le Origini. Era forse l'ultimo sussulto della sua giovinezza ferita nell'intimo della potenza sostanziale; era l'estremo anelito verso la riconquista d'un bene omai perduto per sempre.

Il tempo della mietitura volgeva al suo termine. Passando egli lungo i campi mietuti, intravedeva certe belle usanze che sembravano riti d'una liturgia georgica. Si soffermò, un giorno, presso un campo già raso ove i mietitori avevano già composta l'ultima bica; e assistette alla cerimonia.

Alle cose affaticate dall'ardore diurno soprastava l'ora limpida e dolce che doveva raccogliere nella sua sfera di cristallo le ceneri impalpabili del giorno consunto. Il campo si disegnava in parallelogrammo su un pianoro cinto di olivi giganteschi a traverso i cui rami appariva la zona cerulea dell'Adriatico misteriosa come il velario intravisto dietro le sacre palme d'argento nel tempio. Le alte biche sorgevano a eguali intervalli, in forma di coni, dense e splendide di ricchezza adunata dalle braccia degli uomini, magnificata dal canto delle donne. Nel centro del campo la torma dei mietitori faceva cerchio intorno al suo capo, avendo fornita l'opera. Erano uomini membruti, adusti, vestiti di lino. Nelle braccia, nelle gambe, nei piedi ignudi avevano le deformità che la lunga e lenta pazienza delle fatiche dà alle membra esercitate. Riluceva nel pugno di ciascun uomo la falce, ricurva e sottile come il primo quarto della luna. Di tratto in tratto essi con un gesto semplice della mano libera si tergevano il sudore aspergendone il suolo ove ai raggi obliqui brillava la stipula.

Fece quel medesimo gesto il capo; e, levando quindi la mano in atto di benedire, esclamò nel sonoro idioma ricco di ritmi e di assonanze:

—Lasciamo il campo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo!

Gli uomini della falce, in coro, con alto grido risposero:

—Amen.

E il capo riprese:

—Benedetto sia il nostro signore e benedetta la signora nostra!

Gli uomini risposero:

—Amen.

E il capo, rinforzando a grado a grado la voce ed accendendosi:

—Benedetto sia chi ci portò il buon mangiare!

—Amen.

—Sia benedetto chi disse: «Non mettere acqua nel vino del mietitore!»

—Amen.

—Sia benedetto il padrone che disse alla padrona: «Dà senza misura, e metti la sapa nel vino del mietitore!»

—Amen.

Le benedizioni si spandevano su tutti i prossimi: su colui che aveva ucciso la pecora, su colui che aveva lavato gli erbaggi e i legumi, su colui che aveva forbito il vaso di rame, su colui che aveva sparso di spezie le vivande. Il benedicente, infiammato d'entusiasmo, agitato come da un estro poetico repentino, trovava le assonanze e si esprimeva all'improvviso in distici. La torma gli rispondeva con immensi clamori che echeggiavano per tutti i seni, mentre nel ferro delle falci si accendevano i baleni vesperali e sul culmine delle biche il covone alzato pareva una fiamma.

—Sieno benedette le donne che cantano la bella canzone portando i boccali del vino annoso!

—Amen.

Fu come un tuono di gioia. Poi tutti tacquero e guardarono appressarsi il coro delle donne portatrici dell'ultima liberalità sul campo falciato.

Cantavano le donne, in duplice fila, reggendo su le braccia i grandi vasi dipinti. E all'estraneo spettatore—che le vedeva procedere fra i tronchi degli ulivi come per intercolunnii su lo sfondo del mare—davano imagine d'una di quelle teorie votive che si svolgono armoniosamente in basso rilievo su i fregi dei templi o intorno ai sarcofaghi.

L'imagine di bellezza lo accompagnò pel sentiere quando egli si mosse verso l'Eremo. Egli pensava, in tal compagnia, camminando piano fra i prestigi del vespero ove tante onde corali fluttuavano; pensava: «Il sentimento religioso» della gioia di vivere; il culto profondo della Natura madre eternamente creatrice ed eternamente lieta della sovrabbondanza di sue forze; la venerazione e l'entusiasmo per tutte le energie fecondanti, generative e distruttive; l'affermazione violenta e tenace dell'istinto agonistico, dell'istinto di lotta, di predominio, di sovranità, di potenza egemonica: non erano questi i cardini incrollabili su cui si reggeva l'antico mondo ellenico nel suo periodo ascensionale? Era radicato nella sostanza dell'Ellèno l'originario senso omerico della vita. L'energico Ellèno—a similitudine dei guerrieri celebrati nell'esametro sonante, i quali accoglievano sempre «con lo stesso allegro saluto il tuono ed i raggi del Sole»—dava pur sempre «lo stesso allegro saluto» al Bene e al Male, non ad altro anelando se non ad espandere la sua esuberanza e ad esercitare con efficacia il suo nativo istinto di dominazione. Egli sapeva trovare pur nell'atto terribile, pur nella sofferenza una fiera gioia. Pur nell'errore, pur nel dolore, pur nel supplizio egli non riconosceva se non il trionfo della Vita. Il patimento per lui era uno stimolo, producendo in lui l'effetto di quei farmachi i quali eccitano accelerano aumentano le azioni organiche da cui risulta la potenza dell'essere. Dal profondo del suo sentimento tragico non sorgeva l'aspirazione a liberarsi d'ogni terrore e d'ogni pietà, l'aspirazione a una catarsi finale, ma sì bene—come Federico Nietzsche ha intuito—l'aspirazione ad essere egli medesimo l'eterna gioia del Divenire, sopra ogni terrore ed ogni pietà: ad essere egli medesimo tutte le gioie, non escluse quelle terribili, non esclusa quella della distruzione. Il solo filosofo degno di lui fu Eraclito d'Efeso; che, a simiglianza della Sibilla, «parlando con labbro ispirato, senza sorriso senza ornamento e senza profumo, passa a traverso i secoli nella potenza del dio». L'idea della evoluzione, dello scorrere perpetuo di tutte le cose, dell'infinita mutabilità cosmica—l'idea stessa fondamentale della filosofia moderna—splende nel suo aforisma figurato: «Nessuno fu mai due volte su la medesima corrente. Anzi, fin anco il passeggero è senza identità. Noi c'imbarchiamo e non c'imbarchiamo su la stessa corrente; giacché siamo e non siamo.» L'ammaestrato da sé, considerando l'Universo, lo conobbe nell'aspetto non d'una entità stabile ma d'un continuo processo di formazione e di trasformazione; nel quale nulla era durevole fuor che l'ignea energia operante secondo un ordine razionale per un eterno succedersi di cicli. Egli conobbe che in ogni attimo lo stato dell'Universo non era se non l'espressione d'un accordo transitorio delle forze pugnaci e che l'apparenza del riposo o della morte non era se non una attività impercettibile pei sensi dell'uomo. Tutte le cose, davanti agli occhi del suo intelletto, passavano dalla nascita all'essere visibile e quindi al non essere, per innumerevoli varietà di vita, con un flusso ora tardo ora veloce in cui egli non discerneva principio, non iscopriva fine.—L'Ellèno dunque, per la sua veemente volontà di vivere esercitata con la maggior possibile abondanza di manifestazioni, non faceva se non immedesimarsi nella natura delle cose. Tra gli scopi della sua esistenza individua e il processo cosmico non eravi conflitto alcuno. Come nelle Dionisie egli celebrava la perpetuità della vita, il ritorno perpetuo delle forze trasformate, e venerava con sentimento religioso dinanzi al simbolo del Sesso il gran mistero genitale—così nella Tragedia, che è appunto di origine dionisiaca e collegata a quelle feste, non aspirava se non ad essere egli medesimo l'eterna voluttà del Divenire...

Si arrestò Giorgio a una svolta del sentiero udendo approssimarsi una voce canora che gli parve di riconoscere. Ed ebbe, nel riconoscerla, un moto spontaneo di allegrezza. Era la voce di Favetta, della giovine cantatrice dagli occhi di falco: la soprana voce che sempre risvegliava in lui la memoria del gaudioso mattino di maggio raggiante sul laberinto delle ginestre, su l'ermo giardino d'oro, ove egli attonito aveva creduto di scoprire il segreto della Gioia.

Non sospettando la presenza dello straniero nascosto dalla siepe, Favetta si avanzava conducendo per la fune una vacca. Ella nel cantare teneva la testa alta, la bocca dischiusa verso il cielo, tutta la faccia nella luce; e il canto scaturiva dalla sua gola fluido limpido cristallino come una polla. Dietro di lei la bella bestia nivea camminava con mansuetudine, e ad ogni passo le ondeggiava la giogaia e le penzolava tra le gambe il gruppo delle mammelle rifornite di latte dalla pastura.

Come scorse lo straniero, la cantatrice s'interruppe e fece l'atto di sostare.

—Oh Favetta!—egli esclamò andandole incontro con un'aria festosa, come se rivedesse un'amica del tempo felice.—Dove vai?

Ella arrossì nel sentirsi chiamar per nome e sorrise peritandosi.

—Riconduco la vacca alla stalla—rispose.

Poiché ella aveva rattenuto il piede a un tratto, le froge della bestia le sfioravano la schiena. Il suo busto gagliardo sorgeva tra le due alte corna come nel vano d'una cetra lunata.

—Sempre canti tu!—le disse Giorgio, ammirandola in quell'atto.—Sempre!

—Eh, signore,—ella fece sorridendo—se ci levi il canto, che ci rimane?

—Ti ricordi tu di quella mattina che cogliesti il fiore delle ginestre?

—Il fiore delle ginestre per la tua sposa?

—Sì. Te ne ricordi?

—Me ne ricordo.

—Ricantami quella canzone!

—Sola non la posso cantare.

—Cantamene un'altra:

—Così, ora, davanti a te? Mi vergogno. Canterò in cammino. Addio, signore.

—Addio, Favetta.

Ed ella seguitò pel sentiere, traendo la bestia tranquilla. Dopo qualche passo, intonò la canzone con tutta la forza della sua voce, dominando a torno i luoghi luminosi.

Una luce straordinariamente viva diffondevasi per le coste e sul mare, appena tramontato il sole; un'immensa onda di oro impalpabile saliva dal cielo occidentale al sommo e declinava verso la plaga opposta penetrandone con estrema lentezza la trasparenza glauca. L'Adriatico diveniva a grado a grado più chiaro e più dolce, pendendo in quel colore che hanno le prime foglie dei salici su i novelli virgulti. Soltanto le vele rosse, nobili come se fossero di porpora, interrompevano la chiarità diffusa.

«È una Festa!» pensava Giorgio, abbagliato dallo splendore dell'occaso, intorno intorno sentendo palpitare la gioia della vita. «Dove respira la creatura umana a cui tutto il giorno dall'alba al tramonto è una Festa consacrata da una conquista nuova? Dove vive il dominatore—il coronato dalla corona del riso, da quella corona di rose ridenti della quale parla Zarathustra—il dominatore forte e tirannico, franco dal giogo di ogni falsa moralità, sicuro nel sentimento della sua potenza, convinto che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii, determinato ad elevarsi sopra il Bene e sopra il Male per la pura energia del suo volere, capace pur di costringere la vita a mantenergli le sue promesse?»

I canti del rinato pane per la collina continuavano, si alternavano. Apparivano su le pendici le lunghe teorie feminili e si dileguavano. Qua e là, da fuochi invisibili, sorgevano colonne di fumo lentissime nell'aria senza vento. Tutto lo spettacolo si faceva solenne e sembrava retrocedere nel mistero di un secolo remoto, nella santità d'una celebrazione di Dionisie rurali.

«È questa la stessa gente che pur ieri si trascinava piangendo su la pietra consunta del Santuario e la segnava di croci con la lingua sanguinante?» Egli paragonava i due spettacoli e i due cori che gli rivelavano un senso religioso assai diverso, com'erano diverse la trista chiesa dei Miracoli e quella immensa cupola dorata dal più ricco oro crepuscolare. Sotto l'influsso dell'ideale ascetico invocato dalla sua estenuazione, egli aveva voluto esperimentare il contatto con la moltitudine degli iconolatri sperando di poter riprofondare le radici nell'infimo strato della sua razza e di ricuperare così la sua sostanza primiera. Ma quella sua tendenza a risalir verso le Origini non doveva piuttosto esser diretta a rintracciar nella sua stessa razza i principii d'una virtù vitale oltrapossente e oltrapiacente le cui vestigia gli si scoprivano pur in quel giorno, pur in quell'ora?

Ed egli ricordò l'antichissimo nome della sua città natale, il gran nome solare: Aelion, «Aelion urbs florens atque vetusta simul» com'era laudata nell'elegia di Menenio Aleieo poeta d'insigne stirpe romulea. E rivide la nobile città di pietra con le sue torri millenarie, la fiera Guardia posta a fianco della Maiella, della montagna madre, del gran ceppo incrollabile. A lei, nella cerimonia della fondazione, il sacerdote aveva pregata la fortuna rivolto verso il Sole nascente, consumandosi la vittima su l'ara con profumo di lauro e di mirto; e i guerrieri avevan segnato i confini con liste di panno candido in cima alle aste infisse nel terreno.

Guardia plena bonis fert ardua signa leonis.

Nel suo scudo era il Leone, in memoria dell'impresa di Ercole adorato dal popolo prisco. E i leoni di marmo, che su le groppe avevan sorretto le colonne del tempio dedicato al dio tutelare, ora giacevano presso i pilastri nel portico di Santa Maria Maggiore, nel portico degli aristocrati, il cui accesso era riserbato ai Cavalieri.

Sotto quel portico aperto in vista delle convalli fertili e dell'Adriatico lontano, sotto quel portico bruno che riceveva il primo saluto del Sole, erano scolpite le insegne dei nobili: degli Orsini, degli Ugni, degli Aurispa, degli Scioli, degli Stella, dei Vallereggia, dei Cassaura, dei Palleaurea, degli Spina, dei Comino. Il sentimento della potenza aveva avuto quivi il suo posto d'onore; il privilegio eravi fiorito dal tepor del sangue sparso. Tutti quegli uomini forti non avevano avuto altro intento se non d'espandere e d'imporre il loro istinto profondo di predominio. La loro morale, come quella dell'Ellèno, aveva la radice nella sovrana concezione della loro dignità e tendeva alla glorificazione superba della vita.

Guardia plena bonis fert ardua signa leonis.

E Giorgio Aurispa si ricordò delle parole di Zarathustra: «Quando il cuor vostro palpita nella sua maggior pienezza e sta per traboccare—simile al fiume, benedetto e temuto dagli abitatori dell'argine—ivi è la fonte della vostra virtù.»

Quante volte aveva egli provata la sensazione di quella pienezza? Quante volte aveva egli sentito diffondersi in tutta la sua sostanza la voluttà dell'energia?—Gli tornavano alla memoria episodii lontani ne' quali egli credeva di rinvenire il fantasma d'una tale gioia. E le sue aspirazioni fittizie verso l'ideale «dionisiaco», verso la vita «ascendente» prendevano forma nelle parole del discepolo al Maestro distruttore e creatore. «In verità, mille sguardi oggi si volgono verso la tua montagna e verso il tuo cedro. Un desiderio ardente s'è levato e messo in cammino. E già molti appresero a dimandare:—Chi è dunque Zarathustra?—E tutti coloro nel cui orecchio tu per avventura infondesti il tuo canto e il tuo miele, tutti i nascosti, tutti i solitarii e i solitarii in coppia, tutti interrogaron d'improvviso il lor cuore dicendo:—Soggiorna tuttavia tra i viventi Zarathustra? Non val più la pena di vivere; tutto è inutile, tutto è vano, se non si viva con Zarathustra.»

Nella sua estenuazione mortale, sentendosi perire, egli invocava anche una volta un intercessore per la vita. «In verità, come un giovenil riso squillante su mille bocche, Zarathustra penetra in tutte le catacombe ridendo di quanti vegliano la notte e la morte, di quanti fan risonare un fascio di lugubri chiavi. Il tuo riso, o Zarathustra, li spaventerà e li abbatterà come un soffio. Il lor mancare e il loro svegliarsi testimonieranno del tuo potere. E pur nell'ora in cui scenderanno su noi il lungo crepuscolo e la stanchezza mortale, tu non diserterai il nostro orizzonte, o Intercessore per la Vita! Tu ci discopristi nuove stelle e nuovi splendori notturni. In verità, il riso pur lo dispiegasti tu su le nostre teste come una tenda variopinta. D'ora in poi un giovenil riso irromperà da tutte le bare; un trionfal vento disperderà ogni mortale stanchezza. Tu stesso ce ne sei il mallevadore e l'augure!»

Il verbo di Zarathustra, del Maestro che insegnava il Superuomo goethiano, gli pareva il più virile e il più nobile che fosse mai stato proferito da un poeta e da un filosofo nell'età moderna. Egli, il fiacco, l'oppresso, il titubante, l'infermiccio, aveva teso l'orecchio con un profondo turbamento a quella voce nuova che scherniva con sì aspri sarcasmi la debilità, l'irritabilità, la sensibilità morbosa, il culto della pietà, il vangelo della rinunzia, il bisogno di credere, il bisogno di umiliarsi, il bisogno di redimere e di redimersi, tutti insomma i più ambigui bisogni spirituali dell'epoca, tutta la ridevole e miserevole effeminazione della vecchia anima europea, tutte le mostruose rifioriture della lue cristiana nelle razze decrepite. Egli, il solitario, il contemplatore, lo speculatore inerte, il malsicuro seguace di Gautama, aveva teso l'orecchio con una strana ansietà a quella voce che affermava la vita, che considerava il dolore come la disciplina dei forti, che ripudiava ogni fede e in ispecie la fede nella Morale, che proclamava la giustizia della ineguaglianza, che esaltava le energie terribili, il sentimento della potenza, l'istinto di lotta e di predominio, l'eccesso delle forze generatrici e fecondanti, tutte le virtù dell'uomo dionisiaco, del vincitore, del distruttore, del creatore. «Creare!» diceva Zarathustra. «Ecco l'atto che affranca dal dolore e fa men grave il peso della vita. Ma, perché esista colui che crea, è necessario l'aiuto dei patimenti e di quali metamorfosi!» E Giorgio Aurispa aveva pensato più d'una volta, d'innanzi alla vastità della sua conscienza dolorosa: «A furia di soffrire essendo io riuscito a moltiplicar senza fine i fenomeni del mio mondo interno, perché sia completa la mia vita io non debbo se non cercare il mezzo di rendere attivo il mio dolore. La scienza del necessario deve avere per suo natural termine l'azione, la creazione.» E più d'una volta, in certe ebrezze causate dall'eccesso della pena, aveva anch'egli evocata la memoria di quel re Viçvamitra; il quale nelle volontarie torture durate per mille anni acquistò una tal sicurtà nel suo potere, una sì gran fidanza in sé medesimo, che imprese a construire un nuovo cielo. «Oh, come otterrò io la fede in me medesimo? Il dubbio mi divora, il dubbio corrode la mia volontà e lacera il mio sogno. Datemi tutti i supplizii dell'universo, ma fate ch'io ritrovi in fondo a qualunque inferno la mia volontà incandescente e ch'io possa brandirla per dispiegare intiero sul mio capo il più largo de' miei sogni a similitudine di un nuovo cielo!»

Diceva Zarathustra: «Infine io son colui che benedice e colui che afferma; e lungo tempo pugnai da fierissimo giostratore per avere un giorno le mani libere a benedire. Ed ecco la mia benedizione:—Essere sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come la sua volta immutabile, la sua cupola azzurra, la sua eterna sicurtà:—e benedetto è colui che così benedice! Perocché tutte le cose sieno battezzate su le fonti dell'eternità, di là dal Bene e dal Male, e il Bene e il Male sieno ombre fugaci, brume d'afflizione, nebbie al vento.»

Diceva: «Per caso!—ecco il titolo di nobiltà più antico al mondo. Io lo resi a tutte le cose, io affrancai tutte le cose dal giogo della finalità. E questa libertà e questa serenità celesti io le dispiegai su tutte le cose, come una cupola azzurra, allorché insegnai che né sopra di loro né dentro di loro alcuna volontà eterna vuole.»

Non era in queste sentenze una grande e pura elevazione della vita? Non era il profeta di un'Aurora colui che bandiva gli spiriti da ogni passato, da ogni presente, e li spingeva per mille ponti e per mille strade verso il futuro, verso «la terra dei figli», verso la terra non anche scoperta, in grembo ai più lontani mari, ove un giorno doveva apparire l'Essere superiore all'uomo, l'Essere sopraumano, il Superuomo? La forma ideale, a cui tendeva la specie con un continuo ascendere passando per le sue metamorfosi, come si poteva raggiungere se non con la profusione della vita? «Che un sideral raggio brilli nel tuo amore! Che la tua speranza sia questa:—Possa io generare il Superuomo!»

Sterili conosceva Giorgio Aurispa i suoi amori, sterili le sue agitazioni come quelle del mare che incominciava a fremere sotto il vento del crepuscolo. In nessun figliuolo egli avrebbe perpetuato le impronte della sua sostanza, preservato la sua effigie, propagato il movimento ascensionale dello spirito verso l'attuazione di possibilità sempre più alte. In nessuna opera egli avrebbe adunato l'essenza del suo intelletto, manifestato armonicamente la potenza delle sue facoltà molteplici, rivelato interamente il suo universo. La sua sterilità era incurabile. La sua esistenza si riduceva a un mero flusso di sensazioni, di emozioni, di idee, privo d'ogni fondamento sostanziale. Egli adombrava l'uomo di Gautama. La sua personalità non era se non un'associazione temporanea di fenomeni intorno a un centro, «come un cane legato a un palo». Egli non poteva aspirare se non a una fine. E per metter fine a tutti i sogni egli non doveva se non sognare di non voler più sognare.

A che dunque, in quel vespero estivo, tra i canti della mietitura, nella festa sacra del rinato pane, egli evocava il fantasma di quell'ultimo intercessore per la vita?

L'oro crepuscolare quasi era estinto, consunto; e una cenere eterea pioveva dal sommo del cielo. Ma su l'orizzonte maritimo una zona verde come il berillo, straordinariamente limpida e lucida, resisteva alla discolorante ombra e diffondeva sul limite delle acque un sorriso misterioso. Dall'altura, dov'egli era giunto deviando, si scorgevano ingigantiti nell'ombra i lineamenti dei seni e dei promontorii lontani; e davano imagine d'una immensa forma animata che traesse profondi respiri addormentandosi sul mare.

«Ah quel sorriso dell'anima che langue nella sua pienezza, piegando sotto la dovizia della sua propria felicità, e aspetta, e tende le mani!» pensava Giorgio con un'invidia e un rammarico infiniti, ricordando il bel salmo di Zarathustra.

«O mia anima! Io feci bere al tuo suolo ogni saggezza, ogni vin novello e ogni vecchio e robusto vino di saggezza immemorabile.

O mia anima! Io versai su te ogni sole e ogni notte e ogni silenzio e ogni desiderio; e tu crescesti allora sotto gli occhi miei, come una vigna.

O mia anima! Eccoti colma, eccoti traboccante, eccoti simile a una vigna dalle gonfie poppe, carica di grappoli tutt'ambra e oro.

Carica della tua propria felicità, piegando sotto la dovizia, tu sei in attesa—tanta è la tua pienezza; e ancor tu hai vergogna della tua attesa.

O mia anima! Ora non v'è in nessuna plaga una più amante, una più allacciante, una più vasta anima. Ove mai dunque l'avvenire e il passato si congiungono meglio che in te?

O mia anima! Tutto io ti ho dato, ho per te vuotato le mie mani; e ora!... Ora tu sorridi e piena di languore tu mi dici:—A chi di noi due conviene render grazie?—

Non convien forse a colui che dona render grazie a colui che riceve? Non è forse il donare un bisogno? Il ricevere non equivale forse all'aver pietà?

O mia anima! Io comprendo il sorriso del tuo languore. La tua pienezza medesima or langue e tende le mani!»

Anch'egli, Giorgio Aurispa, aveva abbeverata d'ogni saggezza e d'ogni follia la sua anima, d'ogni verità e d'ogni errore; e aveva versato su lei tutti i desiderii, i più dolci e i più atroci; e le aveva dato tutte le forme e tutte le attitudini; e l'aveva tentata con tutti gli enigmi; e l'aveva ornata di tutti i simulacri e di tutti i simboli; e l'aveva resa più vasta, sempre più vasta. Ma ben altra era la sua aspettazione e ben altro il suo languore!

Come un'allegoria gli si ripresentava alla memoria spontaneamente quel grande chiostro di cento colonne eretto dal divino Michelangelo nelle Terme di Diocleziano; ove, in un pomeriggio di settembre, egli aveva creduto di veder raffigurata per segni un'abituale condizione della sua anima.—Era un pomeriggio di settembre e «l'odore e il pallore di qualche primavera dissepolta» erano diffusi nel cielo silente che s'incurvava sul grande chiostro armonioso. In mezzo allo spazio mistico i cipressi michelangioleschi torti e dilaniati da un ciclone, aspri e neri avanzi d'una tenacia secolare, dicevano l'infinita tristezza della meditazione solitaria e l'inutilità d'ogni più salda resistenza contro l'ingiuria delle forze cieche. Ma, alla loro ombra, su fulcri vestiti di edera sorgevano in ordine simetrico marmoree teste colossali di tori, di cavalli, di liocorni e di arieti: emblemi della possa bruta. E dovunque all'ingiro, su l'erba rasa, tra i cespugli di mirto negli intercolunnii, contro le pareti dei portici puri, apparivano i frammenti fittivi d'una vita bella carnale e superba:—pieghe di pepli intorno a seni mutilati; chiome pendule come grappoli su fronti brevi; ventri feminei nudi, molli, segnati dall'ombelico come da un suggello di grazia; mani atteggiate a sostenere il lembo d'una clamide; braccia erculee dai bicipiti, tesi in uno sforzo terribile; mammelle enormi, bastevoli a nutrire una prole titanica; dolci nomi di donne e di liberti, scolpiti su cippi funerarii; anfore memori d'un vino di cent'anni; volti di deità sereni o maschere dalla bocca rotonda e vacua, in cima a steli di marmo fibrati come vegetali; in rilievo su bianchi sarcofaghi una danza di menadi, un satiro in atto d'offrire a una capra un racemo, un serpe uscente da un canestro, una corona di frutti e di fiori.

IV

Dalla notte tragica in cui Candia a bassa voce aveva parlato dell'incantesimo che stava sopra agli uomini del Trabocco, quella grande ossatura biancastra protesa su la scogliera aveva più volte attirato lo sguardo e incitata la curiosità degli ospiti. Nella piccola baia lunante e musicale quella forma irta e insidiosa, in agguato perpetuo, pareva sovente contrastare la benignità della solitudine. Ai meriggi torridi e immoti, ai tramonti foschi, prendeva talora aspetti formidabili. S'udiva talora nella quiete stridere l'argano e scricchiolare tutta la carcassa. Si vedeva nelle notti illuni il rossore delle faci rispecchiate dalle acque.

E, in un pomeriggio di pesantissimo ozio, Giorgio propose a Ippolita:

—Vuoi che andiamo sul Trabocco?

Ippolita rispose:

—Andiamo, se tu vuoi. Ma come farò a passare il ponte? Ho già provato una volta...

—Ti condurrò io per la mano.

—È troppo stretto.

—Proveremo.

Andarono. Discesero per la viottola. Giunti al gomito, trovarono una specie di scalèa tagliata nell'arenaria, disagevole, che con gradi irregolari si prolungava fin su la scogliera all'estremità del ponte sospeso.

—Vedi? Come farò?—disse Ippolita rammaricandosi.—Ho il capogiro, soltanto a guardarlo!

Per il primo tratto il ponte era formato d'una sola tavola, strettissima, sostenuta da puntelli infissi nello scoglio; pel secondo tratto si allargava composto di assicelle trasversali, bianche d'una bianchezza quasi argentea, consunte, secche, mal connesse, così gracili che parevano doversi rompere sotto la minima pressione del piede.

—Non vuoi provare?—le chiese Giorgio, pur sentendo in fondo a sé uno strano sollievo nell'accertarsi che Ippolita non avrebbe mai potuto compiere il passaggio periglioso.—Vedi? Viene qualcuno verso di noi per darci una mano.

Veniva dalla piattaforma correndo un fanciullo seminudo, agile come un gatto, bruno come un bronzo ricco d'oro. Sotto il suo piede infallibile le assicelle scricchiolavano, le tavole si piegavano. Giunto all'estremità del ponte, presso i forestieri, con gesti vivaci li incoraggiò ad affidarglisi guardandoli con i suoi occhi acuti d'uccello di rapina.

—Non vuoi provare?—ripetè Giorgio sorridendo.

Irresoluta, ella mise il piede su la tavola oscillante, guardò lo scoglio e l'acqua; poi si ritrasse, non potendo vincere il turbamento.

—Temo la vertigine—ella disse.—Sono sicura che cadrei.

Soggiunse, con rammarico palese:

—Va, va tu solo. Non hai paura?

—No. Ma tu che farai?

—Mi metterò a sedere là, nell'ombra, e ti aspetterò.

Ella soggiunse, esitando, come per tentare di trattenerlo:

—Ma perché vai?

—Vado. Sono curioso di vedere.

Pareva quasi ch'ella si dolesse di non poterlo seguire, si pentisse di lasciarlo andare in un luogo dove ella non avrebbe potuto giungere, e se ne dolesse e se ne pentisse non soltanto per causa della rinunzia a una curiosità e a un diletto ma anche per un'altra causa non bene distinta. Ella soffriva pur di quell'ostacolo temporaneo che stava per interporsi fra lei e l'amante, di quell'ostacelo da lei non superabile: tanto forte era divenuto in tutta la sua sostanza il bisogno di tenere continuamente legato l'amante con un legame sensuale, di avere con lui un continuo contatto, di dominarlo, di possederlo.

Con un'aria di dispetto, appena percettibile, disse:

—Va, va pure.

A tale sentimento istintivo faceva contrasto quello già da Giorgio avvertito in fondo a sé medesimo: quella specie di sollievo nell'accertarsi che v'era alfine un luogo inaccessibile a Ippolita, un rifugio completamente isolato contro la Nemica, un ritiro difeso dallo scoglio e dall'acqua, dove egli avrebbe potuto trovare qualche ora di verace riposo. E in ambedue quei moti interiori, pur non bene distinti ed in effetto quasi puerili, ma senza dubbio contrarii, era la dimostrazione dello stato reale in cui gli amanti si trovavano l'un verso l'altra: l'uno, consciente vittima destinata a perire; l'altra, carnefice inconsapevole e carezzevole.

—Addio. Vado—disse Giorgio, con una leggera provocazione nel tono della voce e nell'attitudine.

Se bene si sentisse mal sicuro, egli rifiutò l'aiuto del fanciullo; e fu attentissimo a procedere in apparenza franco e spedito senza esitare e senza vacillare su la tavola oscillante. Appena mise il piede sul tratto più largo, accelerò il passo, preoccupandosi pur sempre dello sguardo d'Ippolita e mettendo istintivamente nello sforzo il calore d'una specie di reazione ostile. Quando calcò l'assito della piattaforma, ebbe la sensazione illusoria di trovarsi su la coperta d'un naviglio. In un attimo, allo strepito fresco della maretta che assaliva gli scogli, rivisse nella memoria qualche frammento della sua vita di bordo sul Don Juan e provò per tutto l'essere un orgasmo istantaneo nel desiderio chimerico di salpare. «Alla vela! Alla vela!»

Sùbito dopo, fissò lo sguardo su le cose che lo circondavano; ne colse tutte le particolarità, con la consueta lucidezza.

Turchino lo salutava con un cenno brusco, non mitigato da parola o da sorriso, come se nessun avvenimento—fosse pure insolito e straordinario—valesse a interrompere anche per un attimo la preoccupazione terribile che appariva in quel suo viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti.

La preoccupazione medesima si leggeva nell'aspetto dei suoi figliuoli, che salutarono anch'essi in silenzio e si rimisero alla loro bisogna in compagnia dell'immutabile tristezza. Erano giovani oltre i vent'anni, scarni, riarsi, tenuti da una continua inquietudine muscolare, come i demoniaci. Tutti i loro moti parevano contrazioni convulsive, sussulti; e si vedevano a tratti i muscoli tremare sotto la pelle dei loro volti senza mento.

—Buona pésca?—domandò Giorgio indicando la vasta rete immersa, di cui apparivano a fior d'acqua i lembi.

—Niente oggi, signore,—mormorò Turchino con un accento di collera contenuta.

Soggiunse, dopo una pausa:

—A meno che non la porti tu a noi, la buona pésca!

—Tirate la rete. Vediamo. Chi sa!

I figliuoli si accinsero a muovere l'argano.

Per gli interstizii dell'assito si vedeva brillare e spumare l'onda. In un angolo della piattaforma sorgeva una capanna bassa, col tetto di paglia, spiovente, il cui vertice era difeso da una fila di tégoli rossi e ornato d'un toppo di quercia scolpito in forma d'una testa bovina, con infisse due grandi corna—contro il maleficio. Altri talismani pendevano dal tetto, commisti a certi dischi di legno su cui erano fermati con pece frammenti di specchio rotondi come occhi; e un fascio di quadridenti arrugginiti giaceva davanti all'apertura angusta. A destra e a sinistra sorgevano dalla scogliera le due maggiori antenne verticali, sostenute alla base da piuoli di tutte le grossezze, che s'intersecavano, s'intralciavano congiunti tra di loro per mezzo di chiodi enormi, stretti da filo di ferro e da funi, rinforzati con mille ingegni contro le ire del mare. Due altre antenne, orizzontali, tagliavano in croce quelle e si protendevano come bompressi, di là dalla scogliera, su l'acqua profonda e pescosa. Alle estremità forcute delle quattro antenne pendevano le carrucole con i canapi corrispondenti agli angoli della rete quadrata. Altri canapi passavano per altre carrucole in cima a travi minori; fin negli scogli più lontani eran conficcati pali a sostegno dei cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga e pertinace lotta contro la furia e l'insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva vivere d'una vita propria, avere un'aria e un'effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l'argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione speciali, un'impronta distinta come quella d'una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuta la loro opera crudele.

L'argano strideva girando per l'impulso delle quattro leve; e tutta la macchina tremava e scricchiolava allo sforzo, la vasta rete emergendo a poco a poco su dalla profondità verde con un luccichìo aurino.

—Nulla!—mormorò il padre vedendo il fondo vacuo della rete salire a fiore dell'acqua.

I figliuoli lasciarono le leve a un tratto; e l'argano girò stridendo più forte, battendo l'aria con la violenza delle sue quattro braccia capaci di spezzare in due un uomo. La rete si sommerse. Tutti tacquero. Nel silenzio non si udì se non lo strepito della maretta contro gli scogli.

Il peso del maleficio gravava su quelle vite miserabili. Era caduta in Giorgio ogni curiosità d'interrogare, di scoprire, di sapere; ma sentiva egli che quella compagnia taciturna e tragica avrebbe avuto in séguito per lui un'attrazione quasi di affinità dolorosa.—Non era anch'egli vittima di un maleficio?—E istintivamente guardò verso la spiaggia, dove appariva la figura della donna disegnata su un fondo di sasso.

V

Tornò al Trabocco quasi tutti i giorni, in ore diverse. Divenne quello il luogo favorito del suo sogno e della sua meditazione. I pescatori si erano abituati alle sue visite; e gli facevano un'accoglienza rispettosa, gli tenevano pronto all'ombra della capanna una specie di giaciglio composto d'una vecchia vela che odorava di catrame. Ed egli era con loro sempre liberale.

Ascoltando il romorìo delle acque, fissando la cima di un'antenna immobile nell'azzurro, evocava i suoi ricordi nautici, riviveva la sua vita errante nelle estati lontane, quella vita di diporto in una libertà senza confini, che ora gli pareva straordinariamente bella, quasi chimerica. Si ricordava della sua ultima navigazione nell'Adriatico, avvenuta alcuni mesi dopo l'Epifania dell'Amore, in un periodo di tristezze e di entusiasmi poetici, sotto l'influenza di Percy Shelley, di quel divino Ariele transfigurato dal mare in qualche cosa di ricco e di strano: into something rich and strange. E si ricordava dello sbarco a Rimini, dell'entrata in Malamocco, dell'ancoraggio dinanzi alla Riva degli Schiavoni tutta d'oro nel sole di settembre...—Dov'era in quel momento l'antico suo compagno di viaggio, Adolfo Astorgi? Dov'era il Don Juan?—Pochi giorni innanzi, egli ne aveva ricevuto notizie da Candia in una lettera che pareva portare in sé l'odore della mastica e che annunziava il prossimo invio d'una quantità di confetture orientali.

Era veramente Adolfo Astorgi uno spirito fraterno, il solo con cui egli aveva potuto vivere qualche tempo in comunione completa senza provare il disagio, il malessere e la ripugnanza che gli causava quasi sempre la familiarità prolungata con gli altri amici. Grande sfortuna ch'egli fosse ora così lontano!—E lo imaginava talvolta come un liberatore improvviso che apparisse con la sua vela nelle acque di San Vito per proporgli una fuga.

Nella sua debolezza incurabile, in quell'abolizione assoluta della volontà attiva, egli s'indugiava talvolta intorno a simili sogni: invocava qualcuno, forte e imperioso, che lo scotesse con violenza, che lo rapisse, che lo trascinasse lontano, spezzando d'un tratto ogni legame, ultimamente, per sempre, e lo confinasse in un paese remotissimo dov'egli non fosse conosciuto da alcuno e non conoscesse alcuno e dovesse ricominciare la sua vita o morire di men disperata morte.

Egli doveva morire. Conosceva la sua condanna e la sapeva omai irrevocabile; e credeva che l'atto finale si sarebbe compiuto nella settimana precedente il quinto anniversario, tra gli ultimi giorni di luglio e i primi di agosto. Dopo la tentazione balenatagli nell'orrore meridiano dinanzi alle rotaie luccicanti, anche gli pareva che il modo fosse già stabilito. Tendeva di continuo l'orecchio al rombo del treno; provava una strana inquietudine quando s'approssimava l'ora nota del passaggio. Poiché una delle gallerie attraversava il promontorio dal Trabocco, egli udiva dal giaciglio il cupo fragore che scoteva tutta l'altura; e talvolta, se era distratto in altri pensieri, trasaliva di sgomento, quasi che d'improvviso gli giungesse il rombo del suo destino.

Non era uno stesso pensiero dominante in lui e in quegli uomini taciturni? Non sentivano tutti sul loro capo, fin nel più candido fulgore canicolare, una medesima ombra? Per tal comunanza forse egli amava quella compagnia e quel luogo. Su le musiche dell'acqua si lasciava cullare dalle braccia del fantasma ch'egli aveva creato, mentre la volontà di vivere si ritirava da lui a poco a poco, come il calore abbandona un cadavere.

Erano le grandi calme di luglio. Il mare appariva tutto bianco, latteo, qua e là verdognolo nelle vicinanze del lido. Una caligine appena appena colorita di violaceo velava le coste lontane: la punta del Moro, la Nicchiòla, la punta di Ortona, la Penna del Vasto. Le quasi impercettibili ondulazioni della bonaccia producevano tra gli scogli un'armonia sommessa, misurata da pause eguali. Su l'estremità d'una delle lunghe antenne protese, il fanciullo stava alla vedetta: scrutava con occhi vigili lo specchio dell'acqua sottostante e di tratto in tratto—per costringere ad entrar nella rete il pesce sbigottito—gittava una pietra. Quei tonfi sordi aumentavano la malinconia delle cose.

Talvolta l'ospite si assopiva, blandito dai ritmi lenti. I brevi sopori erano il compenso unico alle sue notti insonni. Ed egli soleva addurre a pretesto quel bisogno di riposarsi, affinché Ippolita gli concedesse di rimaner sul Trabocco per un tempo indefinito. Egli le assicurava di non poter dormire se non su quelle tavole, tra le esalazioni degli scogli, nella musica del mare.

Dava egli a quella musica un orecchio sempre più attento e acuto. Ne conosceva omai tutti i misteri; ne comprendeva tutte le significanze. Lo sciacquìo fievole della risacca, simile al romor linguale d'un gregge che si disseti,—il gran tuono subitaneo del fiotto gagliardo che sopraggiungendo dal largo urta e schiaccia l'onda rifratta dalla riva,—la nota più umile e la nota più superba e le innumerevoli gamme intermedie e le diverse misure degli intervalli e i più semplici e i più complessi accordi e tutte le potenze di quella profonda orchestra equòrea nel sonoro golfo egli conosceva, egli comprendeva.

Misteriosa la sinfonia crepuscolare svolgevasi lentamente crescendo, lentamente crescendo, sotto un cielo di pure viole pe' cui cespi eterei lucevano i primi timidi sguardi delle costellazioni non ancor disvelate. I soffii erranti alzavano sospingevano le onde qua e là, rare da prima, poi più spesse, poi men deboli; alzavano sospingevano le onde che tenui fiorivano in sommo, rapivano al crepuscolo un bagliore, per un attimo fervevano, languide ricadevano. Talora come un suono di cimbali fioco, talora come un suono di dischi d'argento l'un contro l'altro percossi, talora come un suono di cristalli giù per un pendìo precipitanti era il suono che quelle nel silenzio facevano ricadendo, morendo. Nuove onde si levavano da un più lungo soffio generate, s'incurvavano limpide e intere portando nella loro curva l'estrema grazia del giorno, si frangevano quasi con mollezza, simili a bianchi rosai mobili che si sfogliassero, lasciando schiume durevoli come petali su lo specchio che si dilatava là dov'esse scomparivano per sempre. Altre si levavano, aumentavano di celerità e di forza, tendevano alla riva, l'attingevano con uno scroscio trionfale a cui seguiva uno strepito diffuso come uno stormire di frondi aride. E, mentre durava l'ingannevole stormire della foresta inesistente, giù giù per la riva lunata altri scrosci si succedevano con intervalli a grado a grado più brevi, seguìti dal medesimo strepito; così che la zona sonora pareva distendersi all'infinito composta dalle vibrazioni perpetue d'una miriade di frondi aride.

Era questa imitativa armonia silvana la trama costante su cui l'onda avversa alla grande scogliera poneva i suoi ritmi interrotti. Arrivava l'onda con una veemenza d'amore o di collera su i massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava con la sua liquidità tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un'anima naturale oltrasovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore.

Rideva, gemeva, pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare su la cima del più arduo scoglio la piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s'insinuava nella fenditura obliqua ove i molluschi prolificavano; piombava su i folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. Il gocciar tardo eguale degli stillicidii nella caverna occulta; il ritmico traboccare delle fontane, simile alla pulsazione d'un cuore capace; il chioccolìo roco delle polle sul declivio scabro; il cupo fragore del torrente prigione tra due pareti di roccia; il tonare iterato del fiume precipite dal sommo della rupe: ogni suono prodotto dalle acque vive su la pietra inerte, e il gioco degli echi, ella fingeva. La tenera parola susurrata all'ombra in disparte; il sospiro esalato da un'angoscia mortale; il clamore d'una moltitudine sepolta in una catacomba profonda; il singulto d'un petto titanico; lo scherno alto e feroce: ogni suono prodotto da bocca umana o triste o lieta, e il mugghio e il ruggito, ella fingeva. I richiami notturni degli spiriti dalle aeree lingue; il bisbiglio delle larve fugate dall'aurora; le risa rattenute delle fluide creature malefiche in agguato al limitare degli antri; le lusinghe dei fiori vocali nei paradisi di lussuria; le riprese della danza magica sotto la luna: ogni suono udito segretamente dall'orecchio dei poeti, gli incanti dell'antica sirena, ella fingeva. Una ed innumerevole, labile ed imperitura, ella comprendeva in sé tutti i linguaggi della Vita e del Sogno.

Fu, nello spirito dell'attentissimo ascoltatore, quasi la resurrezione d'un mondo. La grandezza della sinfonia marina gli risuscitò la fede nella virtù illimitata della Musica. Egli si stupì come mai avesse potuto per sì lungo tempo privare di quel cotidiano alimento il suo spirito, rinunziare al solo mezzo conceduto all'uomo per affrancarsi dall'inganno dell'Apparenza e per discoprire nell'universo interiore dell'anima l'Essenza reale delle cose. Egli si stupì come mai avesse potuto per sì lungo tempo trascurare quel religioso culto che fin dagli ultimi anni della puerizia, sotto l'esempio di Demetrio, aveva praticato con tanto fervore. Non era stata, per lui e per Demetrio, la Musica una Religione? Non aveva ad entrambi ella rivelato il mistero della vita suprema? Ad entrambi ella aveva ripetuto, ma con un senso diverso, la sentenza del Cristo: «Il nostro regno non è di questo mondo.»

E rivide l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

Ancóra una volta, profondissimo gli divenne il sentimento del fascino soprannaturale che dal sepolcro esercitava su lui quell'uomo esistente fuor della vita. Cose lontane gli tornarono alla memoria con onde di armonia indistinte; elementi di pensiero, a lui comunicati da quel rivelatore, parvero assumere figure vaghe di ritmi; tutto l'ideal simulacro del defunto parve trasfigurarsi musicalmente, perdere i suoi contorni visibili, rientrare nell'unità profonda dell'Essere, in quella unità che il solitario violinista per la luce della sua ispirazione aveva scoperto sotto la diversità delle Apparenze.

«Certo» egli pensava «la Musica lo iniziò al mistero della Morte; gli mostrò di là dalla vita un notturno impero di meraviglie. L'armonia, elemento superiore al tempo e allo spazio, gli fece intravedere come una beatitudine la possibilità di affrancarsi dallo spazio e dal tempo, di distaccarsi dalla volontà individua che lo serrava nella carcere della persona collocata in un luogo angusto e lo teneva soggetto in perpetuo all'elemento bruto della sua sostanza corporea. Avendo sentito tante volte svegliarsi dentro di sé, nelle ore dell'ispirazione, la volontà universa e provato una straordinaria gioia nel riconoscere l'unità suprema che è in fondo alle cose, egli credette di prolungarsi nell'infinito per mezzo della morte, credette di dissolversi nell'armonia continua del Gran Tutto e di partecipare all'eterna voluttà del Divenire. Perché dunque non avrei io la stessa iniziatrice allo stesso mistero?»

Alte imagini gli si levavano dallo spirito, rampollando le stelle a una a una dal silenzio dei cieli. Egli ritrovò alcuni de' suoi più poetici sogni. Si ricordò del sentimento immenso di gioia e di libertà ch'egli aveva provato un giorno nell'immedesimarsi fantasticamente con un uomo sconosciuto che giaceva estinto in una bara al sommo d'un catafalco maestoso circondato di fiaccole, mentre per la profondità dell'ombra sacra l'anima del divino rivelatore Beethoven nell'organo, nell'orchestra e nelle voci umane parlava con l'Invisibile. Rivide il chimerico naviglio occupato da un organo gigantesco che tra cielo e mare, per infinite lontananze, versava dalla sua selva di canne su la calma delle acque torrenti di armonia, mentre all'estremo orizzonte fiammeggiavano i roghi vesperali o si diffondeva nella notte la serenità estatica del plenilunio o pe' cerchi delle tenebre le costellazioni brillavano dai loro carri di cristallo. Ricostruì quel meraviglioso Tempio della Morte, tutto di marmo bianco, ove tra le colonne del propileo stavano musici insigni; i quali seducevano con i suoni i giovini passeggeri e nell'iniziarli usavano di tanta arte che nessuno iniziato mai, mettendo il piede su la soglia funebre, si rivolgeva a salutare la luce in cui sino a quel giorno aveva gioito.

«Datemi una maniera nobile di trapassare! Che la Bellezza distenda uno de' suoi veli sotto il mio ultimo passo! Questo soltanto imploro dal mio Destino.»

Un calore lirico dilatava il suo pensiero. La fine di Percy Shelley, già più volte invidiata e sognata sotto l'ombra e il fremito della vela, gli riapparve in un immenso baleno di poesia. Quel destino aveva una grandiosità e una tristezza sovrumane. «La sua morte è misteriosa e solenne come quella degli antichissimi eroi ellenici che d'improvviso una virtù invisibile sollevava dalla terra assumendoli trasfigurati nella sfera gioviale. Come nel canto di Ariele, nulla di lui è vanito, ma il mare l'ha trasfigurato in qualche cosa di ricco e di strano. Il suo corpo giovenile arde sopra un rogo, a piè dell'Appennino, al conspetto del Tirreno solitario, sotto l'arco ceruleo del cielo. Arde con gli aromi, con l'incenso, con l'olio, col vino, col sale. Le fiamme si levano fragorose in un'aria senza mutamento, vibrano canore verso il sole testimonio che fa scintillare i marmi dei culmini montani. Una rondine marina cinge dei suoi voli il rogo, finché il corpo non è consunto. E, poi che il corpo incenerito si disgrega, appare nudo e intatto il cuore:—cor cordivm

Anch'egli, come il poeta dell'Epipsychidion, in una esistenza anteriore non aveva forse amato Antigone?

Sotto di lui, intorno a lui la sinfonia del mare cresceva cresceva nell'ombra e il silenzio del cielo stellato sopra di lui diveniva più profondo. Ma dalla parte della costa si avvicinava un rombo, diverso da ogni altro strepito, riconoscibile. E, com'egli si volse verso quella parte, vide i due fanali del treno simili a due occhi di fiamma folgoranti.

Fragoroso veloce e sinistro il treno passò scotendo il promontorio; percorse in un attimo la strada scoperta; fischiando e rombando scomparve nella bocca della galleria opposta.

Egli balzò in piedi; s'accorse ch'era rimasto solo.

—Giorgio! Giorgio! Dove sei?

Era il richiamo inquieto d'Ippolita che veniva a cercarlo; era un grido d'ansietà e di sgomento.

—Giorgio, dove sei?

VI

Ippolita diede segni di grande allegrezza quando Giorgio le annunziò l'arrivo del pianoforte e dei libri di musica.—Come gli era grata di questa cara sorpresa! Finalmente avrebbero avuto il modo d'interrompere l'ozio delle lunghe ore diurne e di evitare le tentazioni...

Ella rideva, alludendo a quella specie di febbre erotica ch'ella medesima di continuo teneva accesa nell'amante; ella rideva, alludendo a quella loro opera carnale non interrotta se non dai silenzii della stanchezza e da qualche fuga dell'uno.

—Così—ella soggiunse ridendo con una punta di malizia ma senza rancore—così tu non te ne fuggirai più su quel maledetto Trabocco... È vero?

Ella gli si avvicinò, gli prese la testa stringendogli con le palme le tempie, e lo guardò in fondo agli occhi.

—Confessami che tu vai là per questo—ella gli mormorò con una voce morbida come per indurlo a confessare.

—Per che cosa?—domandò egli, provando sotto quelle mani la sensazione che si prova nell'impallidire.

—Per la paura dei miei baci.

Ella pronunziò queste parole con lentezza, quasi scandendo le sillabe, e con una voce divenuta a un tratto singolarmente limpida. Ed aveva nello sguardo un misto di passione, d'ironia, di crudeltà e di orgoglio, indefinibile.

—È vero?—soggiunse.—È vero?

Ella seguitava a stringergli le tempie fra le palme; ma a poco a poco le sue dita s'insinuavano tra i capelli, vellicavano lievissimamente gli orecchi, scorrevano sino alla nuca, con una di quelle carezze molteplici in cui ella era divenuta maestra sovrana.

—È vero?—ripeteva mettendo anche in quella ripetizione una sottile blandizia, dando alla sua voce quell'accento ch'ella già per esperienza sapeva efficace a turbare l'amante.—È vero?

Egli non rispondeva; chiudeva gli occhi: si abbandonava; sentiva la vita fuggire, il mondo vanire.

Ancóra una volta egli era vinto dal semplice tocco di quelle mani magre; ancóra una volta la Nemica esperimentava su lui trionfalmente il suo potere. Pareva ch'ella gli significasse: «Tu non puoi sfuggirmi. Io so che tu mi temi. Ma il desiderio che io suscito in te è più forte del tuo terrore. E nulla m'inebria più che il leggere ne' tuoi occhi e il sorprendere nel fremito delle tue fibre questo terrore.»

Ella, nell'ingenuità del suo egoismo, sembrava non avere alcuna consapevolezza del male che faceva, dell'opera distruttiva a cui attendeva senza tregua e senza ritegno. Abituata alle singolarità dell'amante—alle sue malinconie, alle sue contemplazioni intense e mute, alle sue inquietudini subitanee, ai suoi ardori cupi e quasi folli, alle sue parole amare ed ambigue—ella non comprendeva tutta la gravità della condizion presente ch'ella medesima aggravava sempre più, d'ora in ora. Esclusa a poco a poco dal partecipare alla vita interna di lui—se bene il taciturno l'avesse già esaltata come la fecondatrice di quella vita—ella, prima per istinto e poi per proposito, aveva posto ogni studio nel raffermare il suo dominio sensuale. Il nuovo modo di vivere, all'aria aperta, in quella campagna, su quel mare, favoriva lo sviluppo della sua animalità, eccitava nella sua natura inferma una forza fittizia e il bisogno di esercitarla sino all'eccesso. L'ozio completo, l'assenza di fastidii vili, la presenza continua dell'amato, la comunanza del letto, la tenuità degli abiti estivi, il bagno cotidiano, tutte le nuove abitudini contribuivano ad affinare e a moltiplicare i suoi artificii voluttuosi dandole frequentissime occasioni di ripeterli. E veramente ora pareva ch'ella si prendesse una rivincita terribile su la sua frigidità dei primi giorni, su la sua inesperienza dei primi mesi, e ch'ella corrompesse a sua volta colui che l'aveva corrotta.

Ella era divenuta così esperta, così certa de' suoi effetti; aveva tanta prontezza d'invenzioni improvvise e una così facile grazia di attitudini e di gesti; poneva talora nell'offrirsi una frenesia così violenta che Giorgio non seppe più evocare dalle sembianze di lei l'esangue creatura ferita e fasciata, sommessa a tutte le più temerarie carezze con uno smarrimento profondo, ignara, sbigottita, da cui egli aveva avuto quell'acre e divino spettacolo che è l'agonia del pudore sopraffatto dalla passione soverchiatrice.

Egli aveva pensato una volta, contemplandola nel sonno: «Anche la verace comunione sensuale è una chimera. I sensi della mia amante sono oscuri come la sua anima. Io non potrò mai sorprendere nelle sue fibre un disgusto segreto, un appetito mal soddisfatto, una irritazione non placata. Io non potrò mai conoscere le sensazioni diverse che una medesima carezza le dà ripetuta in momenti diversi...» Ebbene, ella aveva acquistata questa scienza sopra di lui; ella possedeva questa scienza infallibile: conosceva fin le più segrete e sottili sensibilità dell'amante e sapeva ricercarle con un meraviglioso intùito degli stati fisici ch'esse stimolate determinavano e delle lor rispondenze e de' loro accordi e delle loro alternative. In lui la sensazione piacevole, ricevuta in una parte del corpo, tendeva a dilatarsi a complicarsi ad esagerarsi svegliando fantasmi di sensazioni analoghe superiori e quindi producendo uno stato di conscienza inteso ad ottener quella larghezza quella molteplicità e quell'acuzie. Ciò è dire: in lui—per quella sua straordinaria attitudine a comporre dal noto l'ignoto—a una semplice sensazione reale di piacere corrispondeva quasi sempre il fantasma ideale d'una sensazione multipla e diffusiva, più rara e più alta. La potenza d'Ippolita, quasi magica, consisteva appunto nell'intuire quel fantasma interno e nel convertirlo in realtà sensibile su i nervi di lui. Ed era come s'ella esattamente seguisse una suggestione silenziosa.

Ma di quell'inestinguibile desiderio, da lei acceso nell'amante, ella medesima ardeva. Ed ella medesima provava gli effetti della malìa nell'operarla. La consapevolezza del suo potere, mille volte esperimentato senza fallire, la inebriava; e l'ebrietà accecandola le impediva di scorgere la grande ombra che dietro il capo del suo servo facevasi ogni giorno più oscura. Il terrore ch'ella aveva scoperto negli occhi di lui, quei tentativi di fuga, quelle ostilità mal dissimulate non la ritenevano ma la eccitavano. La tendenza fittizia alle cose straordinarie, alla vita trascendente, al mistero—promossa in lei da Giorgio—s'appagava di quei segni che rivelavano un'alterazione profonda. Un tempo l'amante lontano, oppresso dall'angoscia del desiderio e della gelosia, le aveva scritto: «Questo è l'amore? Oh no. È una sorta di prodigiosa infermità che fiorisce soltanto nel mio essere, facendo la mia gioia e la mia pena. Mi piace di credere che sia questo un sentimento non mai provato da alcun'altra creatura umana.» Ella s'inorgogliva pensando che aveva potuto suscitare un tal sentimento in un uomo così diverso dai comuni uomini a lei noti; si esaltava riconoscendo ad ora ad ora gli strani effetti della sua dominazione esclusiva sopra l'infermo. E non ad altro intendeva se non all'esercizio della tirannide, con un misto di leggerezza e di gravità, passando a volta a volta—come nell'episodio recente—dal gioco all'abuso.

VII

Talora, in riva al mare, considerando la donna inconsapevole presso l'onda molle e perigliosa, Giorgio pensava: «Io potrei farla morire. Spesso ella tenta di nuotare appoggiandosi a me. Io potrei facilmente soffocarla nell'acqua, perderla. Non cadrebbe sopra di me sospetto. Il delitto avrebbe l'apparenza di un caso disgraziato. Allora soltanto, d'innanzi al cadavere della Nemica, io potrei risolvere il mio problema. Se oggi ella è il centro di tutta la mia esistenza, qual mutamento avverrebbe domani, dopo la sua scomparsa? Non ho io provato, più d'una volta, un sentimento di libertà e di pace imaginandola estinta, chiusa per sempre nel sepolcro? Io potrei forse salvarmi, riconquistare la vita, facendo perire la Nemica, abbattendo l'Ostacolo.» Egli s'indugiava in questo pensiero; cercava di comporre una rappresentazione di sé medesimo liberato e pacato in un avvenire senza amore; e si piaceva di avvolgere il corpo lussurioso dell'amante in un sudario fantastico.

Nell'acqua ella era timida. Ella non osava mai spingere i suoi tentativi di nuoto oltre la zona del basso fondo. Uno sbigottimento subitaneo la invadeva quando, nel riprendere la positura verticale, ella non sentiva sùbito sotto i piedi il fermo. Giorgio la incitava ad avventurarsi, col suo aiuto, sino allo Scoglio di Fuori—che era un masso isolato a poca distanza dalla riva, a venti braccia di là dalla zona sicura. Bastava, per giungervi a nuoto, un assai lieve sforzo.

—Coraggio!—egli le diceva per persuaderla.—Non imparerai se non rischierai. Ti starò al fianco.

Così la avviluppava del suo pensiero micidiale; a lungo fremeva dentro di sé ogni volta che, negli incidenti del bagno, s'accertava dell'estrema facilità con cui avrebbe potuto tradurre in atto quel suo pensiero. Ma l'energia necessaria gli veniva meno. Ed egli si riduceva a cimentare il caso, proponendo a Ippolita la piccola avventura. Nel suo presente stato di fiacchezza, egli medesimo avrebbe corso pericolo se Ippolita sbigottita si fosse aggrappata a lui con violenza. Ma una tale probabilità non lo distoglieva dalla prova; anzi ve lo spingeva con più animo.

—Coraggio! Come vedi, lo scoglio è così vicino che si tocca quasi distendendo una mano. Non devi preoccuparti del fondo. Devi nuotare con calma, accanto a me. Là riprenderai fiato. Ci metteremo a sedere; raccoglieremo la corallina... Vuoi? Coraggio!

Egli durava fatica a dissimulare la sua ansietà. Ella riluttava, titubava, fra il timore e il capriccio.

—E se la forza mi manca prima di giungere?

—Io ti sosterrò.

—E se la tua forza non basta?

—Basta. Non vedi che lo scoglio è vicino?

Sorridendo, ella dalle dita grondanti si lasciò cadere su le labbra alcune gocce d'acqua.

—Com'è amara!—disse torcendo la bocca.

Poi, vinta l'ultima repulsione, si risolse all'impresa d'un tratto.

—Andiamo! Son pronta.

Il suo cuore non palpitava tanto forte quanto quello del compagno. Poiché l'acqua era tranquillissima, quasi immobile, le prime bracciate furono agevoli. Ma sùbito, inesperta, ella cominciò ad affrettarsi, ad affannarsi. E, appena per un moto falso bevve, fu presa dal pànico; gridò, si agitò, bevve ancóra.

—Aiuto, Giorgio! Aiuto!

Istintivamente egli si lanciò verso di lei, verso quelle mani convulse che l'afferrarono. Pericolò sotto la stretta, sotto il peso; e sùbito vide la fine preveduta.

—Non mi tenere così!—gridò.—Non mi tenere! Lasciami un braccio libero!

E l'istinto brutale della vita gli infuse il vigore. Con uno sforzo straordinario superò la breve distanza traendo quel peso; e toccò lo scoglio, esausto.

—Aggràppati!—suggerì a Ippolita, non potendo egli sollevarla.

Vedendosi salva, ella ricuperò la prontezza per l'atto; ma, appena fu seduta su lo scoglio tutta ansante e grondante, ruppe in singhiozzi.

Piangeva forte, d'un pianto puerile, che non inteneriva ma esasperava il compagno. Egli non l'aveva mai veduta piangere così dirottamente, con quegli occhi gonfi e infiammati, con quella difformazione della bocca. Gli sembrava brutta e pusillanime. Provava contro di lei un rancore iroso, in fondo a cui era quasi il rammarico d'aver compiuto quello sforzo, d'averla tratta in salvo. La imaginava annegata, scomparsa nel mare; imaginava la sua propria sensazione nel vederla scomparire e quindi i segni del suo dolore publico, la sua attitudine davanti al cadavere espulso dall'onda.

Attonita, vedendosi abbandonata al suo pianto, senza un conforto, ella si volse verso di lui. Non singhiozzava più.

—Come farò—ella chiese—per ritornare alla riva?

—Farai una seconda prova—egli le rispose, con una punta di scherno.

—No, no, mai!

—E allora?

—Rimarrò qui.

—Bene. Addio.

Ed egli fece l'atto di gettarsi in mare.

—Addio. Io griderò. Verrà qualcuno a liberarmi.

Ella passava dal pianto al riso, avendo ancóra gli occhi pieni di lacrime.

—Che hai—soggiunse—là sul braccio?

—I segni delle tue unghie.

Ed egli le mostrò le scalfitture sanguinanti.

—Ti dolgono?

Ella s'inteneriva, toccandole delicatamente.

—Ma tutta la colpa è tua—soggiunse.—Tu hai voluto per forza. Io non volevo...

Poi sorridendo:

—Era un tranello per liberarti di me?

E, con un sussulto che le scosse tutta la persona:

—Ah, che brutta morte! Che acqua amara!

Chinò la testa, e sentì l'acqua sgorgare dall'orecchio tiepida come sangue.

Lo scoglio al sole era caldo brunastro e rugoso come il dorso d'una bestia viva; e nelle profondità brulicava d'una vita innumerevole. Si vedevano a fior della calma le piante verdi ondeggiare con una mollezza di capellature disciolte, tra uno sciacquìo leggero. Una specie di seduzione lenta si partiva da quella pietra solitaria che riceveva il calore celeste comunicandolo a quel suo popolo di creature felici.

Come per piegarsi a quella seduzione, Giorgio si allungò supino. Per qualche attimo non intese la coscienza se non a percepire il vago piacere che si diffondeva nella sua pelle umida evaporante al calore emanato dalla pietra e a quello dei raggi diretti. Fantasmi di sensazioni lontane gli si ravvivavano nella memoria. Ripensava i bagni casti d'un tempo, le lunghe immobilità su l'arena più ardente e più morbida di un corpo feminino, l'annuale offerta della spoglia epidermica al dio canicolare. «Ah la solitudine, la libertà, l'amore senza vicinanza, l'amore per le donne morte o inaccessibili!» La presenza d'Ippolita gli impediva qualunque oblìo; gli richiamava sempre l'imagine del congiungimento bestiale, della copula operata con gli organi escrementizii, dell'atto spasmodico sterile e triste ch'era divenuto omai l'unica manifestazione del loro amore.

—Che pensi?—gli chiese Ippolita toccandolo.—Vuoi rimanere qui?

Egli si sollevò. Rispose:

—Andiamo.

La vita della Nemica era ancóra nelle sue mani. Egli poteva ancóra distruggerla. Gittò intorno uno sguardo rapido. Un gran silenzio dominava la collina e la spiaggia; sul Trabocco i pescatori taciturni vigilavano la rete.

—Andiamo—ripetè sorridendo.—Coraggio!

—No, no! Mai più!

—Restiamo qui, allora.

—No. Dà una voce agli uomini del Trabocco.

—Ma rideranno.

—Ebbene, li chiamo io stessa.

—Ma, se tu non hai paura e non mi afferri come dianzi, basto io a portarti.

—No, no. Voglio esser portata con la cannizza.

Ella era così risoluta che Giorgio cedette. Levandosi in piedi su lo scoglio e facendo tromba alla bocca con le mani, chiamò uno dei figliuoli di Turchino.

—Daniele! Daniele!

Al richiamo iterato, uno dei pescatori si distaccò dall'argano, passò il ponticello, discese tra i massi e si mise a correre lungo la riva.

—Daniele! Vieni con la cannizza!

L'uomo udì, tornò indietro; si diresse verso certe zattere di canne insieme congiunte in forma d'un sistro, che giacevano su la ghiaia al sole aspettando la stagione propizia alla pesca delle seppie. Ne trascinò una nell'acqua, vi saltò sopra e, puntando una lunga pertica, la mosse verso lo Scoglio di Fuori.

VIII

La mattina dopo (era una domenica) Giorgio stava seduto sotto la quercia ascoltando il vecchio Cola che raccontava come a Tocco Casauria in quei giorni il Novello Messia fosse stato preso dai gendarmi e condotto nelle carceri di San Valentino con alcuni suoi seguaci.

—Anche Nostro Signore Gesù Cristo patì l'odio dei Farisei—diceva il monocolo scotendo il capo.—Era venuto Uno nelle campagne a portare la pace e l'abondanza; ed ecco, l'hanno carcerato!

—O padre,—esclamò Candia,—non ti dolere! Il Messia uscirà dalla carcere quando vorrà; e noi lo vedremo anche nella campagna nostra. Aspetta!

Ella era appoggiata allo stipite della sua porta, sostenendo senza fatica il peso della placida gravidanza; e negli occhi grigi e larghi le risplendeva una serenità infinita.

A un tratto, risalì dalla viottola su lo spiazzo Albadora, la Cibele settuagenaria, quella che aveva partorito ventidue figliuoli; e annunziò, affannosa, indicando la riva prossima al promontorio sinistro:

—Laggiù, s'è annegato un bambino. Candia si fece il segno della croce. Giorgio si levò, salì su la loggia per osservare il punto indicato. Si scorgeva su la ghiaia sotto il promontorio, in vicinanza della scogliera e della galleria, una macchia bianca: forse il lenzuolo che copriva il morticino. Un gruppo di gente v'era accosto.

Poiché Ippolita era andata a messa con Elena nella cappella del Porto, egli curioso discese e disse agli ospiti:

—Vado a vedere.

—Perché—gli chiese Candia—perché vuoi metterti una pena nel cuore?

Egli s'affrettò per la viottola, calò per una scorciatoia alla spiaggia, camminò lungo il mare. Giunse sul luogo, un po' ansante; domandò:

—Che è accaduto?

I contadini radunati lo salutarono, gli fecero largo. Uno rispose, tranquillo:

—S'è annegato il figlio d'una mamma.

Un altro, vestito di lino, che pareva il custode del cadavere, si chinò e tolse il lenzuolo.

Apparve il piccolo corpo inerte, disteso su la dura ghiaia. Era un fanciullo di otto o nove anni, biondiccio, gracile, allungato. Gli sollevavano la testa in guisa d'un origliere i suoi abiti poveri, avvolti: la camicia, i calzoni azzurri, la cintura rossa, il cappello di feltro molle. Il suo viso era appena appena livido, col naso camuso, con la fronte sporgente, con le ciglia lunghissime, con la bocca semiaperta dalle labbra grosse e violacee tra cui biancheggiavano i denti l'un dall'altro discosti. Il suo collo era esile, floscio come uno stelo appassito, segnato di pieghe minute. L'appiccatura delle braccia era debole; le braccia erano sottili, sparse d'una peluria simile alla lieve piuma che copre gli uccelli appena nati. Le costole si disegnavano distinte; una linea più scura divideva la pelle per il mezzo del petto; l'ombelico sporgeva come un nodo. I piedi, un poco gonfi, avevano lo stesso colore giallognolo delle mani; e le piccole mani erano callose e sparse di porri, con le unghie bianche che incominciavano a illividirsi. Sul braccio sinistro, su le cosce presso gli inguini, e giù giù su le ginocchia, per le gambe apparivano chiazze rossastre. Tutte le particolarità di quel corpo miserevole acquistavano agli occhi di Giorgio una straordinaria significazione, immobili com'erano e fermate per sempre nel rigore della morte.

—Come s'è annegato? Dove?—chiese egli a bassa voce.

L'uomo vestito di lino fece, con qualche segno d'impazienza, il racconto già forse ripetuto troppe volte. Egli aveva una faccia bestiale, quadrata, con i sopraccigli ispidi, con la bocca larga cruda feroce.—Il bambino, avendo da poco ricondotto le pecore alla stalla, presa con sé la colazione, era disceso in compagnia d'un altro a bagnarsi. Appena messo il piede nell'acqua, era caduto, s'era affogato. Alle grida del compagno, uno della casa di sopra era accorso e l'aveva tratto dall'acqua semivivo, bagnandosi le gambe fin sotto il ginocchio. L'aveva capovolto per fargli vomitar l'acqua, l'aveva scosso, ma inutilmente.—Per indicare fin dove il miserello era giunto, l'uomo raccolse un sasso e lo gettò nel mare.

—Là, fin là: a tre braccia dal lido!

Il mare in calma respirava presso il capo del morticino, dolcemente. Ma il sole ardeva forte su la ghiaia; e qualche cosa di spietato cadeva da quel cielo di fiamma, da quei duri testimoni sul pallido cadavere.

—Perché—disse Giorgio—perché non lo portate all'ombra, in una casa, sopra un letto?

—Non si può muovere—sentenziò il custode.—Non si può muovere finché non viene la Corte.

—Ma portatelo all'ombra, là, sotto l'argine!

Ostinato il custode ripeteva:

—Non si può muovere.

E nulla era più triste di quella gracile creatura esanime distesa su le pietre e guardata da quel bruto impassibile che ripeteva il racconto sempre con le stesse parole e faceva sempre lo stesso gesto gittando il sasso nell'acqua.

—Là, fin là.

Una femmina sopraggiunse, una megera dal naso adunco, dagli occhi grigi, dalla bocca aspra: madre al compagno del morto. Era palese in lei una certa sospettosa inquietudine, come se ella temesse un'accusa pel suo figliuolo. Parlava con acredine, si mostrava quasi irata contro la vittima.

—Era il suo destino. Dio gli ha detto: «Va nel mare e perditi!»

Ella gesticolava con veemenza.

—Perché c'è andato, se non sapeva nuotare?

Un fanciullo estraneo, figlio d'un marinaio, ripeté con dispregio:

—Perché c'è andato? Noi sì, che sappiamo nuotare...

Altra gente sopraggiungeva, guardava con fredda curiosità; restava o passava oltre. Un gruppo occupava l'argine della strada ferrata; un altro s'affacciava dall'alto del promontorio, come a uno spettacolo. I fanciulli, seduti o in ginocchio, giocavano con i sassolini, gittandoli all'aria e raccogliendoli ora sul dorso ora nel cavo della mano, in tutti era una profonda indifferenza al conspetto della sciagura altrui e della morte.

Un'altra femmina sopraggiunse, reduce dalla messa, vestita di seta, ornata di tutti i suoi ori. Anche a lei il custode impazientito ripeté il racconto, anche per lei indicò il punto nell'acqua. Ella era loquace.

—Io dico sempre ai miei figliuoli: «Non andate al mare, o vi uccido!» Il mare è il mare. Chi si salva?

Ella ricordava altri annegamenti; ricordava il fatto dell'annegato dalla testa mozza, spinto dall'onda sino a San Vito e scoperto tra gli scogli da un fanciullo.

—Qui, tra questi scogli. Venne a dire: «C'è un morto!» Noi credevamo che ci burlasse. Ma andammo e trovammo. Era senza testa. Venne la Corte. Fu seppellito in un fosso; poi disseppellito, notte tempo. Era tutto spolpato, macerato; ma aveva ancóra le scarpe ai piedi. Il giudice disse: «Guarda: son meglio delle mie!» Doveva dunque essere un uomo ricco. Ed era un mercante di buoi. L'avevano ucciso, gli avevano mozza la testa e l'avevano gettato nel Tronto...

Ella continuava, con una voce stridula, ritirando di tratto in tratto con un lieve sibilo la saliva soverchia.

—E la madre? Quando viene la madre?

A quel nome, da tutte le femmine adunate sorsero esclamazioni di compianto.

—La madre! Ora viene la madre!

E tutte si volgevano credendo di scorgerla per la spiaggia infiammata, nella lontananza. Qualcuna anche ne dava notizie.—Si chiamava Riccangela. Era vedova, con sette figliuoli. Aveva allogato questo in casa di contadini perché pascesse le pecore e guadagnasse un tozzo di pane. Una diceva, guardando il cadavere:

—Chi sa quanto ha penato la madre per crescerlo!

Un'altra diceva:

—Per sfamare i figliuoli, ella ha chiesto anche l'elemosina!

Un'altra narrava che, anche pochi mesi innanzi, il poverello aveva corso pericolo di affogarsi in una pozzanghera d'un cortile: in un palmo d'acqua.

Tutte ripetevano:

—Era il suo destino. Così doveva morire.

E l'aspettazione le rendeva inquiete, ansiose.

—La madre! Ora viene la madre!

Sentendosi stringere il cuore, Giorgio esclamò:

—Ma portatelo all'ombra, in una casa, perché la madre non lo veda qui nudo su le pietre, sotto questo sole!

Ostinato il custode opponeva:

—Non si può toccare. Non si può muovere finché non viene la Corte.

Gli astanti guardavano attoniti il forestiero: il forestiero di Candia. Aumentavano di numero. Alcuni occupavano l'argine arborato di acacie; altri coronavano il promontorio arido a picco su gli scogli. Qualche navicella di canne su i vasti massi mostruosi risplendeva come d'oro a piè dell'alto scoscendimento che dava imagine della ruina d'una torre ciclopica incontro all'immensità del mare.

A un tratto, di su l'altura una voce annunziò:

—Eccola!

Altre voci seguitarono:

—La madre! La madre!

Tutti si volsero; taluni dall'argine discesero; quelli del promontorio si sporsero. Tutti ammutolirono, nell'aspettazione. Il custode ricoprì col lenzuolo il cadavere. Nel silenzio il mare appena appena ansava, le acacie appena stormivano.

E si udirono allora nel silenzio le grida della vegnente.

Veniva la madre lungo il lido, pel sole, gridando. Era vestita della gramaglia vedovile. Traballava su la ghiaia, col corpo curvato, gridando:

—Figlio mio! Figlio mio!

Alzava le palme al cielo e poi le batteva su le ginocchia, gridando:

—Figlio mio!

Uno de' suoi figli maggiori, con un fazzoletto rosso legato intorno al collo per qualche pustola, la seguiva come un mentecatto asciugandosi le lacrime col dorso della mano.

Ella camminava lungo il lido, curva, battendosi le ginocchia, dirigendosi verso il lenzuolo. Mentre chiamava il morto, le sfuggivano dalla bocca suoni non umani, simili all'uggiolare d'una cagna selvaggia. Nell'appressarsi, più s'incurvava, si metteva quasi carpone; finché, giunta, si gittò con un urlo sul lenzuolo.

Si risollevò. Con la sua mano rude e nerastra—mano provata a tutte le fatiche—scoperse il cadavere. Lo guardò per qualche attimo, immobile, quasi impietrita. Poi più e più volte, acutamente, con tutta la forza della sua voce, gridò come per risvegliarlo:

—Figlio! Figlio! Figlio!

I singulti la soffocarono. In ginocchio, furiosa ella si batté le cosce con i pugni. Girò intorno, su gli estranei, i suoi occhi disperati. Parve raccogliersi, in una pausa della violenza.

E incominciò allora un canto.

Ella cantava il suo dolore con un ritmo che si elevava e si abbassava costantemente come la palpitazione cordiale.

Era l'antica monodìa che da tempo immemorabile in terra d'Abruzzi le donne cantavano su le spoglie dei consanguinei. Era l'eloquio melodioso del sacro dolore che rinveniva spontaneamente nelle profondità dell'essere quel ritmo ereditario su cui le antiche madri avevano modulato il lor pianto.

Ella cantava, ella cantava:

—Apri gli occhi, àlzati, cammina, figlio mio! Come sei bello! Come sei bello!

Cantava:

—Per un tozzo di pane t'ho annegato, figlio mio! Per un tozzo di pane t'ho portato al macello, figlio mio! Per questo t'ho allevato!

Ma la femmina irosa, dal naso adunco, la interruppe:

—Non l'hai annegato tu. È stato il Destino. Tu non l'hai portato al macello. L'avevi messo in mezzo al pane.

E, facendo un gesto verso la collina dov'era la casa che aveva ospitato il fanciullo, soggiunse:

—Lo tenevano, là, come un garofano all'orecchio.

Seguitava la madre:

—O figlio mio, chi t'ha mandato, chi t'ha mandato qui ad annegarti?

E la femmina irosa:

—Chi l'ha mandato? Nostro Signore. Gli ha detto: «Va nel mare e perditi!»

Come Giorgio accertava sottovoce a uno degli astanti che soccorso in tempo il bambino avrebbe potuto salvarsi e che era stato ucciso da colui che l'aveva capovolto e tenuto sospeso per i piedi,—sentì sopra di sé fisso lo sguardo della madre.

—Fagli tu qualche cosa, signore!—ella pregò.—Fagli tu qualche cosa!

Ella pregò:

—O Madonna dei Miracoli, fa il miracolo!

Toccando il capo del morto, ripeté:

—Figlio! Figlio! Figlio! Àlzati! Cammina!

Stava di fronte a lei in ginocchio il fratello del morto; e singhiozzava senza dolore, di tratto in tratto guardandosi intorno con un volto divenuto all'improvviso indifferente. Un altro fratello, il maggiore, stava seduto poco lontano all'ombra d'un macigno; e simulava il lutto celando il volto tra le palme. Le femmine, volendo consolare la madre, si chinavano intorno a lei con atti di pietà e accompagnavano di qualche gemito la monodìa.

Ella cantava:

—Perché t'ho allontanato dalla mia casa? Perché t'ho mandato alla morte? Tutto ho fatto per sfamare i figli miei; tutto, tutto, tutto, fuor che la femmina da guadagno. E per un tozzo t'ho perduto! Così, così dovevi finire! T'hanno annegato, figlio mio!

Allora colei dal naso rapace si alzò le sottane, in un impeto di collera; entrò nell'acqua sino al ginocchio; e gridò:

—Guarda! Qui è arrivato. Guarda! L'acqua è come l'olio. È segno che così doveva morire.

Risalì con due passi alla riva.

—Guarda!—ripeté indicando su la ghiaia l'orma profonda di colui che aveva raccolto il corpo.—Guarda!

La madre guardava stupefatta; ma pareva che non vedesse, che non comprendesse. Dopo gli scoppii disperati del dolore, avvenivano in lei pause brevi, quasi oscuramenti della conscienza. Ella taceva; si toccava un piede, una gamba, con un gesto macchinale; si asciugava le lacrime col grembiule nero; sembrava acquetarsi. D'improvviso, un nuovo scoppio la scoteva tutta quanta, l'abbatteva sul cadavere.

—E non ti posso portar via! Non ti posso portare nella chiesa con queste braccia! Figlio! Figlio!

Ella lo palpava dal capo ai piedi, lo accarezzava pianamente. La sua angoscia selvaggia s'addolciva in una infinita tenerezza. La sua mano adusta e callosa di lavoratrice si faceva infinitamente soave quando toccava gli occhi, la bocca, la fronte del figliuolo.

—Come sei bello! Come sei bello!

Ella gli toccò il labbro inferiore, ch'era violaceo; e, come glie lo strinse alquanto, dalla bocca sgorgò una spuma bianchiccia. Ella gli tolse di tra le ciglia qualche bruscolo, a poco a poco, quasi temendo di fargli male.

—Come sei bello, cuore della mamma!

Lunghe, assai lunghe erano le ciglia, e bionde. Su le tempie, su le guance era una lanugine leggera, chiara come oro.

—Non m'ascolti? Àlzati! Cammina!

Ella prese il piccolo cappello logoro e molle come un cencio. Lo guardò, lo baciò. Disse:

—Con questo io voglio farmi un breve e voglio portarlo sempre nel petto.

Prese la cintura rossa; e disse:

—Lo voglio vestire.

La femmina grifagna, che non abbandonava il luogo, assentì:

—Ora lo vestiamo.

Tolse ella medesima gli abiti di sotto al capo del morto; frugò nella tasca della giacchetta e trovò un pezzo di pane e un fico.

—Vedi? Gli avevano dato il suo mangiare allora allora. Lo tenevano come un garofano all'orecchio.

La madre guardò la piccola camicia sucida e lacera su cui le lacrime stillavano; e disse:

—Gli metterò questa camicia!

La femmina, pronta, diede una voce verso l'altura a uno de' suoi:

—Porta sùbito giù una camicia nuova di Nufrillo!

Fu portata la camicia nuova. Come la madre sollevò il morticino, dalla bocca escì un poco d'acqua e colò giù per il petto.

—O Madonna dei Miracoli, fa il miracolo!—ella pregò volgendo gli occhi al cielo con una suprema implorazione.

Poi riadagiò la sua dolce creatura. Prese la camicia vecchia, la fascia rossa, il cappello; li avvolse insieme in un fardelletto; e disse:

—Questo sarà il mio guanciale; su questo poserò sempre, la notte; su questo voglio morire.

Mise la grama reliquia su la ghiaia, presso il capo del figliuolo; e sopra vi posò la tempia, distendendosi come in un letto.

Ambedue, la madre e il figliuolo, ora giacevano l'una a fianco dell'altro su le dure pietre, sotto il cielo infiammato, presso il mare micidiale. Ed ella ora cantava la medesima cantilena che un tempo aveva diffuso il puro sonno su la culla.

—Lèvati, Riccangela! Lèvati!—sollecitavano le femmine intorno.

Ella non le ascoltava.

—Il figlio mio può stare così su le pietre e io non posso starci? Così, su le pietre, il figlio mio!

—Lèvati, Riccangela! Vieni!

Ella si levò. Guardò ancóra con una terribile intensità il piccolo viso livido del morto. Chiamò ancóra una volta con tutta la forza della sua voce:

—Figlio! Figlio! Figlio!

Poi ella medesima ricoprì la sorda spoglia col lenzuolo.

E le femmine la circondarono, la trassero poco discosto, all'ombra d'un macigno; la costrinsero a sedersi, gemettero con lei.

A poco a poco gli spettatori si sbandavano, si dileguavano. Rimasero soltanto alcune delle consolatrici. Rimase l'uomo vestito di lino, il custode impassibile, che aspettava la Corte. Il sole canicolare feriva la ghiaia, dava al lenzuolo funebre una bianchezza allucinante. Il promontorio levava nell'ardore la sua aridità desolata, a picco su la scogliera anfrattuosa. Il mare, immenso e verde, respirava sempre eguale. E pareva che l'ora lenta non dovesse aver mai fine.

All'ombra del macigno, di contro al lenzuolo bianco sollevato dalla forma rigida del cadavere, la madre continuava la sua monodìa nel ritmo fatto sacro da tanto antico e nuovo dolore di sua gente. E pareva che il pianto non dovesse aver mai fine.

IX

Tornando dalla cappella del Porto, Ippolita aveva saputo l'avvenimento. Accompagnata da Elena, aveva voluto raggiungere Giorgio su la spiaggia. Ma, in vicinanza del luogo tragico, alla vista del lenzuolo biancheggiante su la ghiaia, ella aveva sentito venir meno la forza. Presa da un impeto di pianto, era tornata indietro, era rientrata nella casa, aveva aspettato Giorgio piangendo.

Ella non tanto s'impietosiva sul piccolo morto quanto su sé medesima, ripensando al pericolo ch'ella aveva corso nel bagno recente. E una repulsione istintiva, indomabile, le sorgeva contro quel mare.

—Non voglio più bagnarmi nel mare; non voglio che tu ti bagni—ella impose a Giorgio, quasi con durezza, manifestando un proposito fermo e tenace.—Non voglio. Intendi?

Passarono il resto della domenica in una inquietudine angosciosa, affacciandosi di continuo alla loggia per guardare la macchia bianca su la riva sottostante. Giorgio conservava negli occhi l'imagine del cadavere distinta da un rilievo così fiero che quasi gli pareva tangibile. E aveva negli orecchi la cadenza della monodìa materna.—Continuava ancóra la madre il suo lamento all'ombra del macigno? Era rimasta sola dinanzi al mare e dinanzi alla morte?—Egli rivide nella sua anima un'altra madre. Rivisse l'ora del lontano mattino di maggio nella casa lontana: quando aveva sentito d'improvviso la vita di lei avvicinata alla sua propria vita, quasi aderente, e le rispondenze misteriose del sangue comune, e la tristizia del destino sospeso sul capo di entrambi.—L'avrebbe egli riveduta con i suoi occhi mortali? Avrebbe egli riveduto quel fievole sorriso che non moveva alcuna linea del volto, ma pareva mettere anche un tenue velo di speranza, ahi troppo fuggitivo, su le impronte indelebili del dolore? Avrebbe egli ribaciata quella mano lunga e scarna dalla carezza non somigliante ad alcun'altra?—E rivisse l'ora lontana delle lacrime: quando alla finestra egli aveva avuto dal lume d'un sorriso la tremenda rivelazione; quando aveva riudito finalmente la voce cara, la voce unica, indimenticabile, di conforto, di consiglio, di perdono, d'infinita bontà; quando aveva riconosciuto finalmente la tenera creatura d'un tempo, l'adorata. E rivisse l'ora dell'addio, dell'addio senza lacrime e pure amarissimo, in cui egli aveva mentito per pudore leggendo negli stanchi occhi della madre delusa una domanda troppo triste: «Per chi mi abbandoni?» E tutte le tristezze passate gli ritornarono nello spirito, e tutte le dolenti imagini:—il volto estenuato di lei, le palpebre di lei gonfie rosse arse, il sorriso dolce e straziante di Cristina, il bimbo malaticcio dalla grossa testa sempre china sul petto quasi esanime, la maschera cadaverica della povera mentecatta ingorda... E gli occhi stanchi della madre ripetevano: «Per chi mi abbandoni?»

Egli si sentiva penetrare come da un'onda molle, si illanguidiva, si disfaceva; provava un bisogno vago di piegare la fronte, di nascondere la faccia in un grembo, di essere castamente blandito, di assaporar lentamente la sua chiusa amarezza, di assopirsi, di perire a poco a poco. Pareva che tutte le effeminazioni della sua anima si dischiudessero insieme e fluttuassero.

Passò giù nella viottola un uomo portando su la testa una piccola cassa mortuaria di abete bianco.

Nel pomeriggio inoltrato giunse su la spiaggia la Corte. Il morticino fu tolto di su le pietre, fu trasportato su per l'altura, disparve. Giunsero fino all'Eremo acute grida. Poi tutto tacque. Il silenzio occupò i luoghi intorno, salendo dal mare in calma.

Così calmo era il mare, così calma era l'aria che quasi pareva sospesa la vita. Ovunque il colore del più chiaro indaco era sparso, eguale.

Ippolita era rientrata, s'era distesa sul letto. Giorgio era rimasto su la loggia seduto. Ambedue soffrivano e non potevano dirsi la loro pena. Il tempo fluiva.

—M'hai chiamato?—domandò Giorgio, avendo creduto udire il suo nome.

—No—ella rispose.

—Che fai? T'addormenti?

Ella non rispose.

Giorgio si riadagiò su la sedia, socchiuse gli occhi. Il suo pensiero andava pur sempre verso la Montagna. Egli sentiva in quel silenzio il silenzio dell'orto solingo nell'abbandono: dove i cipressetti alti e diritti sorgevano immobili al cielo, con santità, come ceri votivi; dove scendeva una religiosa dolcezza di memorie dalle finestre delle deserte stanze rimaste intatte come reliquiarii.

E gli apparve l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

«Ah perché» egli diceva a Demetrio «perché non obbedii al tuo suggerimento l'ultima volta che rientrai nelle stanze ancóra abitate dal tuo spirito? Perché volli di nuovo tentare la vita e coprirmi d'ignominia ai tuoi occhi? Come ho potuto perdermi a cercare la sicurtà nel possesso di un'altra anima, mentre possedevo la tua, mentre tu vivevi in me?»

Dopo la morte fisica, l'anima di Demetrio si era preservata nel superstite senza diminuzione alcuna, salendo anzi e rimanendo al supremo grado della sua intensità. Tutto ciò che nella persona vivente si disperdeva al contatto dei suoi simili; tutti i suoi atti e i suoi gesti e i suoi detti, nel corso del tempo; tutte le manifestazioni varie che formavano lo special carattere del suo essere in rapporto con gli altri esseri; tutte le forme costanti e variabili che distinguevano la sua persona tra le altre persone, e tra la moltitudine umana particolarizzavano la sua umanità; tutti insomma i segni della sua vita tra le altre vite s'erano raccolti, circonscritti, concentrati nella sola attenenza ideale che legava il defunto al superstite. E il divino ostensorio, custodito nel Duomo della città natale, pareva consacrare questo alto mistero. Ego Demetrius Aurispa et unicus Georgius filius meus...

La creatura impura, che ora giaceva sul letto della sua lussuria, erasi interposta. La terribile contaminatrice non era soltanto l'ostacolo alla vita ma ben anche l'ostacolo alla morte: a quella morte. Ella era la Nemica d'entrambi.

E Giorgio in ispirito peregrinò verso la Montagna, raggiunse la vecchia casa, entrò nelle stanze deserte; come nel giorno di maggio, varcò la soglia tragica. Come in quel giorno, sentì su la sua volontà l'imposizione oscura. Prossimo era il quinto anniversario. In qual modo l'avrebbe egli celebrato?

Un grido improvviso d'Ippolita gli diede un sussulto violento. Egli balzò in piedi, accorse.

—Che hai?

Seduta sul letto, sbigottita, ella si passava le mani su la fronte e su le palpebre come per toglierne qualche cosa che la tormentasse. Fissò su l'amante i suoi grandi occhi torbidi. Poi, con un atto repentino, gli gittò le braccia al collo e gli coprì di baci e di lacrime la faccia.

—Ma che hai? Che hai?—egli chiedeva, attonito, inquieto.

—Nulla, nulla...

—Perché piangi?

—Ho sognato...

—Che hai sognato? Dimmi!

Ella non rispose; lo strinse e lo baciò ancóra.

Egli le prese i polsi, liberandosi dal vincolo. Volle guardarla nel volto.

—Dimmi! Dimmi! Che hai sognato?

—Nulla... un brutto sogno.

—Che sogno?

Ella si difendeva dell'insistenza. In lui cresceva il turbamento col desiderio di sapere.

—Ma dimmi!

Di nuovo tutta scossa dal raccapriccio, ella balbettò:

—Ho sognato... che scoprivo il lenzuolo, laggiù... e vedevo te...

Soffocò la parola nei baci.

LIBRO SESTO

L'INVINCIBILE


I

Scelto da un amico e preso a nolo in Ancona, spedito a San Vito, trasportato fino all'Eremo con gran pena, il pianoforte giunse tra le allegrezze infantili d'Ippolita. Fu collocato nella stanza che Giorgio chiamava la biblioteca, nella stanza più vasta e più adorna, ov'era il divano carico di cuscini, ov'erano le lunghe sedie di vimini, l'amaca, le stuoie, i tappeti, tutte le cose favorevoli alla vita orizzontale e al sogno. Giunse anche, da Roma, la cassa dei libri di musica.

Allora, per alcuni giorni, fu una nuova ebrezza. Entrambi furono invasi da un'eccitazione quasi folle; trascurarono ogni consuetudine; dimenticarono tutto; si profondarono interamente in quel piacere.

Non pativano più l'afa dei lunghi pomeriggi; non provavano più le gravi sonnolenze irresistibili; potevano prolungare le veglie sin quasi all'alba; potevano prolungare il digiuno oltre l'ora, senza soffrirne, senza accorgersene, quasi che la loro vita corporale si affinasse, quasi che la loro sostanza si sublimasse spogliandosi dei bisogni vili. Credevano di sentir crescere chimericamente la loro passione oltre ogni limite, giungere a una prodigiosa potenza la palpitazione dei loro cuori. Credevano talvolta di ritrovare quel minuto di oblìo supremo, quel minuto unico, ch'era passato sopra di loro nel primo crepuscolo; credevano talvolta di ritrovare quella sensazione indefinibile, di sentire indefinitamente disperdersi nell'aria la loro sostanza resa leggera come un vapore. E ad ambedue talvolta il punto ove respiravano pareva indefinitamente lontano dai luoghi conosciuti, remotissimo, isolato, ignorato, non accessibile, quasi fuori del mondo.

Una virtù misteriosa li riavvicinava, li congiungeva, li mesceva, li fondeva l'un nell'altra, li rendeva simili nella carne e nell'anima, li riuniva in un essere solo. Una virtù misteriosa li separava, li faceva estranei, li respingeva nella solitudine, apriva tra di loro un abisso, metteva in fondo a loro un desiderio disperato e mortale.

Entrambi gioivano e soffrivano in questa vicenda. Risalivano alla prima estasi del loro amore e discendevano all'ultimo inutile sforzo di possedersi; e risalivano ancóra, risalivano al principio della grande illusione, respiravano l'ombra mistica ove per la prima volta le loro anime tremando avevano scambiata una stessa muta parola; e ancóra discendevano, discendevano verso il supplizio dell'aspettazione delusa, entravano in un'atmosfera d'opaca e soffocante caligine simile a un turbine di faville e di ceneri calde.

Ciascuno di quei musici maghi ch'essi prediligevano tesseva intorno alla lor sensibilità acuita un diverso incantesimo. Una Pagina di Roberto Schumann evocava il fantasma d'un amore inveterato che aveva disteso sopra di sé a guisa d'un artifiziale firmamento il tessuto delle sue memorie più belle e con una dolcezza attonita e triste lo vedeva a poco a poco impallidire. Un Improvviso di Federico Chopin diceva come in sogno:

»Odo nella notte quando tu dormi sul mio cuore, odo nel silenzio della notte una stilla che cade, che lenta cade, eguale continua cade, così da presso, così lontano! Odo nella notte la stilla che dal mio cuore cade, lo stillante sangue che dal mio cuore cade, quando tu dormi, quando tu dormi, io solo.» Alti cortinaggi di porpora, cupi come la passione senza scampo, intorno a un letto profondo come un sepolcro evocava l'Erotica di Edoardo Grieg: e una promessa di morte in una voluttà silenziosa; e un ismisurato dominio, ricco di tutti i beni della terra, aspettante in vano il suo re scomparso, il suo re nella nuziale e funerale porpora morituro. Ma nel preludio del Tristano e Isolda l'anelito dell'amore verso la morte irrompeva con una veemenza inaudita, il desiderio insaziabile si esaltava in una ebrezza di distruzione.

«...Per bere laggiù in onor tuo la coppa dell'amore eterno, io voleva consacrarti con me sul medesimo altare alla morte.»

E quell'immenso vortice di armonie li avviluppò entrambi irresistibilmente, li serrò, li trascinò; li rapì nel «meraviglioso impero».

Non sul meschino istrumento che non poteva rendere neppure una fievole eco della pienezza torrenziale, ma nell'eloquenza, ma nell'entusiasmo dell'esegeta comprendeva Ippolita tutta la grandiosità di quella Rivelazione tragica. E, come un giorno la deserta città guelfa dei conventi e dei monasteri, così ora alle parole dell'amante le appariva nella fantasia la vecchia città grigia di Bayreuth solinga al conspetto delle montagne bàvare in un paesaggio mistico ov'era diffusa la stessa anima che Albrecht Dürer imprigionò in intrichi di segni al fondo delle sue stampe e delle sue tele.

Giorgio non aveva dimenticato alcun episodio di quel suo primo pellegrinaggio religioso verso il Teatro Ideale; poteva rivivere tutti gli attimi della straordinaria emozione nell'ora in cui aveva scorto su la dolce collina, all'estremità del gran viale arborato, l'edificio sacro alla festa suprema dell'Arte; poteva ricomporre la solennità del vasto anfiteatro cinto di colonne e d'archi, il mistero del Golfo Mistico.—Nell'ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio estatico di tutte le anime, su dall'orchestra invisibile un sospiro saliva, un gemito spirava, una voce sommessa diceva il primo dolente richiamo del desiderio in solitudine, la prima confusa angoscia nel presentimento del supplizio futuro. E quel sospiro e quel gemito e quella voce dall'indefinita sofferenza all'acuità di un impetuoso grido si elevavano dicendo l'orgoglio d'un sogno, l'ansia di un'aspirazione sovrumana, la volontà terribile e implacabile di possedere. Con una divorante furia, come un incendio all'improvviso erotto da un abisso ignorato, il desiderio si dilatava, s'agitava, fiammeggiava sempre più alto, sempre più alto, alimentato dalla più pura essenza di una duplice vita. Tutte le cose abbracciava l'ebrezza della fiamma canora; tutte le cose del mondo sovrane vibravano perdutamente nell'immensa ebrezza ed esalavano la loro gioia e il loro dolore più occulti sublimandosi, consumandosi. Ma, ecco, gli sforzi d'una resistenza, ma le collere d'una lotta fremevano, stridevano nell'impeto di quell'ascensione turbinosa; ma contro un invisibile ostacolo quel gran getto vitale si frangeva d'improvviso, ricadeva, s'estingueva, non risorgeva più. Nell'ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio trepido di tutte le anime, su dal Golfo Mistico un sospiro saliva, un gemito moriva, una voce estenuata diceva la tristezza dell'eterna solitudine, l'aspirazione verso l'eterna notte, verso il divino originario oblìo.

Ed ecco, un'altra voce, di realtà umana, modulata da labbra umane, giovine e forte, mista di malinconia e d'ironia e di minaccia, cantava una canzone del mare, dall'alto dell'albero, sul naviglio recante a Re Marco la bionda sposa irlandese. Cantava: «Verso occidente erra lo sguardo, verso oriente fila il naviglio. Fresco soffia il vento verso la terra natale. O figlia d'Irlanda, ove t'induci tu? Gonfiano la mia vela i tuoi sospiri? Soffia, soffia, o vento! Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor selvaggio!» Era l'ammonimento, era l'annunzio profetico della vedetta, allegro e minaccioso, carezzevole e beffardo, indefinibile. E l'orchestra taceva. «Soffia, soffia, o vento! Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor selvaggio!» La voce cantava sola sul mare tranquillo, nel silenzio; mentre sotto la tenda Isolda, immobile sul suo letto, pareva profondata nel sogno oscuro del suo destino.

S'apriva così il Dramma. Il tragico soffio, che già aveva agitato il preludio, passava e ripassava nell'orchestra. Subitamente la potenza di distruzione sì manifestava nella donna maga contro l'uomo da lei eletto, da lei votato alla morte. La sua collera irrompeva con l'energia dei ciechi elementi, invocava tutte le forze terribili della terra e del cielo a distruggere l'uomo ch'ella non poteva possedere. «Svégliati al mio appello, potenza intrepida, lèvati su dal cuore ove ti sei celata! O vènti incerti, ascoltate la mia volontà! Scotete dal letargo questo sognante mare, risuscitate dal suo fondo la cupidigia implacabile, mostrategli la preda che io gli offro! Infrangete la nave, inghiottite i rottami! A voi, o vènti, tutto che qui palpita e respira io do in premio.» All'ammonimento della vedetta rispondeva il presentimento di Brangæne. «Ah sventura! Quale ruina io presento, o Isolda!» E la dolce e devota donna si affannava a placare quel folle furore. «Oh dimmi la tua tristezza, dimmi il tuo segreto, Isolda!» E Isolda: «Il mio cuore soffoca. Apri, apri la cortina tutta quanta!»

Tristano appariva, in piedi, immobile, con le braccia conserte, con lo sguardo fisso nelle lontananze del mare. Dall'alto dell'albero la vedetta riprendeva la sua canzone, su l'onda saliente dell'orchestra. «Sventura, ah sventura!...» E, mentre gli occhi d'Isolda accesi d'una cupa fiamma contemplavano l'eroe, sorgeva dal Golfo Mistico il motivo fatale, il grande e terribile simbolo di amore e di morte, in cui era chiusa tutta l'essenza della tragica finzione. E Isolda con la sua bocca medesima proferiva la condanna: «Da me eletto, da me perduto».

La passione metteva in lei una volontà omicida, le svegliava nelle radici dell'essere un istinto ostile all'essere, un bisogno di dissolvimento, d'annientamento. Ella s'esasperava cercando in sé, intorno a sé una potenza fulminea che colpisse e distruggesse senza lasciar vestigio. Il suo odio si faceva più atroce al conspetto dell'eroe calmo ed immobile che sentiva sul suo capo addensarsi la minaccia e sapeva l'inutilità d'ogni difesa. La sua bocca s'empiva di sarcasmo amaro. «Che pensi tu di quel servo?» ella chiedeva a Brangæne, con un sorriso inquieto. Ella faceva servo un eroe, si dichiarava dominatrice. «Digli che io comando al mio vassallo di temere la sua sovrana: me, Isolda.» Ella gli inviava così la disfida a una suprema lotta; ella gittava così l'appello della forza alla forza. Una cupa solennità accompagnava il passo dell'eroe verso la soglia della tenda, quando era scoccata l'ora irrevocabile, quando il filtro aveva già riempita la coppa e il destino aveva già stretto il suo cerchio intorno alle due vite. Isolda, appoggiata al suo letto, pallida come se la gran febbre avesse consumato tutto il sangue delle sue vene, attendeva in silenzio; in silenzio appariva su la soglia Tristano: entrambi alti di tutta la loro altezza. Ma l'orchestra diceva l'indicibile ansietà dei loro cuori.

Da quel momento ricominciava la turbinosa ascensione. Pareva che di nuovo il Golfo Mistico s'infiammasse come una fornace e lanciasse in alto, sempre più in alto le sue fiamme sonore. «Conforto unico a un lutto eterno, salutare bevanda d'oblìo, senza tema io ti bevo!» E Tristano accostava la coppa alle labbra. «A me la metà! Per te io la bevo!» gridava Isolda strappandogli la coppa dalle mani. Vuota la coppa d'oro cadeva.—Avevano essi entrambi bevuta la morte? Dovevano essi morire?—Attimo di sovrumana agonia. Il filtro di morte non era se non un veleno d'amore che li penetrava d'un fuoco immortale. Entrambi da prima attoniti, immobili, si guardavano cercando ne' loro occhi l'indizio della fine a cui credevano d'essere omai sacri. Ma una vita nuova, incomparabilmente più intensa di quella che avevano vissuta, agitava tutte le loro fibre, palpitava nelle loro tempie e nei loro polsi, gonfiava d'un'immensa onda i loro cuori. «Tristano!» «Isolda!» Si chiamavano a vicenda; erano soli; nulla rimaneva intorno; tutte le apparenze erano scomparse; il passato era abolito; il futuro non era se non una tenebra che non potevano rompere neppure i baleni della repentina ebrezza. Essi vivevano; si chiamavano con una vivente voce; tendevano l'un verso l'altra per una fatalità che nessuna forza omai poteva arrestare. «Tristano!» «Isolda!»

E la melodia di passione si dispiegava, si allargava, si esaltava, palpitava e singhiozzava, gridava e cantava, su la profonda tempesta delle armonie sempre più agitate. Dolorosa e gaudiosa volava irresistibilmente verso i culmini delle estasi sconosciute, verso le cime della suprema voluttà. «Liberato dal mondo, io ti posseggo dunque, o tu che sola riempi l'anima mia, suprema voluttà d'amore!»

«Salute! Salute a Marco! Salute!» gridava la ciurma, tra gli squilli delle trombe, salutando il Re che moveva dalla riva ad incontrare la sposa bionda. «Salute a Cornovaglia!»

Era lo strepito della vita comune, era il clamore della gioia profana, era lo splendore abbagliante del giorno. Chiedeva l'Eletto, chiedeva il Perduto levando lo sguardo ove cupa fluttuava la nube del sogno: «Chi s'appressa?» «Il Re.» «Qual Re?» Chiedeva Isolda, pallida e convulsa sotto il manto regale: «Dove sono? Vivo io ancóra? Debbo io ancóra vivere?» Dolce e terribile il motivo del filtro saliva, li avvolgeva, li serrava nella sua spira ardente. Le trombe squillavano. «Salute a Marco! Salute a Cornovaglia! Gloria al Re!»

Ma nel secondo preludio tutti i singhiozzi di una gioia troppo forte, tutti gli aneliti del desiderio esasperato, tutti i sussulti dell'aspettazione furiosa si alternavano, si mescevano, si confondevano. L'impazienza dell'anima feminile comunicava i suoi fremiti a tutta la notte, a tutte le cose nella pura notte d'estate respiranti, vigilanti. A tutte le cose l'anima ebra gittava i suoi richiami perché rimanessero deste sotto le stelle, perché assistessero alla festa del suo amore, al nuzial convito della sua allegrezza. Insommergibile, fluttuava su l'inquieto oceano armonico la melodia fatale, rischiarandosi, oscurandosi. L'onda del Golfo Mistico, simile al respiro d'un petto sovrumano, si gonfiava, si levava, ricadeva per risollevarsi, per ricadere ancóra, per diminuir pianamente.

«Odi tu? A me sembra che lo strepito sia già dileguato nella lontananza.» Isolda non udiva se non i suoni che le fingeva il suo desiderio. Le fanfare della caccia notturna echeggiavano per la foresta, distinte, da presso. «È l'ingannevole susurro delle frondi che il vento agita ne' suoi giochi... Non è dei corni questo suono così dolce. È il murmure della fonte che pullula, che scorre, nella notte silenziosa...» Ella non udiva se non i lusinghevoli suoni che suscitava nella sua anima il desiderio componendo l'antica e sempre nuova malìa. Come nei sensi dell'illusa, così nell'orchestra le sonorità della caccia si trasformavano, si mutavano per incantesimo, si dissolvevano negli infiniti rumori della foresta, nella misteriosa eloquenza della notte d'estate. Tutte le sommesse voci, tutte le tenui lusinghe avvolgevano l'anelante, le suggerivano la prossima ebrezza; mentre invano Brangæne ammoniva, supplicava, nel terrore del suo presentimento. «Oh lascia che risplenda la fiaccola protettrice! lascia che la sua luce ti mostri il pericolo!» Nulla valeva a rischiarare la cecità del desiderio. «Fosse anche la fiaccola della mia vita, senza paura io la spegnerei! Senza paura io la spengo.» Con un gesto di supremo disdegno, superba e intrepida, Isolda gittava a terra la fiaccola; offriva la sua vita e quella dell'Eletto alla notte fatale; entrava con lui nell'ombra per sempre.

Allora il più inebriante poema della passione umana si svolgeva trionfalmente come in una spira attingendo le sommità dello spasimo e dell'estasi. Era la prima stretta frenetica, mista di gaudio e d'angoscia, in cui le anime avide di confondersi incontravano l'ostacolo impenetrabile dei corpi. Era il primo rammarico verso il tempo in cui non esisteva l'amore, verso il passato vacuo ed inutile. Era l'odio verso la luce ostile, verso il perfido giorno che acuiva ogni pena, che suscitava tutte le fallaci apparenze, che favoriva l'orgoglio ed opprimeva la tenerezza. Era l'inno alla notte amica, all'ombra benefica, al divino mistero ove s'aprivano le meraviglie delle visioni interiori, ove s'udivano le lontane voci dei mondi, ove fiorivano ideali corolle su steli inflessibili. «Da che il sole s'è occultato nel nostro petto, le stelle della felicità diffondono il loro lume ridente.»

E nell'orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le gioie, piangevano tutti i dolori che mai voce umana espresse. Su da le profondità sinfoniche le melodie emergevano, si svolgevano, s'interrompevano, si sovrapponevano, si mescevano, si stempravano, si dileguavano, sparivano per riemergere. Una specie di ansia sempre più irrequieta e tormentosa passava per tutti gli strumenti, significando un continuo e sempre vano sforzo di raggiungere l'inarrivabile. Nell'impeto delle progressioni cromatiche era il folle inseguimento d'un bene che sfuggiva ad ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di tono, di ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza tregua, era una bramosia senza limiti, era il lungo supplizio del desiderio sempre deluso e mai estinto. Un motivo, simbolo dell'eterno desiderio eternamente esasperato dal possesso fallace, tornava ad ogni tratto con una persistenza crudele; si allargava, dominava, ora illuminando le sommità delle onde armoniche, ora oscurandole d'un'ombra tragica.

La tremenda virtù del filtro operava su l'anima e su la carne dei due amanti già consacrati alla morte. Nulla poteva spegnere o lenire quell'ardore fatale: nulla fuor che la morte. Entrambi avevano tentato invano tutte le carezze, avevano raccolto invano tutte le loro forze per congiungersi in un abbraccio supremo, per possedersi ultimamente, per divenire un solo unico essere. I loro sospiri di voluttà si mutavano in singhiozzi d'angoscia. Un ostacolo infrangibile s'interponeva tra l'uno e l'altra, li separava, li rendeva estranei e solitarii. Nella loro sostanza corporea, nella loro persona vivente, era l'ostacolo. E un odio segreto nasceva in entrambi: un bisogno di distruggersi, di annientarsi; un bisogno di far morire e di morire. Nella carezza medesima essi riconoscevano l'impossibilità di trascendere il limite materiale de' loro sensi umani. Le labbra incontravano le labbra e s'arrestavano. «Che mai» diceva Tristano «che mai soccomberebbe alla morte se non quel che ci separa, se non quel che impedisce a Tristano d'amar per sempre Isolda, di vivere in eterno per lei sola?» Ed essi entravano già nell'ombra infinita. Il mondo delle apparenze scompariva. «Così» diceva Tristano «così noi morimmo, non volendo vivere se non per l'amore, inseparati, sempre congiunti, senza fine, senza risveglio, senza tema, senza nome nel seno dell'amore...» Le parole si udivano distinte sul pianissimo dell'orchestra. Una nuova estasi rapiva i due amanti e li sollevava alla soglia del meraviglioso impero notturno. Essi pregustavano già la beatitudine del dissolvimento, si sentivano già liberati dal peso della persona, sentivano già la loro sostanza sublimarsi e fluttuare diffusa in una gioia senza fine. «Senza fine, senza risveglio, senza tema, senza nome...»

«Vigilate! Vigilate! Ecco, la notte cede al giorno» ammoniva Brangæne invisibile, dall'alto. «Vigilate!» E il brivido del gelo mattutino attraversava il parco, risvegliava i fiori. Il freddo lume dell'alba lentamente saliva a coprire le stelle che palpitavano più forte. «Vigilate!»

Invano la fedele ammoniva. Essi non ascoltavano; non volevano, non potevano risvegliarsi. Sotto la minaccia del giorno, si profondavano sempre più in quell'ombra ove non poteva giungere mai bagliore di crepuscolo. «Che in eterno la notte ci avvolga!» E un turbine di armonie li avvolgeva, li serrava nelle sue spire veementi, li trasportava nella remota plaga invocata dal loro desiderio, là dove nessuna angoscia opprimeva l'impeto dell'anima amante, oltre ogni languore, oltre ogni dolore, oltre ogni solitudine, nell'infinita serenità del loro sogno supremo.

«Sàlvati, Tristano!» Era il grido di Kurwenal, che seguiva il grido di Brangæne. Era l'assalto improvviso e brutale che interrompeva l'amplesso estatico. E mentre nell'orchestra persisteva il tema dell'amore, il motivo della caccia scoppiava con un fragore metallico. Il Re e i cortigiani apparivano. Tristano celava col suo ampio mantello Isolda reclinata sul letto dei fiori: la sottraeva agli sguardi e alla luce, affermando in quel gesto il suo dominio, significando il suo diritto non dubbio. «Il triste giorno, per l'ultima volta!» Egli accettava per l'ultima volta, nell'attitudine calma e ferma dell'eroe, il contrasto con le forze estranee: omai sicuro che nulla poteva mutare o arrestare il corso del suo fato. Mentre il sovrano dolore di Re Marco si esalava in una melopea lenta e profonda, egli taceva immoto nel suo pensiero segreto. E infine egli rispondeva alle domande del Re: «Questo mistero io non posso a te svelarlo. Tu non potrai giammai conoscere quel che tu chiedi.» Il motivo del filtro addensava su la risposta l'oscurità del mistero, la gravità dell'evento irreparabile. «Vuoi tu seguire Tristano, o Isolda?» egli chiedeva alla regina, semplicemente, al conspetto di tutti. «Sulla terra ove andare io voglio, non risplende il sole. È la terra della tènebra, è il paese notturno, d'onde mia madre un tempo m'inviò quando, concepito da lei nella morte, io venni nella morte alla luce...» E Isolda: «Là dove è la patria di Tristano, là andar vuole Isolda. Ella vuol seguirlo, dolce e fedele, pel cammino ch'egli le mostrerà...»

E in quella terra la precedeva l'eroe moribondo, ferito dal traditore Melot.

Levavasi intanto dal terzo preludio la visione del lido remoto, delle rocce aride e desolate ne' cui seni occulti il mare piangeva senza tregua come un inconsolabile duolo. Un vapore di leggenda e di poesia misteriosa avviluppava le forme rigide del sasso, che apparivano come in un'alba incerta o in un vespero quasi estinto. E il suono della sampogna pastorale risvegliava le imagini confuse della vita trascorsa, delle cose perdute nella notte dei tempi.

«Che dice l'antico lamento?» sospirava Tristano. «Dove son io?»

Il pastore modulava nella fragile canna la melodia imperitura, trasmessagli dai padri a traverso i tempi; ed era senza inquietudine nella sua profonda inconsapevolezza.

E Tristano, alla cui anima quegli umili suoni avevano tutto rivelato: «Non son rimasto dove mi son desto. Ma dove ho io fatto dimora? Non so dirtelo. Là non ho veduto il sole, né il paese, né gli abitanti; ma quel che ho veduto, io non so dirtelo... Era là dove fui sempre, dove andrò per sempre: nel vasto impero dell'universal notte. Una sola unica scienza laggiù ci è data: il divino, l'eterno, l'originario oblìo!» Il delirio della febbre l'agitava; l'ardore del filtro lo corrodeva nell'intime fibre. «Ah, quel ch'io soffro tu non puoi soffrire! Questo terribile desiderio che mi divora, questo implacabile fuoco che mi consuma... Ah, se io potessi dirtelo, se tu potessi comprendermi!»

E il pastore inconsapevole soffiava, soffiava nella sua canna. L'aria era quella, le note erano sempre le stesse: parlavano della vita che non era più, parlavano delle lontane cose perdute.

«Vecchia e grave melodia» diceva Tristano, «con i tuoi lamentevoli suoni su i vènti della sera tu giungevi inquieta sino a me quando nel tempo remoto fu annunziata al fanciullo la morte del padre. Nell'alba cinerea, sempre più inquieta tu mi cercavi quando il figlio apprese la sorte della madre. Quando mio padre mi generò e morì, quando mia madre mi diede alla luce spirando, la vecchia melodia pur giungeva ai loro orecchi languida e triste. M'interrogò essa un giorno ed ecco m'interroga ancóra. Per qual destino io nacqui? Per qual destino? La vecchia melodia me lo ripete ancóra:—Per desiderare e morire! Per morire di desiderio!—Ah, no, no! Non questo è il tuo senso... Desiderare, desiderare, desiderare, fin nella morte; non di desiderio morire!...» Sempre più possente, sempre più tenace lo corrodeva il filtro nelle midolle. Tutto il suo essere si torceva nello spasimo insostenibile. L'orchestra crepitava a tratti come un rogo. Talvolta la violenza del dolore l'attraversava tutta con l'impeto d'una bufera, avvivando le fiamme. Sussulti subitanei la scotevano; grida atroci n'erompevano; singhiozzi soffocati vi si spegnevano. «Il filtro! Il filtro! Il terribile filtro! Con qual furia io lo sentii dal cuore al cervello salire! Nessun rimedio ora, nessuna dolce morte può liberarmi dalla tortura del desiderio. In nessun luogo, in nessun luogo, ahimè! troverò riposo. La notte mi respinge al giorno; e l'occhio del sole si pasce del mio perpetuo soffrire. Ah come il sole rovente mi brucia e mi consuma! E non il refrigerio d'un'ombra, mai, a questa divorante arsura! Quale balsamo potrebbe dare un sollievo all'orrendo mio strazio?» Egli portava nelle sue vene e nelle sue midolle il desiderio di tutti gli uomini, di tutta la specie, ammassato di generazione in generazione, aggravato dalle colpe di tutti i padri e di tutti i figli, dalle ebrezze di tutti, dalle angosce di tutti. Rifiorivano nel suo sangue i germi della concupiscenza secolare, si rimescolavano le più diverse impurità, ribollivano i più sottili e i più violenti veleni che fin nel tempo immemorabile purpuree bocche sinuose di femmine avevano infuso nei cùpidi maschi soggiogati. Egli era l'erede dell'eterno male. «Questo terribile filtro, che mi danna al supplizio, io, io medesimo lo composi! Con le agitazioni di mio padre, con gli spasimi di mia madre, con tutte le lagrime d'amore in altri tempi versate, col riso e col pianto, con le voluttà e con le ferite, io, io medesimo composi il tossico di questo filtro. E io lo bevvi, a lunghi sorsi di delizia... Maledetto sii tu, filtro terribile! Maledetto sia chi ti compose!» Ed egli ricadeva sul suo giaciglio, estenuato, esanime, per riprendere ancóra gli spiriti, per sentire ancóra ardere la sua piaga, per vedere ancóra con i suoi occhi allucinati l'imagine sovrana in atto di trascorrere i campi del mare. «Ella viene, ella viene su alti flutti d'inebrianti fiori mollemente cullata, verso la terra. Una divina consolazione ella su me versa col suo sorriso; il supremo refrigerio ella mi reca...» Così egli evocava, così egli vedeva, con quegli occhi omai chiusi alla comune luce, la Maga, la maestra dei balsami, la medicatrice d'ogni ferita. «Ella viene, ella viene! Non la vedi tu, Kurwenal, non la vedi tu ancóra?» E le onde commosse del Golfo Mistico risollevavano dal fondo confusamente tutte le melodie già note, le rimescolavano, le trascinavano, le sommergevano in un gorgo, le respingevano di nuovo alla superficie, le infrangevano: quelle che avevano espresso le ansietà del decisivo conflitto sul ponte della nave; quelle in cui erasi udito il gorgoglio del beveraggio versato nella coppa d'oro e il rombo delle arterie invase dal liquido fuoco; quelle in cui erasi udito il misterioso respiro della notte d'estate persuadente a voluttà senza fine; tutte le melodie con tutte le imagini, con tutte le ricordanze. E su quell'immenso naufragio alta, sovrana, implacabile la melodia fatale passava a intervalli ripetendo la condanna atroce:—Desiderare, desiderare, desiderare fin nella morte; non di desiderio morire!

«Il naviglio getta l'àncora! Isolda, ecco Isolda! Ella si slancia alla riva!» gridava Kurwenal dall'alto della torre. E nel delirio della gioia Tristano lacerava le bende della sua ferita, incitava il suo proprio sangue a scorrere in fiotti, a inondare la terra, a invermigliare il mondo. All'approssimarsi d'Isolda e della Morte, egli credeva udire la luce. «Non odo io la luce? Non odono i miei orecchi la luce?» Un gran sole interiore lo abbagliava; da tutti gli atomi della sua sostanza partivano raggi di sole e per onde luminose e armoniose si diffondevano nell'universo. La luce era musica; la musica era luce.

E veramente allora il Golfo Mistico s'irradiava come un cielo. Le sonorità dell'orchestra parevano imitare quelle lontane armonie planetarie che un tempo anime di contemplatori vigilanti credettero cogliere nel silenzio notturno. A poco a poco i lunghi fremiti dell'inquietudine, i lunghi sussulti dell'angoscia, e gli aneliti del vano inseguire, e gli sforzi del desiderio sempre deluso, e tutte le agitazioni della miseria terrena si placavano, si disperdevano. Tristano aveva alfine varcato il limite del «meraviglioso impero», era entrato alfine nell'eterna notte. E Isolda, prona su la spoglia inerte, sentiva alfine lentamente dissolversi il peso che ancor l'opprimeva. La melodia fatale, divenuta più chiara e più solenne, consacrava il gran coniugio funerario. Poi, come fili eterei le note attenuandosi tessevano intorno all'amante creatura diafani veli di purità. Cominciava così una specie di assunzione gaudiosa per gradi di splendore su l'ala di un inno. «Di che soave sorriso egli sorride! Non lo vedete? Come di sideral luce risplende! Non lo vedete voi? Non lo sentite? Sola io dunque odo questa nuova melodia, infinitamente dolce e consolante, che sgorga dal profondo dell'esser suo e mi rapisce e mi penetra e mi avvolge?» La Maga d'Irlanda, la formidabile signora dei filtri, l'arbitra ereditaria delle oscure potenze terrestri, colei che dall'alto del naviglio aveva invocato i turbini e le procelle, colei che aveva eletto al suo amore il più forte e il più nobile degli eroi per attossicarlo e perderlo, colei che aveva precluso il cammino della gloria e della vittoria a un «dominatore del mondo», l'avvelenatrice, l'omicida, si trasfigurava per la virtù della morte in un essere di luce e di gioia, scevro d'ogni impura brama, libero d'ogni basso vincolo, palpitante e respirante in grembo alla diffusa anima dell'Universo. «Questi più chiari suoni che mormorano al mio orecchio son forse le molli onde dell'aria? Debbo io respirare, bevere, immergermi, naufragare dolcemente nei vapori, nei profumi?» Tutto si dissolveva in lei, si fondeva, si distendeva, ritornava alla fluidità originale, all'innumerevole oceano elementare da cui le forme nascevano, in cui le forme sparivano per rinnovellarsi, per rinascere. Nel Golfo Mistico le trasformazioni e le trasfigurazioni si compivano di nota in nota, d'armonia in armonia, continuamente. Pareva che tutte le cose vi si decomponessero, vi esalassero le nascoste essenze, vi si mutassero in immateriali simboli. Colori non mai apparsi nei petali dei più delicati fiori terrestri, profumi di quasi impercettibile tenuità vi fluttuavano. Visioni di segreti paradisi vi balenavano, germi di nascituri mondi vi si schiudevano. E l'ebrezza pànica saliva saliva; il coro del Gran Tutto copriva l'unica voce umana. Trasfigurata, Isolda entrava nel meraviglioso impero trionfalmente. «Nell'infinito palpito dell'anima universa perdersi, profondarsi, vanire, senza conscienza: suprema voluttà!»

II

Così, per interi giorni, i due eremiti vissero nella grande finzione, respirarono quell'atmosfera infiammata, si saturarono di quell'oblìo letale. Essi medesimi credettero di trasfigurarsi, di attingere un superior cerchio d'esistenza; credettero di eguagliare le persone del dramma nelle altitudini vertiginose del sogno d'amore.—Non pareva che avessero anch'essi bevuto un filtro? Non erano anch'essi tormentati da un desiderio senza termine? Non erano anch'essi avvinti da un legame indissolubile e non provavano talvolta nella voluttà gli spasimi dell'agonia, non udivano il rombo della morte?—Giorgio, come Tristano nell'udire l'antica melodia modulata dal pastore, trovava in quella musica la rivelazione diretta di un'angoscia nella quale credeva di sorprendere alfine l'essenza vera della sua propria anima e il segreto tragico del suo fato. Nessun altro uomo poteva meglio di lui penetrare il simbolico e mitico senso del Filtro; e nessun altro uomo poteva meglio di lui misurare la profondità del dramma tutto interiore—unicamente interiore—in cui il pensoso eroe aveva consunto le sue forze. E nessuno, anche, poteva meglio comprendere il disperato grido della vittima: «Questo terribile filtro, che mi danna al supplizio, io, io medesimo lo composi!...»

Cominciò allora la sua funebre seduzione verso l'amante. Egli voleva lentamente persuaderla a morire; voleva trarla seco a una fine misteriosa e dolce, in quella pura estate dell'Adriatico piena di trasparenze e di profumi. La grande frase d'amore—che si dispiegava con sì largo cerchio di luce intorno alla trasfigurazione d'Isolda—aveva chiuso nel suo fascino Ippolita. Ella ad ogni tratto la ripeteva col canto sommesso e talvolta anche a voce aperta, mostrandosi come inondata di giubilo.

—Non vorresti tu morire della morte d'Isolda?—le chiese Giorgio sorridendo.

—Vorrei—ella rispose.—Ma su la terra non si muore così.

—E se io morissi?—egli soggiunse pur sempre sorridendo.—Se tu mi vedessi morto, in realtà, non in sogno?

—Credo che morrei, ma disperata.

—E se io ti proponessi di morire con me, in uno stesso modo, nello stesso tempo?

Ella rimase per qualche attimo in pensiero, con gli occhi bassi. Poi, sollevando verso il tentatore uno sguardo carico di tutta la dolcezza della vita, disse:

—Perché morire se io ti amo, se tu mi ami, se nulla omai c'impedisce di vivere in noi soli?

—Ti piace la vita!—egli mormorò con un'amarezza velata.

—Sì, mi piace la vita,—ella affermò, quasi con veemenza,—perché tu mi piaci.

—E se io morissi?—egli ripeté senza sorridere, sentendo ancóra una volta sorgere dal fondo l'ostilità istintiva contro la bella creatura lussuriosa che respirava l'aria come una gioia.

—Tu non morrai—ella affermò, con lo stesso ardimento.—Sei giovine. Perché dovresti morire?

Ella aveva nella voce, nell'attitudine, in tutta la persona diffuso un benessere insolito. Aveva l'aspetto che le creature viventi hanno soltanto nelle ore in cui la loro vita scorre armoniosa per un equilibrio temporaneo di tutte le forze in accordo con le condizioni esterne favorevoli. Come altre volte, ella sembrava dischiudersi nella bontà dell'aria marina, nel refrigerio della sera estiva, dando imagine d'uno di quei magnifici fiori crepuscolari che aprono le corone dei petali all'occaso del sole.

Le chiese Giorgio, dopo una lunga pausa in cui si udì il rumore del mare su le ghiaie simile a uno stormire di frondi aride:

—Credi tu al Destino?

—Credo.

Non disposta alla gravità triste a cui parevano tendere le parole di Giorgio, ella rispose con un leggero tono di burla. Ferito, egli sùbito soggiunse con asprezza:

—Sai tu che giorno sia oggi?

Perplessa, inquieta, ella interrogò:

—Che giorno?

Egli esitò. Fino a quell'ora aveva evitato di ricordare all'immemore l'anniversario della morte di Demetrio, essendosi fatta in lui sempre più fiera la ripugnanza a proferire il puro nome, a evocare l'alta imagine fuor del penetrale. Sentiva ch'egli avrebbe profanato il suo dolor religioso ammettendo Ippolita a parteciparne. E più acuto diveniva in lui questo sentimento ora che, per uno de' consueti intervalli di lucidità crudele, rivedeva in lei la donna di delizia, il «fiore di concupiscenza», la Nemica. Si contenne. Ed esclamò, con un falso riso repentino:

—Guarda! È festa a Ortona,—indicando nella lontananza glauca la città maritima che si coronava di luminarie.

—Come sei strano, oggi!—disse Ippolita.

Poi, fissandolo con quell'espressione singolare ch'ella soleva prendere quando voleva lenirlo, addolcirlo, soggiunse:

—Vieni qui, vieni a sederti qui accanto a me...

Egli era in piedi su la soglia d'una delle porte aperte contro la loggia, nell'ombra. Ella era seduta fuori, sul parapetto, vestita d'un leggero abito bianco, in una posa di mollezza, sorgendo di tutto il busto su lo sfondo del mare ove ancor s'indugiavano i chiarori del crepuscolo; e il profilo della sua testa bruna si disegnava in una zona di limpido elettro. Ella pareva ricrearsi come se fosse allora allora uscita da un luogo chiuso e soffocante, da un'atmosfera carica di esalazioni venefiche. Agli occhi di Giorgio ella pareva svaporare come una fiala di profumo: lasciar disperdere l'ideal vita accumulata in lei dalle potenze della Musica; vuotarsi a poco a poco dei sogni importuni; ridursi alla primitiva animalità.

«Come sempre,» Giorgio pensava «come sempre, ella non ha fatto se non ricevere e mantenere docilmente le attitudini che io le ho dato. La vita interiore è stata sempre ed è sempre in lei fittizia. Interrotta la mia suggestione, ella ritorna alla sua natura, ella ridiviene una femmina, uno strumento di bassa lascivia. Nulla potrà mutare la sua sostanza, nulla potrà purificarla. Ella ha il sangue plebeo, e nel sangue chi sa quali eredità ignobili! Ma io anche non potrò mai sottrarmi al desiderio ch'ella ha acceso in me. Non potrò mai estirparla dalla mia carne. E da ora in poi non potrò vivere né con lei né senza di lei. So che debbo morire. Ma la lascerò io a un successore?» L'odio contro la creatura inconsapevole non gli si era mai sollevato con tanto impeto. Egli la mordeva senza pietà, con una acredine di cui egli medesimo si stupiva. Si vendicava come d'un inganno, come d'una delusione che superasse ogni limite di perfidia. Provava l'invido rancore del naufrago che nell'affondare scorga da presso il compagno sul punto di salvarsi, d'aggrapparsi alla vita. Per lui quell'anniversario veniva a riconfermare una sentenza ch'egli sapeva già inesorabile. Era quel giorno per lui l'Epifania della Morte. Ed egli sentiva di non essere più padrone di sé; si sentiva interamente posseduto dall'idea fissa che da un istante all'altro poteva suggerirgli l'atto estremo comunicando nel tempo medesimo alla volontà l'impulso efficace. «Debbo io morire solo?» ripeteva a sé stesso, mentre confuse imagini criminose gli balenavano nel cervello: «Debbo io morire solo?»

Trasalì quando Ippolita gli toccò il viso e poi gli cinse con le braccia il collo.

—T'ho fatto paura?—ella gli chiese.

Vedendolo scomparire nell'ombra che a grado a grado più fosca occupava il vano della porta, ella aveva obedito a una strana inquietudine quando s'era levata per abbracciarlo.

—Che pensavi? Che hai? Perché sei così, oggi?

Ella gli parlava con una voce insinuante e, tenendolo ancóra avvinto con un braccio, gli accarezzava la tempia. Ed egli nell'oscurità vedeva biancheggiare misteriosamente il volto di lei, rilucere gli occhi. Un tremito infrenabile lo invase.

—Tu tremi! Che hai? Che hai?

Ella si distaccò da lui, cercò sul tavolo una candela, l'accese. Gli si riavvicinò sbigottita; gli prese le mani.

—Ti senti male?

—Sì—egli balbettò.—Non mi sento bene oggi. È una delle mie cattive giornate...

Non era la prima volta ch'ella l'udiva lamentarsi di vaghe sofferenze fisiche, di dolorazioni sorde ed erranti, di stirature e di formicolii fastidiosi, di vertigini e d'incubi. Ella considerava quelle sofferenze come imaginarie, come effetti della malinconia abituale, dell'eccesso di pensiero. E non conosceva rimedio migliore delle carezze, delle risa, dei giochi.

—Che ti senti?

—Non saprei dirtelo...

—Ah, io so la causa del tuo male... La musica ti èccita troppo. Bisognerà non farne più, per una settimana.

—Non ne faremo più.

—Assolutamente.

Ed ella andò verso il pianoforte, abbassò il coperchio su la tastiera, lo serrò; e nascose la piccola chiave.

—Domani riprenderemo le nostre grandi passeggiate, e resteremo tutta la mattina su la spiaggia. Vuoi? Ora vieni su la loggia.

Ed ella lo trasse con un atto blando.

—Guarda che bella sera! Come odorano gli scogli!

Aspirò la fragranza salmastra, con un fremito, stringendosi a lui.

—Abbiamo tutto, qui, per esser felici; e tu... Come rimpiangerai questo tempo, quando sarà passato! I giorni passano. Sono quasi tre mesi che noi viviamo qui.

—Pensi già, forse, a lasciarmi?—egli le domandò, inquieto, sospettando.

—No, no, non per ora—ella rispose rassicurandolo.—Ma incomincia a diventare difficile per me, verso mia madre, il prolungamento dell'assenza. Anche oggi ho ricevuta una lettera di richiamo. Tu sai: ella ha bisogno di me. Se manco io nella casa, tutto va a rovescio...

—Tu devi dunque tornare a Roma, quanto prima.

—No. Io saprò trovare ancóra qualche pretesto. Tu sai che, per mia madre, io sono qui in compagnia d'un'amica. Mia sorella mi ha aiutata e mi aiuta a rendere verosimile la finzione, tanto più che mia madre sa che io ho bisogno dei bagni di mare e che l'anno scorso soffersi perché non ne feci... Ti ricordi? Passai l'estate a Caronno, da mia sorella: quell'orribile estate!

—Ebbene?

—Certamente io potrò rimanere con te tutto questo mese d'agosto e forse anche la prima settimana di settembre...

—E poi?

—E poi tu mi lascerai tornare a Roma e verrai a raggiungermi. E penseremo per l'avvenire. Io ho già qualche cosa in mente...

—Che cosa?

—Ti dirò. Ma è ora di pranzo. Non hai appetito tu?

Il pranzo era pronto. Secondo il solito, la tavola fu apparecchiata all'aperto, su la loggia. La grande lampada fu accesa.

—Vedi?—ella esclamò, mentre la domestica posava su la mensa il vaso della minestra fumante.—Questa è opera di Candia.

Ella aveva voluto che Candia le apprestasse una zuppa rustica, all'uso del paese: una mescolanza saporosa, ricca di zenzero, colorita e odorante. Ella l'aveva già gustata qualche volta, attratta dall'odore nella casa dei vecchi. N'era divenuta ghiotta.

—Sentirai che delizia!

Se ne versò una scodella colma, con un atto di golosità infantile; e ne ingoiò le prime cucchiaiate rapidamente.

—Non ho mai mangiato nulla di più buono. Ella chiamò ad alta voce Candia per lodarla.

—Candia! Candia!

La donna si fece a piè della scala ridendo.

—Ti piace, signora?

—Quanto mi piace!

—Ti si converta in buon sangue!

E le risa schiette della pregnante salirono nell'aria dolce.

Giorgio mostrava di prender parte a quella gaiezza. Era palese il mutamento subitaneo del suo umore. Egli si versò del vino e lo bevve d'un fiato. Si sforzò di vincere le sue ripugnanze al cibo; quelle ripugnanze divenute nell'ultimo tempo così gravi che gli rendevano talvolta insoffribile perfino la vista della carne rossa.

—Ti senti meglio; è vero?—gli domandò Ippolita, chinandosi verso di lui, movendo anche un poco la sedia per stargli da presso.

—Sì; mi sento bene, ora.

Ed egli bevve di nuovo.

—Guarda—ella esclamò—guarda Ortona in festa!

E ambedue guardarono la città lontana incoronata di luminarie su la collina protesa nel mare buio. Simili a costellazioni di fuoco si levavano lentamente nell'aria calma gruppi di aeròstati e parevano di continuo moltiplicarsi, popolavano tutta quella plaga del cielo.

—Mia sorella Cristina—disse egli—è a Ortona in questi giorni, dai suoi parenti Vallereggia.

—Ti ha scritto?

—Sì.

—Come sarei felice di vederla! Ti somiglia; è vero? Cristina è la tua prediletta.

Ella restò per qualche attimo pensierosa.

—Come sarei felice di vedere tua madre!—soggiunse.—Quante volte ho pensato a lei!

E, dopo un'altra pausa, con una voce tenera:

—Chi sa come ti adora!

Una commozione improvvisa gonfiò il cuore di Giorgio; e dentro gli risorse la visione della casa da lui abbandonata, obliata; e tutte le passate tristezze gli ritornarono per un attimo nello spirito, e tutte le dolenti imagini:—il volto estenuato della madre, la palpebre di lei gonfie rosse arse dalle lacrime, il sorriso dolce e straziante di Cristina, il bimbo malaticcio dalla grossa testa sempre china sul petto quasi esanime, la maschera cadaverica della povera mentecatta ingorda. E gli occhi stanchi della madre chiedevano di nuovo, come nell'ora del commiato: «Per chi mi abbandoni?»

L'anima di nuovo gli si protese verso la casa lontana, inchinandosi a un tratto come l'albero investito dalla ràffica. E la risoluzione segreta—ch'egli aveva fatta nell'oscurità della stanza tra le braccia d'Ippolita—vacillò scossa da un avvertimento oscuro quando egli rivide nella memoria la chiusa porta dietro a cui era il letto di Demetrio, quando rivide la cappella mortuaria all'angolo del cimitero custodito dall'azzurra e solenne ombra della Montagna.

Ma Ippolita parlava, diveniva loquace: si abbandonava, come altre volte, incautamente ai suoi ricordi domestici. Ed egli si mise ad ascoltarla, come altre volte, notando con sofferenza certe linee volgari che prendeva la bocca di lei nell'abondanza e nel calore dell'eloquio; come altre volte notando un particolar gesto ch'ella soleva fare nell'accalorarsi e che pareva non appartenerle tanto era sgraziato.

—Tu la vedesti un giorno mia madre per la via. Te ne ricordi?—ella diceva.—Che differenza tra mia madre e mio padre! Mio padre è stato sempre buono, dolce verso di noi, incapace di batterci, di rimproverarci con durezza. Mia madre è violenta, impetuosa, quasi crudele. Ah, se ti raccontassi il martirio di mia sorella, della povera Adriana! Si ribellava sempre; e la ribellione esasperava mia madre, che la batteva a sangue. Io invece sapevo disarmarla, riconoscendo il mio fallo, chiedendole perdono. Eppure, con tutta la sua durezza, ella aveva per noi un amore immenso... Nella nostra casa c'era una finestra che rispondeva su una cisterna. Noi, per gioco, avevamo l'abitudine di metterci là con un secchietto a tirar l'acqua. Un giorno mia madre uscì, e per caso noi restammo sole. Dopo alcuni minuti, sbigottite la vedemmo tornar su piangente, convulsa, disfatta. Mi prese tra le sue braccia e mi coprì di baci furiosi, come folle, singhiozzando. Ella, nella strada, aveva avuto il presentimento ch'io fossi precipitata da quella finestra!

Giorgio rivide nella memoria quel volto di vecchia isterica, in cui tutti i difetti del volto filiale apparivano esagerati: lo sviluppo della mandibola inferiore, la lunghezza del mento, la larghezza delle narici. Rivide quella fronte di Furia, su cui si rialzavano i capelli grigi aridi e spessi; quegli occhi incavati sotto l'arco dei sopraccigli, oscuri, che rivelavano l'ardore fanatico della chiesastra e l'avarizia tenace della piccola borghese di Trastevere.

—Vedi questa cicatrice che ho sotto il mento?—continuava Ippolita.—Anche questa l'ho per mia madre. Andavamo a scuola, io e mia sorella; e per la scuola avevamo certi vestiti assai graziosi che, tornate a casa, dovevamo toglierci. Un giorno, tornando, io trovai sul tavolo uno scaldino e lo presi per riscaldarmi le mani gelate. Mia madre mi disse: «Va a svestirti!» Io risposi: «Ora vado»; e seguitai a riscaldarmi. Ella ripeté: «Va a svestirti!» E io: «Ora vado.» Ella aveva tra le mani una grossa spazzola e spazzolava un abito. Io m'indugiavo in mezzo alla stanza, con lo scaldino. Il vestito mi stava bene. Per la terza volta ella ripeté: «Va a svestirti!» E io: «Ora vado.» Infuriata, mi scagliò la spazzola che colse lo scaldino e lo ruppe. Un frammento del manico mi ferì qui, sotto il mento; mi tagliò una vena. Il sangue correva. La zia sùbito mi venne in aiuto; ma mia madre non si mosse, neppure mi guardò. Il sangue correva. Per fortuna si trovò sùbito un chirurgo che mi allacciò la vena. Mia madre restò sempre in silenzio. Quando tornò mio padre, vedendomi fasciata mi chiese che avessi. Mia madre mi fissò, senza parlare. Io risposi: «Son caduta per le scale.» Mia madre tacque. Soffersi molto, poi, per la perdita del sangue... Ma Adriana quanto è stata battuta! Specialmente per Giulio, per mio cognato. Non dimenticherò mai una scena terribile...

Ella s'interruppe, sorprendendo forse nel volto di Giorgio qualche dubbio segno.

—Ti annoio, è vero?, con tutte queste ciance.

—No, no. Séguita: ti prego! Non vedi che ti ascolto?

—Noi abitavamo allora a Ripetta, in una casa di certi Angelini, con cui stringemmo amicizia intima. Nel piano di sotto abitava Luigi Sergi, il fratello di mio cognato Giulio, con la moglie Eugenia. Luigi era un uomo dotto, studioso, modesto; Eugenia era una donna della peggiore specie. Benché il marito guadagnasse molto, ella lo costringeva sempre a indebitarsi. E non si sapeva in che modo ella spendesse tutto quel denaro. Veramente, i maligni susurravano che con quel denaro ella pagasse i suoi amanti... Era bruttissima; e la sua bruttezza accreditava quella voce infame. Mia sorella, non so come, s'era legata con costei; e andava giù spessissimo, col pretesto di farsi ripetere la lezione di francese da Luigi. La mamma n'era scontenta, messa in sospetto dalle Angelini vecchie zitelle che fingevano di aver amicizia per i Sergi ma in realtà li detestavano come buzzurri e ne sparlavano volentieri. «Lasciare che Adriana frequentasse la casa di una donna perduta!» Le severità aumentarono. Ma Eugenia intanto favoriva l'amore di Giulio con Adriana. Giulio veniva spesso a Roma da Milano, per affari. E un giorno appunto, in cui egli doveva arrivare, mia sorella aveva una gran fretta di scender giù. La mamma le proibì di muoversi. Mia sorella insisteva. Nel contrasto, la mamma alzò le mani. Si accapigliarono. E mia sorella giunse a morderle un braccio, e si diede a fuggire giù per le scale. Ma, mentre bussava all'uscio dei Sergi, la mamma le fu sopra; e là, nel pianerottolo, accadde una scena di violenze che non dimenticherò mai. Adriana fu riportata a casa, quasi morta. Si ammalò, ebbe le convulsioni. La mamma, pentita, la circondò di cure; fu dolce come non era mai stata... Pochi giorni dopo, non ancóra guarita interamente, Adriana fuggì con Giulio... Questo te l'ho già raccontato, mi pare.

Ed ella, che s'era obliata nella sua loquacità ingenua, ignorando l'effetto prodotto da quei ricordi volgari su l'amante, riprese il pranzo interrotto.

Soggiunse, dopo un intervallo di silenzio, sorridendo:

—Vedi che donna terribile è mia madre! Tu non sai, tu non potrai mai sapere che martirio ella mi abbia dato quando scoppiò la lotta con... lui. Dio mio, che giorni!

Ella rimase per qualche istante pensierosa.

Giorgio fissava su l'incauta uno sguardo carico di odio e di gelosia, soffrendo in quel minuto tutte le sue sofferenze di due anni. Con quei frammenti dall'incauta fornitigli, ne ricostruiva la vita anteriore attribuendole le più meschine volgarità, abbassandola ai più disonoranti contatti.—Se il matrimonio della sorella aveva avuto per auspice una ninfomane, in quali condizioni, per quali circostanze s'era concluso quello di lei, d'Ippolita? Tra qual gente aveva ella trascorso la sua prima giovinezza? Per quali intrichi era ella caduta nelle mani dell'uomo odioso di cui portava tuttora il nome?—E si raffigurò la vita occulta di certe piccole case borghesi della vecchia Roma emananti insieme un lezzo di cucina e un tanfo di sagrestia, fermentanti di corruttela familiare e clericale. La profezia di Alfonso Exili gli tornò alla memoria: «Sai chi sarà forse il tuo successore? Quel Monti, quel mercante di campagna... Ha molti quattrini.» Gli parve probabile che Ippolita finisse così, in un amore remunerativo; non senza il tacito consenso dei suoi, allettati a poco a poco da un'esistenza più facile, tolti alle strettezze domestiche, resi a un benessere anche più largo di quello che un tempo veniva a loro dal legittimo stato matrimoniale della figliuola. «Non potrei io stesso fare una simile offerta, proporre francamente a Ippolita questa posizione? Ella diceva, dianzi, d'aver qualche cosa in mente, per l'inverno, per l'avvenire. Non potremmo dunque accomodarci? Son sicuro che, considerata la serietà dell'offerta, considerata la stabilità della posizione, la vecchia feroce non mostrerebbe troppa riluttanza ad accettarmi come sostitutore del genero fuggiasco. Forse anche finiremmo col passare intorno a una stessa pentola il resto di nostra vita...» Il sarcasmo gli torceva il cuore con una insostenibile sevizia. Convulso, egli si versò ancóra del vino e bevve.

—Perché bevi tanto, stasera?—gli chiese Ippolita guardandolo negli occhi.

—Ho sete. E tu non bevi?

Il bicchiere d'Ippolita era vuoto.

—Bevi!—incitò Giorgio facendo l'atto di versarle il vino.

—No—ella disse.—Preferisco l'acqua, come al solito. Nessun vino mi piace, tranne lo Champagne... Ti ricordi, ad Albano? Ricordi la smorfia di quel buon Pancrazio quando il sughero non saltava e bisognava ricorrere al cavaturaccioli?

—Ci dev'esser rimasta qualche bottiglia, giù, nella cassa. Vado a cercarla.

E Giorgio si levò vivacemente.

—No, no; stasera, no.

Ella voleva trattenerlo. Ma, com'egli si moveva per discendere, disse:

—Vengo anch'io.

E gaia e leggera discese con lui in una delle stanze terrene trasformata in dispensa.

Candia accorse con un lume. Cercarono in fondo alla cassa e trovarono due bottiglie dal collo d'argento, le ultime.

—Eccole!—esclamò Ippolita, già invasa da un'eccitazione sensuale.—Eccole! Ancóra due!

Ed ella le sollevò verso il lume brillanti.

—Andiamo!

Come usciva di corsa ridendo, ella urtò nel ventre di Candia. Si soffermò a guardare l'enorme ingombro.

—Sii benedetta!—disse.—Tu partorirai un colosso. Quando?

—Eh, signora, di momento in momento,—rispose Candia—forse anche stanotte...

—Stanotte?

—Mi sento già qualche doglia...

—Chiamami. Io voglio assisterti.

—Perché vuoi prenderti pena? C'è mamma che ne ha fatti ventidue...

E la nuora della Cibele settuagenaria segnò il numero vibrando quattro volte la mano con le cinque dita aperte e fermandola in ultimo per l'indice e il pollice forcuta.

—Ventidue!—ripeté, mentre i denti sani le brillavano nel sorriso.

Abbassando gli occhi al grembo d'Ippolita, soggiunse:

—E tu, che aspetti?

Ippolita fuggì di corsa, risalì la scala, posò le bottiglie su la tavola; rimase per qualche attimo come smarrita, un poco ansante. Poi scosse il capo.

—Guarda Ortona!

Tese la mano verso la città in festa, da cui pareva giungere sino a lei un'aura d'allegrezza. Un bagliore rossastro si diffondeva sul culmine della collina come su un cratère; e da quel bagliore continuavano a sorgere aeròstati innumerevoli su pel cupo azzurro disponendosi in vasti cerchi e dando imagine d'un immenso duomo luminoso a specchio del mare.

—Apriamo anche una scatola di lukumi—essa disse, mentre Giorgio era intento a togliere da una delle bottiglie la capsula metallica.

Su la mensa ricca di fiori, di frutti e di confetture turbinavano le farfalle notturne. La spuma del fervido vino spruzzò la tovaglia.

—Alla nostra felicità!—ella augurò tendendo la coppa verso l'amante.

—Alla nostra pace!—augurò egli tendendo la sua.

I cristalli si urtarono così forte che l'uno e l'altro si ruppero; e il chiaro vino si rovesciò su la mensa, bagnò il cumulo delle belle pèsche succulente.

—Buon augurio! Buon augurio!—gridava Ippolita esilarata da quell'aspersione più che da un lungo sorso.

Ed ella mise la mano su le pèsche umide che le stavano d'innanzi. Erano magnifiche, tutte vermiglie da una sola banda come se le avesse invermigliate l'ultima aurora vedendole mature pendere dal ramo. La strana rugiada pareva avvivarle.

—Che meraviglia!—ella disse prendendo la più pomposa.

E, senza toglierle la buccia, golosamente la morse. Il succo le colò dagli angoli della bocca giallo come un miele liquido.

—Mordi tu, ora!

Ed ella offerse all'amato il frutto stillante, col medesimo gesto con cui gli aveva offerto l'avanzo del pane sotto la quercia nel crepuscolo del giorno primo.

Si risvegliò in lui quel ricordo. Ed egli provò il bisogno di comunicarlo.

—Ti rammenti—disse—ti rammenti del primo giorno quando mordesti il pane allora allora escito dal forno e me l'offristi tiepido e umido? Ti rammenti? Come mi parve buono!

—Tutto rammento. Potrei dimenticare anche la minima particolarità di quel giorno?

Ella rivide nella memoria il sentiero giuncato di ginestre, il fresco e gentile omaggio diffuso sul suo cammino. Restò per qualche istante muta in quella visione di poesia.

—Le ginestre!—mormorò con un sorriso d'impreveduto rammarico.

Poi soggiunse:

—Ti rammenti? Tutta la collina era un ammanto giallo e il profumo dava le vertigini.

Soggiunse, dopo una pausa:

—Che strana pianta! Ora, a vedere un cespuglio ispido chi potrebbe imaginare quella festa?

Da per tutto, sul loro cammino, essi incontravano quei cespugli che in cima alle lunghe vermène acute portavano baccelli nerastri coperti d'una peluria bianchiccia; e ciascun baccello conteneva semi ed era abitato da un verme verdognolo.

—Bevi!—invitò Giorgio versando nelle nuove coppe il vino brillante.

—Alla futura primavera d'amore!—augurò Ippolita, e bevve sino all'ultima stilla.

Sùbito Giorgio riempì la coppa vuota.

Ella mise le dita nella scatola dei lukumi, chiedendo:

—Vuoi l'ambra o la rosa?

Erano le confetture orientali inviate da Adolfo Astorgi, composte d'una specie di pasta elastica dal color d'ambra o dal color di rosa sparse di pistacchi, così profumate che davano alla bocca l'illusione d'un fiore polputo e ricco di miele.

—Chi sa dov'è ora il Don Juan!—disse Giorgio ricevendo il dolce dalle dita d'Ippolita bianche di zucchero.

E gli passava nello spirito la nostalgia delle lontane isole odorate di mastica, che forse in quell'ora mandavano tutta la lor delizia notturna sul vento a gonfiare la grande vela.

Sentì Ippolita nelle parole di lui il rammarico.

—Vorresti esser là, a bordo, col tuo amico piuttosto che qui solo con me?—gli chiese.

—Né qui, né là. Altrove!—egli rispose sorridendo, con un'aria di gioco.

E si sollevò per protendere le labbra verso l'amante.

Ella lo baciò profondamente con tutta la bocca gommosa e zuccherina, non avendo ancóra inghiottito il dolce—mentre le farfalle intorno turbinavano.

—Non bevi?—egli le disse, dopo il bacio, con la voce un poco alterata.

Ella senza indugio vuotò la coppa.

—E quasi tiepido—fece, dopo aver bevuto.—Ricordi il frappé del Danieli, a Venezia? Ah, come mi piace quando scende lento lento a fiocchi!

Nel parlare delle cose che le piacevano, delle blandizie che prediligeva, ella aveva singolari morbidezze di voce e atti delle labbra nel modular le sillabe espressivi d'una sensualità profonda. E in ciascuna di quelle parole e in ciascuno di quegli atti Giorgio trovava una cagione di sofferenza acutissima. Quella sensualità, ch'egli medesimo aveva risvegliata in lei, ora gli sembrava giunta a quel grado in cui i desiderii numerosi e imperiosi non soffrono più alcun freno e richiedono il rapido appagamento. Gli sembrava ora per lei necessaria la presenza continua del maschio, necessario il lusso circostante. Ora ella gli appariva come una donna irresistibilmente data al piacere in qualunque forma, a traverso qualunque degradazione. Quando egli fosse scomparso o quando ella fosse stanca di quell'amore, la più larga e la più sicura delle offerte sarebbe stata accettata. Ella avrebbe anche potuto elevare il suo prezzo a un'altezza straordinaria. Infatti, dove mai trovare—pur su i mercati massimi—un più prezioso strumento di voluttà? Ella aveva ora tutte le seduzioni e tutte le sapienze; ella aveva appunto quella bellezza che colpisce gli uomini al passaggio e li turba a dentro e risveglia nel sangue l'implacabile brama; ella aveva l'eleganza felina della persona, il gusto raffinato del vestire, l'arte squisita dei colori e delle fogge armonizzanti con la sua grazia; ella aveva appreso a modulare, con una voce morbida e calda come il velluto de' suoi occhi, le sillabe lente che evocano i sogni e addormentano le pene; ella portava occulto nella sua sostanza un morbo che pareva talvolta illuminare misteriosamente la sua sensibilità; ella aveva a volta a volta i languori della malattia e le veemenze della salute; ella era, infine, sterile.—Si adunavano dunque in lei le virtù sovrane delle donne destinate a dominare il mondo col flagello della lor bellezza impura. La passione aveva in lei acuite e complicate queste virtù. Ora ella trovavasi al culmine della sua forza. Libera a un tratto da ogni vincolo, quale via avrebbe scelta per continuare la vita? Giorgio non aveva più alcun dubbio: sapeva bene quale. Egli si confermava nella certezza che la sua influenza sopra di lei erasi limitata alle cose dei sensi e ad alcune attitudini dello spirito fittizie. Il fondo plebeo era rimasto nella sua densità impenetrabile. Egli pensava ch'ella avrebbe derivato appunto da quel fondo la facoltà di adattarsi facilmente ai contatti di un amante non distinto da soverchie finezze fisiche e spirituali: di un amante, insomma, comune. E versando di nuovo nella coppa vuota quel vino da lei prediletto,—quel vino usato a rallegrare le cene segrete, a eccitare le chiuse piccole orgie moderne—egli nella sua fantasia atteggiava a impudichi eccessi «la romana pallida e vorace, insuperabile nell'arte di fiaccar le reni ai maschi».

—Come ti trema la mano!—notò Ippolita guardandolo.

—È vero—egli disse, simulando nella convulsione la gaiezza.—Sai che io sono già brillo? E tu non bevi. Ah, perfida!

Ella rise e bevve per la terza volta, provando un'allegrezza infantile al pensiero di divenire ebra, di sentire a poco a poco la mente offuscarsi. Già in lei i fumi del vino operavano. Il dèmone isterico incominciava ad agitarla.

—Guarda come mi si sono annerite le braccia!—ella esclamò sollevando oltre i gomiti le larghe maniche bianche.—Ma guarda i polsi!

Se bene la sua carne fosse bruna, d'un color d'oro caldo e opaco, ella aveva nei polsi una pelle estremamente fine, assai più chiara, d'un pallor singolare. Il sole aveva oscurata la parte delle braccia esposta; ma, di sotto, i polsi erano rimasti pallidi. E su quella finezza, a traverso quel pallore, trasparivano le vene esili ma visibilissime, d'un azzurro intenso, d'un azzurro pendente un poco nel violetto. Più d'una volta Giorgio aveva ripensato le parole di Cleopatra al Messaggero d'Italia: «Eccoti a baciare le mie più azzurre vene!»

Ippolita disse, tendendo l'uno e l'altro polso:

—Bacia!

Egli ne afferrò uno, e col coltello fece l'atto di secarlo.

—Taglia pure—sfidò ella.—Io non mi muovo.

Nell'atto, egli guardava fiso la delicata trama cerulea su quella pelle così chiara che pareva appartenere ad un altro corpo, a un corpo di donna bionda. E la singolarità l'attraeva e lo tentava esteticamente, suggerendogli un'imagine tragica di bellezza.

—Questo è il tuo punto vulnerabile—egli disse sorridendo.—Il segno è palese. Tu morrai svenata. Dammi l'altra mano!

Egli mise i due polsi accosto, e fece di nuovo l'atto di secarli con un sol colpo. Sorgeva compiuta nel suo spirito l'imagine.—Su la soglia marmorea d'una porta piena d'ombra e d'aspettazione appariva la moritura protendendo le braccia ignude alle cui estremità, dalle vene recise dei polsi, zampillavano e palpitavano due rosse fontane. E tra le due rosse fontane la faccia lentamente assumeva un soprannaturale pallore e le profondità degli occhi s'empivano d'un mistero infinito e su la chiusa bocca si disegnava la larva d'una parola indicibile. D'un tratto i due getti cessavano. Il corpo esangue cadeva indietro, di schianto, nell'ombra.

—Dimmi il tuo sogno!—pregò Ippolita vedendolo assorto.

Egli le rappresentò l'imagine.

—Bellissima!—ella ammirava, come davanti a una stampa.

E accese una sigaretta. Spinse dalle labbra una ondata di fumo contro la lampada, intorno a cui aliavano le farfalle notturne. Stette a guardare l'agitazione delle piccole ali variopinte tra i veli labili del fumo. Poi si volse verso Ortona che scintillava di luminarie. Si alzò da sedere, levò gli occhi alle stelle.

—Che notte calda!—disse, respirando forte.—Non hai caldo, tu?

Gittò la sigaretta. Di nuovo si scoperse le braccia. S'avvicinò a lui; gli arrovesciò d'improvviso il capo; lo avviluppò in una lunga carezza; gli percorse tutta la faccia con la bocca che strisciava languida e ardente in un bacio molteplice. Felina, gli si avvolse, gli si attorse; con un movimento quasi inesplicabile—tanto fu agile e furtivo—venne a sederglisi su le ginocchia; gli fece sentire la nudità a traverso il vestito leggero; gli fece sentire tutto il profumo della pelle, quel profumo stridulo e pur molle che nell'ora del gaudio diveniva inebriante come quello dei tuberosi.

Egli tremava in tutte le fibre, come dianzi tra le braccia di lei nella stanza invasa dall'ombra dell'ultimo crepuscolo. Ella scambiò quel tremito per l'orgasmo del desiderio; e le sue mani divennero provocatrici.

—No, no; lèvati!—egli balbettò respingendola.—Qui siamo veduti.

Ella si distaccò. In piedi, vacillava un poco. Veramente pareva ebra. Pareva che un vapore le passasse su gli occhi e nel cervello, oscurandole la vista e il pensiero.

—Che caldo!—sospirò, toccandosi con le palme la fronte e le gote accese.—Quasi mi spoglierei...

Ripeteva Giorgio in sé medesimo, tutto posseduto omai dall'idea fissa: «Debbo io morire solo?» Una specie d'urgenza dell'atto violento lo incalzava come più tarda si faceva l'ora. Egli udiva dietro di sé il ticchettìo dell'orologio che era nella stanza del letto; udiva i colpi ritmici della maciulla su un'aia remota. Quei due rumori cadenzati e dissimili acuivano in lui il sentimento della fugacità del tempo e gli davano una specie di terrore ansioso.

—Guarda a Ortona i fuochi!—esclamò Ippolita indicando la città in festa, che irraggiava il cielo.—Guarda quanti!

Razzi innumerevoli si partivano da un centro aprendosi nel cielo a guisa d'un ampio ventaglio d'oro che lentamente dal basso all'alto dissolvevasi in una pioggia di faville rare per mezzo a cui d'un tratto il ventaglio si rinnovava intero e splendido per dissolversi ancóra e poi per rinnovarsi, con una continua vicenda, mentre le acque rispecchiavano la mobile imagine. Giungeva uno strepito sordo come di moschetteria lontana, interrotto da tuoni più gravi a cui seguivano scoppii di bombe multicolori nel più alto azzurro. E la città e il porto e il lungo molo proteso apparivano ad ogni scoppio in una diversa luce trasfigurati fantasticamente.

Diritta contro il parapetto Ippolita ammirava lo spettacolo, accogliendo con esclamazioni d'allegrezza gli splendori più vivi. A intervalli su la sua persona bianca si diffondeva un riflesso d'incendio.

«Ella è sovreccitata, quasi ebra, disposta a qualunque follia» pensava Giorgio guardandola. «Io potrei proporle una gita di cui ella s'è mostrata più volte curiosa: proporle di attraversare una delle gallerie al lume d'una torcia. Io scenderei al Trabocco per prendere la torcia. Ella m'aspetterebbe all'ingresso del ponte. Di là poi la condurrei alla galleria pel sentiere che conosco. Farei in modo che il treno ci sorprendesse nel chiuso... Una imprudenza, una disgrazia.»

L'idea gli parve di non difficile attuazione: sortagli nello spirito con una straordinaria chiarezza, come se si fosse integrata nel fondo della sua incoscienza dal giorno in cui dinanzi alle rotaie luccicanti egli ne aveva avuto il primo baleno confuso. «Anch'ella deve morire.» La risoluzione s'affermava, incommutabile. Egli udiva dietro di sé il battito dell'orologio con un'ansia che non poteva domare.—L'ora doveva esser vicina. Forse appena appena essi avrebbero avuto il tempo di scendere. Bisognava operare senza indugio, accertarsi sùbito dell'ora precisa segnata in quel momento.—Ma gli pareva di non potersi levare dalla sedia; gli pareva che la voce gli sarebbe mancata nel rivolger la parola all'inconsapevole.

Balzò in piedi udendo il noto rombo lontano.—Troppo tardi!—E il cuore gli batteva così forte ch'egli credette veramente di morire nell'ambascia, mentre il rombo e il sibilo s'avvicinavano.

—Il treno!—disse Ippolita volgendosi.—Vieni a vedere.

Com'egli s'appressò, ella gli cinse il collo con un braccio nudo appoggiandoglisi all'òmero.

—Entra nella galleria—ella soggiunse, avvisata dalla diversità del fragore.

Agli orecchi di lui quel fragore cresceva spaventosamente. Egli vedeva, come in un'allucinazione, sé stesso e l'amante sotto la volta buia e il rapido avanzarsi dei fanali nelle tenebre e la breve lotta su le rotaie e la caduta d'entrambi e i corpi sfracellati dall'orribile violenza. Sentiva nel tempo medesimo il contatto della donna viva e carezzevole e pur sempre trionfatrice. E provava, misto all'orrore fisico per quella distruzione barbara, un rancore esasperato contro colei che sembrava sfuggirgli.

Chini sul parapetto entrambi guardarono passare il treno fragoroso veloce e sinistro che scoteva la casa dalle fondamenta e comunicava a loro medesimi quel fremito.

—Io ho paura, la notte, quando passa e scuote la casa,—disse Ippolita stringendosi sempre più all'amante.—Anche tu; è vero? Qualche volta ti ho sentito trasalire...

Egli non intendeva quelle parole. Era dentro di lui un tumulto immenso; era la più gagliarda e la più oscura agitazione che la sua anima avesse mai contenuta fino a quell'attimo. Pensieri ed imagini incoerenti gli turbinavano nel cervello mentre il cuore gli si torceva sotto mille punture crudeli. Ma un'imagine, fissa, dominava su tutte le altre; a poco a poco oscurava e fugava tutte le altre, rioccupando il centro dell'anima.—Che faceva egli, cinque anni innanzi, in quell'ora? Vegliava un cadavere; guardava una faccia nascosta da un velo nero, una mano lunga e pallida...

Le mani d'Ippolita lo toccavano inquietamene te, gli s'insinuavano nei capelli, gli vellicavano la nuca. Egli sentì sul collo, sotto l'orecchio, la bocca di lei umida e succhiante come una ventosa. Con un moto istintivo, che non poté frenare, si discostò, si ritrasse. Ella rise di quel singolar riso ironico e impudico che le balenava e le squillava nei denti quand'ella si trovava dinanzi a una repulsa dell'amante. E l'ossesso riudì le sillabe lente e limpide: «Per la paura dei miei baci.»

Un crepitìo sordo, misto di tuoni distinti, giunse ancóra dalla città in festa. Era una ripresa dei fuochi. E Ippolita si rivolse verso lo spettacolo.

—Guarda! Sembra che Ortona vada in fiamme.

Un vasto rossore si dilatava pel cielo, si rifletteva nelle acque; e v'appariva, dentro, il lineamento della città incendiata. I razzi v'irrompevano con folgorazioni incessanti; le bombe vi scoppiavano con larghe rose di splendori.

«Passerà anche questa notte?» chiedeva Giorgio a sé stesso. «Ricomincerà domani la vita? e sino a quando?» Un disgusto gagliardo come una nausea e un odio quasi selvaggio gli si levavano dalle radici dell'essere, s'egli pensava che anche per quella notte giacerebbe con la donna sul medesimo guanciale e ascolterebbe nell'insonnio il respiro della dormiente e sentirebbe l'odore e il contatto della carne accaldata e soccomberebbe di nuovo al desiderio e rimarrebbe di nuovo sotto il peso della bestiale tristezza e poi s'affaccerebbe di nuovo al giorno, si estenuerebbe nel consueto ozio fra le torture delle perpetue alternative...

Una luce vivissima lo colpì, richiamò il suo sguardo allo spettacolo esteriore. Una vasta rosa di candor plenilunare, aprendosi su la città festante, illuminava tutta la marina a gran distanza giù giù per quella successione di piccole baie falcate e di punte protese. La punta del Moro, la Nicchiòla, il Trabocco, le scogliere prossime e remote, perfino la Penna del Vasto, apparvero per qualche attimo nel grande sprazzo.

«Il promontorio!» suggerì d'improvviso a Giorgio Aurispa una voce segreta, mentre lo sguardo di lui cadeva su l'altura ben conosciuta che gli olivi contorti coronavano.

La luce candida si spense. La città lontana tacque, ancor distinta nella notte dalle sue luminarie. Nel silenzio, Giorgio percepì di nuovo le vibrazioni del pendolo e i colpi ritmici della maciulla. Ma ora egli poteva dominare la sua ambascia; si sentiva più forte e più lucido.

—Perché non usciamo un poco?—egli disse a Ippolita, con la voce appena appena alterata.—Perché non andiamo in qualche luogo aperto, a distenderci su l'erba e a godere il fresco? Vedi: la notte ora è chiarissima, quasi come una notte di luna.

—No, no—rispose Ippolita svogliatamente.—Restiamo qua.

—È presto ancóra. Hai già sonno tu? Tu sai: io non posso mettermi a letto troppo presto. Non dormo, soffro... Volentieri passeggerei un poco. Via, non esser pigra! Andiamo. Puoi venire come ti trovi, senza fatica.

—No, no... Restiamo qua.

Ella gli cingeva di nuovo il collo con le braccia nude, languida, lusinghevole, desiderandolo.

—Restiamo qua. Vieni a distenderti con me sul divano—ella lusingava, tentando di trarlo, invasa da un desiderio più acre come più egli le resisteva.—Vieni con me!

Era tutta ardente e tutta bella. La sua bellezza s'era accesa come una face. Il suo lungo corpo serpentino vibrava a traverso la tenuità della veste. I suoi grandi occhi oscuri emanavano il fascino delle supreme ore di passione. Ella era la sovrana Lussuria che ripeteva: «Io sono sempre l'invitta... Sono più forte del tuo pensiero... L'odore della mia pelle può dissolvere in te un mondo.»

—No, no, non voglio!—oppose Giorgio afferrandola per le braccia con una risolutezza quasi aspra, ch'egli non seppe moderare.

—Ah, tu non vuoi?—-ella irrise, piacendosi della lotta, sicura di vincere, incapace di rinunziare in quel momento al suo capriccio.

Egli si pentì dell'impeto. Per riuscire a trarla nell'agguato, egli doveva mostrarsi dolce e carezzevole, doveva simulare l'ardore e la tenerezza.—Certo egli l'avrebbe, dopo, persuasa alla gita notturna, all'ultima passeggiata.—Ma sentiva bene l'assoluta necessità di non disperdere nell'amplesso quella sua momentanea energia nervosa su cui doveva fare assegnamento per la prossima azione.

—Ah, tu non vuoi?—ripetè la donna riallacciandolo, fissandogli da presso gli occhi negli occhi con una specie di furia contenuta.

Egli si lasciò trarre dentro la stanza. Caddero entrambi allacciati sul divano.

Allora tutta la lascivia felina della Nemica si manifestò sul corpo di colui ch'ella credeva già vinto. Ella disciolse i suoi capelli, discinse le sue vesti, si agitò come un arbusto dalle foglie odorifere per rendere tutto il suo profumo. Quasi pareva ch'ella sapesse di dover disarmare, snervare, fiaccare quell'uomo per impedirgli di nuocere.

Sentì Giorgio che tutto era perduto. Si svincolò con uno sforzo ch'ebbe per intimo impulso una ferocia animale; abbatté la creatura terribile; e, tra il disgusto e l'ira, con le sue mani convulsamente soddisfece sino allo spasimo quella brama esasperata.

Si divincolava ella gemendo.

—Non più! Non più! Lasciami!

Egli persisteva, se bene soffocato dal disgusto, vedendola spasimare, udendo lo strano rumore che le mettevano nel ventre i sussulti del viscere sterile e infermo. Tutta l'ignominia del sesso era sotto gli occhi suoi.

—Non più! Lasciami!

Ed ella a un tratto fu presa da un riso nervoso, frenetico, incoercibile,—lugubre come il riso d'una demente.

Sbigottito, egli la lasciò. Con un orrore palese, la guardava pensando: «È la follia?»

Ella rideva, rideva, rideva, contorcendosi, coprendosi il volto con le mani, mordendosi le dita, premendosi i fianchi; rideva, rideva senza freno, scossa come da lunghi singulti sonori.

A intervalli s'arrestava per qualche attimo; poi ricominciava con un nuovo impeto. E nulla era più lugubre di quelle risa folli in quel silenzio della notte alta.

—Non aver paura! Non aver paura!—ella diceva negli arresti, vedendo l'amante perplesso e sbigottito.—Ora mi calmo. Vattene, va fuori. Ti prego!

Egli uscì su la loggia, come in sogno. Pure, il suo cervello era stranamente lucido e vigile. Tutto ciò ch'egli compiva, ch'egli sentiva, aveva per lui l'irrealità d'un sogno e nel tempo medesimo un significato profondo come quello di un'allegoria. Udiva egli ancóra dietro di sé le risa ma represse. Conservava ancóra nelle dita la sensazione della cosa impura. Vedeva, sopra e intorno, la bellezza della notte d'estate. Sapeva quel che era per compiersi.

Le risa cessarono. Nel silenzio egli percepì di nuovo le vibrazioni del pendolo e i colpi ritmici della maciulla su l'aia lontana. Trasalì quando gli giunse un gemito dalla casa dei vecchi.—Era il dolore di colei che stava per partorire.

«Tutto deve compiersi» pensò. E, rivolgendosi, mise il piede su la soglia senza vacillare.

Ippolita giaceva sul divano ricomposta, impallidita, con gli occhi socchiusi. Sentendo avvicinarsi l'amante, ella sorrise.

—Vieni! Siéditi!—mormorò, con un gesto vago.

Chinandosi verso di lei, Giorgio le vide tra i cigli l'umidità delle lacrime. Sedette da presso. Le chiese:

—Soffri?

—Mi sento un poco soffocata,—ella rispose.—Ho un peso qui, come un globo che mi sale e mi scende...

E indicò il mezzo del petto.

—Nel chiuso si soffoca—-egli disse.—Perché non ti fai forza per levarti, per uscire? L'aria ti gioverà. È una magnifica notte. Su, via!

Egli si alzò e le tese le mani. Ella gli porse le sue e si lasciò trarre. In piedi, scosse il capo per mandare indietro i capelli che ancóra erano sciolti. Poi si chinò a cercare sul divano le forcine smarrite.

—Dove saranno?

—Che cerchi?

—Le mie forcine.

—Lascia! Le troverai domani.

—Ma, senza, non posso ravviarmi i capelli.

—Lasciali così, sciolti. Mi piaci.

Ella sorrise. Uscirono su la loggia. Ella volse la faccia alle stelle e aspirò il profumo della notte d'estate.

—Vedi che notte?—disse Giorgio, con la voce roca ma dolce.

—Battono il lino—disse Ippolita tendendo l'orecchio al ritmo incessante.

—Scendiamo—disse Giorgio.—Passeggiamo un poco. Arriviamo fin là, agli olivi.

Egli pareva pendere dalle labbra di lei.

—No, no... Restiamo qua. Non vedi come sono?

Ella indicava le sue vesti gualcite e discinte.

—Che importa? Chi ci vedrà? Non s'incontra un'anima a quest'ora. Puoi venire così. Anch'io vengo così, senza cappello... Il paese è per noi quasi un giardino. Scendiamo!

Ella esitò per qualche attimo. Ma anch'ella provava il bisogno di rompere l'aria, di allontanarsi dalla casa dove le pareva risonasse ancor l'eco di quelle sue orribili risa.

—Scendiamo—consentì.

Il cuore di Giorgio parve arrestarsi, a quella parola.

Per un moto istintivo egli si avvicinò alla soglia della stanza illuminata. Gittò nell'interno uno sguardo pieno d'angoscia, uno sguardo di addio. Tutto il turbine dei ricordi gli si levò nell'anima perdutamente.

—Lasciamo accese le lampade?—chiese senza pensarci, provando nell'udire la sua propria voce una sensazione indefinibile di cosa lontana ed estranea.

—Sì—rispose Ippolita.

Discesero.

Giù per la scala si tenevano per mano, posando il piede di gradino in gradino con lentezza. Lo sforzo di Giorgio per contenere la sua ambascia era così fiero ch'egli si sentiva da quello esaltare stranamente e considerava l'immensità della notte credendola riempiuta dall'intensità della sua propria vita.

Scorsero sul parapetto dello spiazzo l'ombra d'un uomo immobile e silenziosa. Riconobbero il vecchio.

—Come qua, a quest'ora, Cola?—gli parlò Ippolita.—Non avete sonno?

—Sto a veglia per Candia—egli rispose—che ha le doglie.

—Doglie buone?

—Doglie buone.

La porta dell'abituro era infatti illuminata.

—Aspetta un minuto—disse Ippolita al compagno.—Vado a vedere Candia.

—No, non andare ora,—pregò Giorgio—non andare! La vedrai tornando.

—Bene; la vedrò tornando. Addio, Cola.

Scendendo nella viottola, ella mise un piede in fallo.

—Sta attenta!—ammoni l'ombra del vecchio.

Giorgio le offerse:

—Vuoi appoggiarti a me?

Ella mise il suo braccio sotto il braccio di lui.

Camminarono per un tratto in silenzio.

La notte era chiara, gloriosa di tutte le sue corone. La Grande Orsa imminente ardeva nel suo settemplice mistero. L'Adriatico, muto e puro come il cielo superiore, dava per soli indizii di sé il respiro e il profumo.

—Perché ti affretti?—domandò Ippolita.

Giorgio rallentò il passo. Dominato da un solo pensiero, incalzato dalla necessità dell'atto, egli non aveva se non una confusa conscienza di tutto il resto. La sua vita interiore pareva disgregarsi, decomporsi, disciogliersi in una sorda fermentazione che invadeva pur gli strati più profondi risollevandone alla superficie frammenti informi, di natura diversa, irriconoscibili come se non appartenessero alla medesima vita ma vi fossero intrusi. Ed egli percepiva tutte quelle cose strane folte agitate pugnanti, vagamente, come in un dormiveglia; mentre un punto solo del suo cervello aveva una straordinaria lucidità e lo guidava per una linea rigida all'atto finale.

—Che malinconia, quel rumore della maciulla su l'aia!—disse Ippolita soffermandosi.—Tutta la notte battono il lino. Non ti fa malinconia?

Ella gli si abbandonava sul braccio, gli sfiorava con le ciocche la guancia.

—Ti ricordi, ad Albano, quei selciatori che battevano le selci tutto il giorno sotto la nostra finestra?

Ella ora aveva la voce velata di tristezza, un po' stanca.

—Qualche volta a quel rumore ci assopivamo...

Ella s'interruppe, inquieta.

—Perché ti volti sempre?

—Mi pare di sentire un passo come d'un uomo scalzo—rispose Giorgio, piano; e s'accorse che la radice dei capelli gli era divenuta sensibile.—Fermiamoci.

Si fermarono, ascoltarono.

Giorgio era sotto il dominio di quel medesimo orrore che l'aveva agghiacciato dinanzi alla porta della stanza tragica. Tutto il suo essere tremava affascinato dal mistero, credendo di aver già varcato i confini di un mondo sconosciuto.

—È Giardino—disse Ippolita scorgendo il cane che s'appressava.—Ci segue.

Ed ella chiamò più volte l'amico seguace, che accorse saltellando. Si chinò ad accarezzarlo.

—Tu non lasci mai l'amica tua; è vero?—gli parlava con quel particolar suono di voce ch'ella soleva prendere quando blandiva gli animali a lei cari.—È vero? tu non la lasci mai...

Il cane riconoscente si rotolò nella polvere.

Giorgio fece qualche passo. Provava un grande sollievo nel sentirsi liberato dal braccio d'Ippolita, poiché fino a quel punto il contatto di lei gli aveva dato una sofferenza fisica indefinibile. Egli imaginava l'azione repentina e violenta che doveva compiere, imaginava la stretta mortale delle sue proprie braccia intorno al corpo di lei; e non avrebbe voluto più toccarla se non nell'attimo estremo.

—Vieni, cammina. Siamo giunti—disse, precedendola verso gli olivi che biancicavano al lume delle stelle.

S'arrestò sul limite dello spazio piano e si rivolse per assicurarsi ch'ella lo seguiva. Ancóra una volta gittò intorno, perdutamente, uno sguardo come per abbracciare l'imagine della notte. Gli parve che in quello spazio il silenzio fosse più profondo. Soltanto s'udivano i colpi ritmici della maciulla su l'aia lontana.

—Vieni—ripeté con una voce chiara, invaso da una sùbita energia.

E, passando fra i tronchi contorti, sentendo sotto il piede la mollezza dell'erba, si diresse verso il margine del precipizio.

Il margine era tutto libero in cerchio, senz'alcun riparo. Egli si sporse cautamente, poggiando le mani contro le ginocchia e su quel sostegno inchinando il busto. Osservò la scogliera sottoposta; vide un lembo della spiaggia ghiaiosa. Il morticino disteso su la ghiaia gli riapparve. Gli riapparve nella memoria la chiazza nerastra ch'egli e Ippolita dall'alto del Pincio avevano veduta sul lastrico a piè della muraglia; e riudì le risposte del carrettiere all'uomo verdiccio. E in confuso gli passarono su lo spirito i fantasmi di quel pomeriggio remotissimo.

—Bada!—gridò verso di lui Ippolita sopraggiungendo.—Bada!

Il cane latrava tra gli olivi.

—Giorgio! M'ascolti? Lèvati di là!

Il promontorio calava a picco su la deserta scogliera nerastra intorno a cui l'acqua tranquilla si moveva appena appena con un tenue sciacquìo cullando nelle sue lente ondulazioni i riflessi delle stelle.

—Giorgio! Giorgio!

—Non aver paura—egli disse, con la voce roca.—Avvicinati. Vieni! Vieni a vedere i pescatori che pescano tra gli scogli con le fiaccole...

—No, no. Ho paura della vertigine.

—Vieni! Ti reggo io forte.

—No, no...

Ella pareva colpita dal suono insolito della voce di Giorgio; e un vago sbigottimento cominciava a invaderla.

—Ma vieni!

Ed egli le si appressò con le mani tese. Rapidamente l'afferrò per i polsi, la trascinò per un piccolo tratto; poi la strinse tra le braccia, con un balzo, tentando di piegarla verso l'abisso.

—No, no, no...

Con uno sforzo rabbioso ella resistette, si divincolò, riuscì a liberarsi, saltò indietro anelando e tremando.

—Sei pazzo?—gridò con l'ira nella gola.—Sei pazzo?

Ma, come se lo vide venire di nuovo addosso senza parlare, come si sentì afferrata con una violenza più acre e trascinata ancóra verso il pericolo, ella comprese tutto in un gran lampo sinistro che le folgorò l'anima di terrore.

—No, no, Giorgio! Lasciami! Lasciami! Ancóra un minuto! Ascolta! Ascolta! Un minuto! Voglio dirti...

Ella supplicava, folle di terrore, divincolandosi. Sperava di trattenerlo, d'impietosirlo.

—Un minuto! Ascolta! Ti amo! Perdonami! Perdonami!

Ella balbettava parole incoerenti, disperata, sentendosi vincere, perdendo terreno, vedendo la morte.

—Assassino!—urlò allora furibonda.

E si difese con le unghie, con i morsi, come una fiera.

—Assassino!—urlò sentendosi afferrare per i capelli, stramazzando al suolo su l'orlo dell'abisso, perduta.

Il cane latrava contro il viluppo.

Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima un odio supremo.

E precipitarono nella morte avvinti.

Settembre 1889—Marzo 1894.

NOTA AI LIBRI IV E V

Tutte le particolarità etniche del quarto libro e del quinto sono rigorosamente esatte. I capitoli V, VI e VII del quarto libro—intorno al Santuario di Casalbordino—sono il risultato di una osservazione diretta, ripetuta nello stesso luogo e alla stessa epoca per più anni di seguito. Un'egual cura di verità è nell'episodio del Novello Messia. Oreste, nato da Agapito de Amicis e da Maria Raffaella de Philippis il 27 aprile 1824 in Cappelle, morì nel suo letto la sera del 20 settembre 1889. Su questo Messia (distinto forse da caratteri più notevoli di quelli che Giacomo Barzellotti illustrò in Davide Lazzaretti) Antonio de Nino ha raccolto con la consueta diligenza molti curiosi documenti in un saggio, poco noto, intitolato Il Messia dell'Abruzzo (Lanciano, Rocco Carabba, ed., 1890).

INDICE

 

A FRANCESCO PAOLO MICHETTI

LIBRO PRIMO IL PASSATO

LIBRO SECONDO LA CASA PATERNA

LIBRO TERZO L'EREMO

LIBRO QUARTO LA VITA NUOVA

LIBRO QUINTO TEMPUS DESTRUENDI

LIBRO SESTO L'INVINCIBILE

NOTA AI LIBRI IV E V


FINITO DI STAMPARE

 

IL XVI GIUGNO MCMXXXIV

 

NEGLI STABILIMENTI EDITORIALI

 

A. MONDADORI

 

IN VERONA

[The end of Trionfo della Morte by Gabriele D'Annunzio]